Le Storie di Ammiano Marcellino (tradotte da Francesco Ambrosoli)/Libro Decimottavo
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LE STORIE
DI
AMMIANO MARCELLINO
LIBRO DECIMOTTAVO
SOMMARIO
I. Giuliano Cesare provvede al bene dei Galli, e procura che la giustizia sia dovunque e da tutti osservata. — II. Ricostruisce le mura dei castelli presi da lui lungo il Reno: passa quel fiume, e dopo aver devastata una parte ostile dell’Alamagna costringe cinque re a domandar la pace ed a restituire i prigionieri. — III. Barbazio maestro dei fanti e la moglie di lui sono decapitati per ordine di Costanzo Augusto. — IV. Sapore re dei Persiani si apparecchia di assalire i Romani con tutte le sue forze. — V. Antonino, officiale delle guardie della persona, passa con tutti i suoi negli Stati di Sapore, e lo infiamma più vivamente alla guerra. — VI. Ursicino richiamato dall’Oriente e venuto già nella Tracia riceve ordine di ritornare nella Mesopotamia, dove fa esplorare da Marcellino l’arrivo di Sapore. — VII. Sapore invade la Mesopotamia coi re dei Chioniti e degli Albani. I Romani incendiano essi medesimi le proprie campagne; costringono gli abitanti dei villaggi a ridursi nelle città; e muniscono di castelli e di presidii la riva al di qua dell’Eufrate. — VIII. Settecento soldati d’Illiria a cavallo sono inopinatamente assaliti e scacciati dai Persiani. Ursicino e Marcellino si salvano. — IX. Descrizione della città di Amida e del suo presidio. — X. A Sapore si arrendono due castelli romani.
I. Queste cose nel volgere di un solo anno si fecero An. dell’E.V. 359 in varie parti del mondo. Ma nelle Gallie, essendo già venute le cose a miglior condizione, mentre il nome di Console sublimava i fratelli Eusebio ed Ipazio, Giuliano fatto illustre dai narrati successi, nel tempo de’ quartieri d’inverno, avendo poste dall’un dei lati le cure della guerra, con non minore diligenza disponeva molte cose tendenti all’utilità delle province: diligentemente osservando che niuno aggravasse oltre il giusto il peso dei tributi, che i potenti non usurpassero le cose altrui, che non trovassero luogo coloro i quali delle pubbliche calamità impinguano il lor patrimonio privato, e finalmente che nessun giudice impunemente deviasse dall’equità. La qual cosa potè fare assai di leggieri; perchè giudicando egli stesso le liti, ogni qualvolta lo esigesse l’importanza delle controversie o delle persone, discerneva imparzialmente il giusto dall’ingiusto. E benchè molti suoi fatti si potrebbon lodare in questa materia, ci basterà il riferirne qui uno solo, a somiglianza del quale furono tutti gli altri. Numerio, poc’anzi governatore del Narbonese, accusato di furto, con insolito rigore fu processato d’innanzi al tribunale del Principe ed al cospetto di quanti vollero intervenirvi: e difendendosi egli dalle accuse col negarle senza che fosse possibile convincerlo mai di nessuna, il severissimo oratore Delfidio che con grande veemenza lo assaliva, sdegnato del vedersi venir meno le prove sclamò: E chi mai, o egregio Cesare, potrà essere dichiarato colpevole, quando basti a scolparsi il negare? A cui Giuliano prudentemente, e in acconcio di quella occasione rispose: E chi mai potrà essere innocente, quando l’ essere accusato basti a far credere colpevole chicchessia? An. dell’E.V. 359 Queste e simili altre prove di giustizia egli diede.
II. Dovendo poi muoversi ad un’impresa urgente contro alcuni borghi alamanni, ch’egli aveva ragione di creder nemici e presti a tentar gravi cose qualora non fossero soggiogati al pari degli altri, stava sospeso pensando con quale forza e con quale celerità, precorrendo alla fama, potesse alla prima opportunità improvvisamente invadere quelle terre. E dopo molti e varii pensieri, finalmente deliberò di tentare quello che il buon successo dimostrò poi vantaggioso. Egli aveva mandato all’insaputa di tutti Ariobaude, tribuno soprannumerario, e uomo di nota fede e fortezza, in qualità di ambasciadore ad Ortario re già pacificato con noi, affinchè poi di colà facilmente avanzandosi fin sui confini di quelle genti contro le quali dovevansi presto movere l’armi, potesse indagare quel che facessero, come colui che benissimo ne conosceva il linguaggio. Ed essendosi già costui coraggiosamente partito per compiere questa incombenza, poichè fu venuta la stagione opportuna, Giuliano si mosse anch’egli alla spedizione colla milizia che aveva da ogni parte raccolta: e questo pensò che gli convenisse principalmente effettuare al più presto, d’impadronirsi cioè prima che si venisse alle mani, delle città diroccate già per l’addietro, e fortificarle; e costruir nuovi granaj in luogo di quelli che s’erano abbruciati, per riporvi le vettovaglie solite a trasportarvisi da’ Britanni. Le quali cose furono tutte e due compiute più presto che non s’era sperato: perocchè i granaj furono celeremente costrutti, e vi fu riposta abbondante vettovaglia; e si occuparono sette città, gli Accampamenti di Ercole, Quadriburgio, Tricesima, Novesio, Bonna, Antumnaco, e Bingio: dove con buona ventura apparve subitamente anche il prefetto Florenzio con una mano di soldati, An. dell’E.V. 359 e vettovaglia bastevole per lungo tempo. Dopo di che rimaneva a farsi una cosa di tutta necessità: si dovevano riedificare le mura delle città ricuperate, intanto che nessuno a ciò si opponeva; scorgendosi allora da chiari indizii che i Barbari ubbidivano per timore a quanto era richiesto dalla pubblica utilità, e i Romani per l’amore che avevano al loro capo. Quindi i re, conformemente al trattato dell’anno innanzi, inviarono co’ proprii carri molte cose opportune a quella costruzione; e i soldati ausiliarii che d’ordinario solevano rifiutarsi a così fatti lavori, indotti dalle carezze a secondare l’assiduità di Giuliano, portarono volonterosi sul proprio collo tronchi d’alberi lunghi cinquanta piedi e più, e grandemente si adoperarono ne’ servigi del fabbricare. Mentre siffatti lavori con gran diligenza compievansi ritornò Ariobaude che tutto aveva esplorato, e riferì ogni cosa. E dopo l’arrivo di lui si ridussero tutti frettolosamente a Mogonziaco: dove ostinandosi Florenzio e Lupicino, successor di Severo, che si dovesse passar il fiume sul ponte che colà si trovava, Giuliano fermissimamente si oppose, dicendo che non si dovevan calcare le terre de’ popoli pacifici, affinchè non si rompessero (come parecchie volte è avvenuto) intempestivamente i patti per la insolenza dei soldati che devastano tutto quanto vien loro alle mani. Tutti gli Alamanni frattanto, verso i quali il nostro esercito era diretto, pensando al vicino pericolo, intimarono minacciosamente al re Suomario, divenuto nostro amico in forza del precedente trattato, che contrastasse quel passaggio ai Romani: perocchè i paesi di lui stavano proprio lungo le rive al di là del Reno. Ma protestando quel re, che da sè solo non avrebbe potuto resistere, se ne venne presso Magonziaco An. dell’E.V. 359 una moltitudine di Barbari in uno raccolti, per impedire con grandi forze che il nostro esercito passasse oltre il fiume. Allora pertanto una duplice ragione fece conoscere quanto fosse stato opportuno il consiglio di Cesare, quando fu per esso evitato sì il danneggiare le terre di genti pacifiche, e sì il costruire un ponte con troppo danno de’ nostri dove sarebbesi opposta una plebe tanto bellicosa, mentre poteva cercarsi altro luogo acconcissimo al fabbricarlo. E i nemici avendo accortissimamente ciò conosciuto, si mossero di cheto lungo l’opposta riva, e dovunque vedevano i nostri accamparsi, vegliando anch’essi le intiere notti, con gran diligenza attendevano ad impedire che si tentasse il passaggio. Ma quando i nostri si furono poi appressati al luogo che avevano divisato, si circondaron di vallo e di fossa, e ristettero: e Cesare consigliandosi con Lupicino, ordinò ad alcuni tribuni di apparecchiare trecento soldati leggieri muniti di pertiche, senza che per altro sapessero nè quello che avrebbero a fare nè il luogo a cui dovrebbero andare. Proceduta poi oltre la notte, si raccolsero questi soldati, e postili sopra quaranta picciole barche (queste sole trovavansi allora colà) fu loro ordinato di correre a seconda del fiume col maggior silenzio possibile, tenendo persino i remi sospesi, acciocchè il suono dell’onde, non facesse accorgere i Barbari di quel loro viaggio; e cosi, mentre i nemici stavano osservando i nostri fuochi, eglino con destrezza procacciassero d’impadronirsi della sponda contraria. Nel mentre che queste cose facevansi, il re Ortario nostro confederato, non già con animo di mutar fede, ma come colui ch’era amico anche a’ suoi confinanti, avendo convitati i re tutti ed i principi e i grandi signori li tenne presso di sè fino alla terza vigilia, An. dell’E.V. 359 producendo sino a quell’ora il banchetto, secondo il costume nazionale. Partendosi poi costoro da lui furono improvvisamente assaliti dai nostri; ma gittandosi eglino col favor delle tenebre e dei veloci cavalli dovunque il caso li trasportava, non ne rimase nè morto nè preso pur uno: ben furono uccisi tutti que’ del convoglio e tutti i servi che li seguitavano a piedi, fuor pochi sottratti al pericolo dalla oscurità di quell’ora. Conosciutosi per tal modo il passaggio dei Romani, i quali allora del pari che in tutte le altre spedizioni, stimavano di trovare un compenso alle fatiche ogni qual volta venisse lor fatto discontrarsi col nemico, que’ re e que’ popoli, tutti intenti poc’anzi a impedire la costruzione del ponte, abbattuti e compresi da grave timore, si diedero sbandatamente a fuggire; e deposto l’indomabil furore, affrettavansi a trasportar più lontano le famiglie e le ricchezze. Quindi, rimossa ogni difficoltà, e fattosi il ponte più presto che non s’aspettavano quelle trepide genti, i nostri soldati comparsi sul territorio dei Barbari passaron pei regni di Ortario senza recar verun danno. Ma quando poi giunsero alle terre dei re tuttora avversarii, discorrevano intrepidi per mezzo al suolo di que’ rivoltosi abbruciando e rubando ogni cosa. E dopo aver messo il fuoco agli steccati ond’eran difese le deboli loro abitazioni, ed ucciso gran numero d’uomini, e veduti molti cadere, molti rivolgersi al supplicare, essendo finalmente pervenuti a quel luogo ch’ei chiamano Capellazio o Palas1, e dove alcuni termini distinguevano i confini degli Alamanni e dei BorgoBorgognoni, quivi si piantò il campo; per potervi ricevere An. dell’E.V. 359 senza sospetto Macriano ed Ariobaudo fratelli e re, i quali sentendo che lor s’appressava il pericolo eran venuti tremando a pregarci di pace. Subito dopo costoro venne anche il re Vadomario che aveva la sua stanza rimpetto a Rauraco; ed allegando alcuni scritti di Costanzo nei quali era fortemente raccomandato, fu accolto con quella dolcezza che si conveniva ad un uomo già ascritto dall’Imperatore alla clientela romana. Macriano frattanto introdotto in compagnia del proprio fratello fra le aquile e le insegne ch’egli vedeva allora per la prima volta, ammirava la varia bellezza delle armi e dei soldati, e pregava in favore de’ suoi soggetti. E Vadomario già pratico delle cose nostre, come colui che abitava presso al nostro confine, ammirava anch’egli l’apparecchio di quella grande spedizione, ma rammentava di aver già vedute di simili cose fin dalla prima fanciullezza. Quindi dopo lunghe deliberazioni, per consentimento di tutti fu accordata la pace a Macriano e ad Ariobaudo: a Vadomario poi il quale era venuto, non solamente per provvedere alle cose sue, ma sì ancora per ottenere la pace ai re Urio, Ursicino e Vestralpo, non si potè per allora rispondere: temendosi che costoro (essendo i Barbari d’instabile fede) ripigliando coraggio, tostochè i nostri si fossero allontanati, non ricusassero poi di ubbidire a que’ patti che avessero stabiliti per interposizione d’altrui. Ma quando poi dopo essersi vedute incendiare le messi e le case, dopo che molti dei loro furono presi od uccisi, mandaron legati a supplicarci come se avessero eglino stessi commesse le dette ostilità contro di noi, fu data anche a loro la pace con quelle condizioni che agli altri. E sopra tutto si domandò che restituissero prontamente quanti dei nostri avevan menati prigioni delle frequenti loro scorrerie. An. dell’E.V. 359
III. Mentre che una provvidenza celeste moderava così queste cose nelle Gallie, nuove turbolenze levaronsi nella corte d’Augusto, le quali da principio leggiere finirono poi con pianti e lamenti. Nella casa di Barbazio, allor generale dell’infanteria alcune api avevano fatto un bellissimo favo: e consultando egli sopra di ciò coloro che s’intendono di prodigi, gli fu risposto quello essere indizio di gran pericolo; e n’assegnavano questa ragione, che quegl’insetti quando hanno fabbricate le loro sedi e depostovi il mele soglion essere discacciati con fumo e con gran fracasso di cembali. Barbazio aveva in moglie una donna per nome Assiria, la quale non sapeva nè tacere nè esser prudente. Costei, quando Barbazio se ne fu andato alla spedizione non senza aver l’animo pieno di vario timore per quella predizione, sospinta da femminil leggerezza coll’opera di un’ancella perita nell’arte delle cifre e toccata a lei dall’eredità di Silvano2, scrisse intempestivamente al marito, pregandolo con molte lagrime, affinchè quando, dopo la morte già vicina di Costanzo, fosse innalzato come sperava all’imperio, non volesse tenerla a vile anteponendo il matrimonio di Eusebia già regina e ragguardevole fra le donne per la bellezza del corpo. Questa lettera fu spedita quanto più si potè di nascosto: ma la servente che l’aveva scritta sotto la dettatura della padrona, quando tutti furon tornati da quella spedizione, fuggi nel primo sonno della notte ad Arbezione portandone seco un esemplare; e ricevuta da lui con grande sollecitudine, gli mostrò quella carta. Il quale munito di quell’indizio, com’era naturalmente spertissimo nell’arte dell’accusare, An. dell’E.V. 359 denunciò la cosa all’Imperatore: e secondo il costume non si mise più tempo in mezzo. Barbazio confessò d’aver ricevuta quella lettera: la moglie di lui fu da irrefragabili prove convinta d’averla scritta; e a tutti e due fu tagliata la testa. Dopo la punizione di costoro poi, si allargarono ampiamente i processi e molti furono vessati, colpevoli e innocenti del pari. Fra i quali anche Valentino (che di capo delle guardie del corpo3 era divenuto tribuno) fu soggettato parecchie volte ai tormenti siccome creduto conscio di quella congiura, benchè ne fosse intieramente ignorante: d’onde poi, quasi a compensare quell’ingiuria e quel pericolo, ottenne la podestà di duca nel1 Illiria. In quanto a Barbazio poi era uomo di rozzi ed arroganti costumi, ed odioso a molti, perchè quando sotto Gallo era stato capo delle guardie della persona si era fatto conoscere traditore e sleale; e dopo la morte di Cesare, insuperbito dal grado di una più nobil milizia, tesseva uguali calunnie anche a danno di Giuliano; e di frequente, con detestazione de’ buoni, mormorava molte e gravi accuse alle aperte orecchie d’Augusto. Nel che mostrò d’ignorare per certo quell’antico e sapiente dettato di Aristotele, il quale, inviando Callistene suo seguace e parente al re Alessandro, gli raccomandò spesse volte di parlare il men che gli fosse possibile e sempre di cose liete con quell’uomo che portava sulla punta della lingua sentenza di vita o di morte. Nè alcuno si meravigli che gli uomini, le cui menti crediamo essere affini colle celesti, qualche volta sappian discernere le cose utili dalle dannose; quando anche gli animali privi della ragione sogliono in certi casi provvedere An. dell’E.V. 359 alla propria salute con un profondo silenzio: di che è notissimo il seguente esempio. Le oche abbandonando l’Oriente a cagione del soverchio calor che vi fa, e dirigendosi alle regioni occidentali, quando pervengono al monte Tauro dove sono molte aquile, per tema di que’ fortissimi uccelli, s’empiono il becco di sassolini, affinchè nessuna necessità, benchè estrema, possa trar mai da loro alcun grido; e quando poi con celere corso hanno passati quei gioghi, gittano quelle pietruzze, e così proseguono con più sicurezza il loro viaggio.
IV. Nel mentre che a Sirmio si facevan con somma diligenza questi processi, la fortuna d’Oriente dava fiato alle trombe terribili della guerra. Perocchè il Re persiano rinforzato dai soccorsi di quelle fiere nazioni che aveva ridotte alla pace, ed acceso dal desiderio di accrescere il proprio regno, apparecchiava arme, uomini e vettovaglie, chiamando a parte de’ suoi consigli le ombre de’ trapassati4 e consultando tutti i prestigiatori intorno ai fatti avvenire. E provvedute così tutte queste cose meditava di assalire l’imperio al primo spuntar della primavera: di che recaron notizia prima incerti romori, poi sicuri annunzii; ed una grande paura delle imminenti calamità occupò e tenne sospesi gli animi tutti. Frattanto nella cortigianesca fucina battendosi dì e notte (come suol dirsi) sulla medesima incudine a senno degli spadoni, si veniva mostrando Ursicino all’Imperatore già timido ed ombroso, sotto il terribile aspetto del capo di Medusa: e spesse volte gli ripetevano, An. dell’E.V. 359 che costui rimandato dopo la morte di Silvano a difendere i paesi orientali, come se fosse inopia d’uomini migliori di lui, aspirava a più sublime fortuna. E con questa turpissima adulazione parecchj cercavano di guadagnarsi il favore d’Eusebio allora primo ciambellano, appo il quale (se vogliam dire la verità) Costanzo ebbe grande potere5, Costui per doppia ragione acremente insidiava alla salute del predetto maestro della cavalleria: prima perchè egli solo non aveva, come tutti gli altri, bisogno della sua protezione; poi perché non avea mai voluto cedere a lui una casa che possedeva in Antiochia, sebbene gliela avesse con ogni istanza richiesta. Laonde a guisa di un serpente a cui soverchj il veleno, e che eserciti a nuocere i suoi figliuoletti ancor mal capaci di strascinarsi pel suolo, egli mandava fuori i più esperti fra’ ciambellani da lui dipendenti, affinchè ne’ più segreti uficii della vita, con quella loro vocina sempre puerile e gracile assediando le troppo credule orecchie del Principe, abbattessero con gravi accuse la reputazione di quell’uom valoroso: ed essi in breve eseguirono quanto eransi a loro imposto. Nello sdegno a che muovonmi queste e le simili cose mi piace lodare il vecchio Domiziano, il quale benché per esser dissimile dal padre e dal fratello, abbia coperta d’inespiabile detestazione la memoria del proprio nome, pure si fece glorioso per una legge a tutti carissima colla quale sotto gravi minacce avea proibito a chicchessia il mutilare un fanciullo dentro i confini della romana giurisdizione: chè se questo non fosse stato, chi potrebbe tollerare i numerosi sciami di queste genti, An. dell’E.V. 359 mentre è difficile comportarne anche i pochi? Eusebio frattanto procedette con grande cautela, affinchè non avvenisse, com’egli andava dicendo, che Ursicino richiamato di nuovo intorbidasse ogni cosa; ma sì fosse tratto a morire quando il caso ne presentasse l’opportunità. Mentre costoro aspettavano quelle occasioni e vivevano in dubbioși pensieri, noi rimasti alcun poco in Samosata, altre volte chiarissima capitale del regno Comageno, sentimmo in un subito frequenti e reiterati romori di una nuova ribellione, di cui parleremo in progresso del nostro libro.
V. Un certo Antonino che di ricco mercatante era divenuto computista addetto al governatore della Mesopotamia, trovavasi allora ascritto alla guardia della persona. Costui esperto e prudente e conosciutissimo in tutte le terre orientali, fatto cadere in gravissimi danni dall’avidità di alcuni, e vedendo che a forza di litigar co’ potenti trovavasi sempre più abbattuto dall’ingiustizia (perchè le persone alle quali si commettevan gli affari inclinavano a favorire i più grandi), per non dar di cozzo indarno coi sommi, si volse a più blande maniere: e confessando egli il debito che per collusione erasi fatto comparir cosa del fisco6, e meditando già gravi cose, si diede ad investigar di nascosto le parti di tutta la repubblica; e come colui che conosceva le due lingue, ed era versato già in questi affari, potè conoscere per l’appunto che soldati e di che forze stanziassero in ciascun luogo, An. dell’E.V. 359 e quali paesi presidiassero in caso di guerra, e le armi e le vettovaglie che avevano, e quanto abbondassero o no delle altre cose necessarie al combattere investigava con indefessa ricerca. E poich’ebbe conosciute tutte le cose interne dell’Oriente, e che la più gran parte dei soldati e del danaro trovavasi allora nel paese illirico, dove l’Imperatore era trattenuto da gravi faccende, approssimandosi il giorno prefisso al pagamento di quella somma ond’egli dalla forza e dal timore costretto si era confessato debitore in iscritto, veggendo tutti i pericoli che da ogni parte opprimevanlo, e il Conte delle largizioni sempre più inclinato a favorir gli avversarii, seriamente pensava di rifugiarsi presso i Persiani colla moglie, coi figliuoli e con tutti i congiunti. E per ingannare i soldati ch’eran colà di presidio comperò nella provincia dell’Jaspide un fondo di picciol prezzo, bagnato dalle correnti del Tigri: e con questo artifizio, non osando più alcuno domandargli il motivo del suo portarsi a quelle ultime parti del romano confine, dov’egli non era già il solo possessore di terre, per mezzo di alcuni suoi servi fidati ed esperti nell’arte del nuoto tenne occulti colloquii con Tamsapore, il quale allora, siccome capo di un esercito, presidiava tutta l’opposta riva, e già lo conosceva: laonde essendogli mandata dagli accampamenti persiani una scorta d’uomini agilissimi, sopra picciole barche di notte tempo tragittò il fiume con tutto quanto avea di più caro, a somiglianza (sebbene con intenzione contraria) di quel Zopiro che fece cadere Babilonia7. Mentre così andavan le cose nella Mesopotania, An. dell’E.V. 359 la schiera de’ cortigiani intuonando l’antica canzone a noi rovinosa, trovò finalmente occasione di nuocere ad un fortissimo uomo, essendo consigliero e suscitatore del fatto il ceto degli spadoni; i quali aspri sempre e crudeli, e privi d’ogni altro più tenero affetto, amano sol le ricchezze come carissime figlie. E fermarono la sentenza di preporre ai paesi d’Oriente Sabiniano, uom vecchio e assai danaroso, ma imbelle ed ignavo, e per l’oscurità sua lontanissimo dall’aspirare alla dignità di quella incombenza. Ursicino poi, il quale doveva succedere a Barbazio siccome capo della milizia pedestre, se ne tornerebbe alla corte; dove quell’uomo, com’essi dicevano, sempre avido suscitatore di novità, si farebbe assalire da’ nemici gravi e tremendi. Intanto che nella corte di Costanzo si ordivano queste cose come se si trattasse di un giuoco da banchetto o da scena, ed alcuni emissarii8 andavano distribuendo nelle case più potenti il prezzo dei suffragi per quella carica d’improvviso venduta, Antonino condotto ai quartieri d’inverno del Re vi fu accolto assai volentieri: e nobilitato dalla permissione di portare la tiara9 (in forza del quale onore è lecito di partecipare alle mense reali, e i benemeriti de’ Persiani acquistano il diritto di favellare nelle concioni per consigliare o dire il proprio parere ), senza lunghi giri di parole e senza oscurità, ma con piena energia scagliavasi contro la repubblica; ed eccitando il Re, come una volta Maharbale rimproverava Annibale di lentezza10 An.dell’E.V. 359, non cessava mai di ripetergli che potea vincere a suo senno ma non sapeva usare della vittoria. Imperciocchè quell’uomo educato fra noi, e pratico di tutte le cose nostre, avendo trovati attenti uditori che ricevevano volentieri quelle sue voci che loro lusingavan gli orecchi, e non lo interrompevan con lodi, ma sì piuttosto lo ammiravan tacendo come i Feaci di Omero11, riandava a mente le cose avvenute nel corso di quarant’anni: che dopo i continui casi delle guerre, principalmente presso Ilea e Singara, dove si combattè aspramente durante la notte, essendo gli eserciti nostri da grande strage soverchiati, come se un feciale avesse imposto fine alla pugna, i Persiani vittoriosi non s’erano impadroniti nè di Edessa nè dei ponti sull’Eufrate; mentre sarebbe pur convenuto ch’essi fidandosi nella possanza dell’armi e in quegli splendidi successi avessero ampliato il proprio dominio, approfittando principalmente di quel tempo nel quale il fior del sangue romano versavasi d’ogni parte nelle turbolenze delle guerre civili. Di questa maniera quel fuggitivo conservandosi sobrio ne’ banchetti, nei quali i Persiani secondo il costume dei Greci antichi, soglion trattar delle guerre e delle cose di gran rilievo, infiammava il Re già di sua natura ardente, affinchè quando fosse passato l’inverno, confidando nella grandezza della propria fortuna, corresse subito all’armi: promettendogli inoltre lealmente l’opera sua dovunque potesse parer necessaria.
VI. Quasi sotto i medesimi giorni Sabiniano inorgoglito della podestà repentinamente acquistata, ed entrato nei confini della Cilicia, consegnò al suo predecessore le lettere dell’Imperatore An. dell’E.V. 359 che lo esortava a venire sollecitamente alla corte, dove sarebbegli conferita una maggior dignità: e questo in tal punto, in cui la grandezza degli affari avrebbe invece richiesto che Ursicino si mandasse in Oriente quand’anche si fosse trovato allora, come suol dirsi, nell’ultima Tule; perocchè egli ottimamente conosceva l’antica nostra disciplina, e per lungo uso era pratico dell’arte militare dei Persiani. Dalla quale notizia spaventate le province, le città ed i popoli con decreti e con frequenti acclamazioni a forza volevano trattenere presso di sè quel pubblico difensore; perchè da un lato si ricordavano ch’egli, quantunque lasciato alla loro custodia con un esercito inerte e non uscito in campo giammai, pure nel corso di dieci anni non aveva sofferto perdita alcuna, e stavan dall’altro in timore della propria salute, avendo sentito che in tempo sì dubbio volevasi rimover da loro Ursicino e mandare in luogo di lui un uomo inertissimo. Noi crediamo (nè può rimanere alcun dubbio) che la fama velocissima voli per aerei sentieri: la quale avendo fatte palesi coteste cose, i Persiani ne tennero gravi consigli; e dopo molte contrarie proposte, seguitando il parere di Antonino fu deliberato, che essendosi allontanato di là Ursicino, e succedutogli uno spregevole capitano, eglino senza attendere ai pericolosi assedii delle città, superando l’Eufrate, dovessero spingersi innanzi: affinchè, prevenendo colla celerità la fama, potessero occupar le province non tocche mai dalla guerra (fuorchè nei tempi di Galieno) ed arricchite da lunghissima pace: della quale spedizione Antonino stesso, col soccorso del cielo, prometteva di poter essere utilissimo condottiero. Lodato pertanto questo consiglio e confermato dalla concorde volontà di tutti, ciascuno si diede a mettere insieme le cose An.dell’E.V. 359 occorrenti, e per tutto l’inverno si apparecchiarono vettovaglie, soldati, arme e quant’altro era richiesto da quell’imminente spedizione. Noi frattanto dopo esserci trattenuti alcun poco al di qua del Tauro, affrettandoci secondo l’ordine avuto alla volta d’Italia, giugnemmo in vicinanza dell’Ebro12 che scorre dalle montagne di Odrisia; e quivi ricevemmo altre lettere dell’Imperatore le quali ci ordinavano di ritornare subitamente nella Mesopotamia, senza alcun seguito di ufficiali,13 e senza darci pensiero d’alcuna pericolosa spedizione, dacchè tutto il potere erasi conferito ad un altro. La qual cosa era stata di tal maniera ordita da chi padroneggiava allora l’imperio, affinchè se i Persiani fosser costretti di ritornare senza alcun frutto alle proprie sedi, potessero assegnare al nuovo capitano la gloria di quella nobile impresa; e se invece toccasse ai nostri la peggio, potessero accusare Ursicino siccome reo di aver tradita la repubblica. Balestrati adunque così senza motivo, e ritornati addietro dopo lunghe dubbiezze, trovammo Sabiniano, uomo d’instabil carattere, di mediocre statura e d’animo picciolo e misero, ed appena capace di sostenere senza paura il lieve strepito d’un convito, non quello d’una battaglia. Tuttavolta perchè gli esploratori sulla deposizione concorde de’ fuggitivi affermavano farsi dagl’inimici apparecchi d’ogni maniera, e quell’omicciattolo non sapeva che far dovesse, n’andammo celeremente a Nisibi per apparecchiare quanto poteva esser utile ad impedire che i Persiani (i quali vano di non pensar punto all’assedio), piombassero d’improvviso An. dell’E.V. 359 sopra quella città sprovveduta d’ogni difesa. E mentre si stavano sollecitando colà le cose più necessarie, il fumo ed i fuochi che di continuo splendevan di qua dal Tigri nel sito detto Castra Maurorum, a Sisara e negli altri luoghi circonvicini, mostravano che le truppe devastatrici degli avversari, superato quel fiume, avevano invaso il nostro paese. Laonde, per impedire che fossero intercettate le strade, noi uscimmo di Nisibi, e proceduti a due miglia dalla città, vedemmo nel mezzo della strada un fanciullo piangente, di bell’aspetto, con un monile al collo14, dell’età di otto anni secondo che a noi pareva, e figliuolo, com’egli stesso diceva, di nobile genitore: ma la madre fuggendo, per terror dei nemici vicini, trepidante e confusa l’aveva derelitto in quel luogo. Per comando del capitano impietosito e commosso, pigliai meco allora a cavallo questo fanciullo; e camminando con esso di nuovo alla volta della città, vidi che i predatori nemici andavano largamente aggirandosi intorno alle mura. Per che, spaventato alla vista dei mali che sempre accompagnan gli assedii, lasciando il fanciullo in una porta socchiusa, a tutto corso e quasi esanime mi rivolsi dov’era il grosso dei nostri, e per poco che non fui preso. Perocchè una banda di cavalleria nemica s’era data a inseguire un tribuno per nome Abdigido, che fuggiva col proprio scudiero: ma involatosi a loro il padrone, presero il servo; ed io passai rapidamente in quella ch’essi stavano domandandogli chi fosse il capitano inoltratosi alla lor volta: i quali poi, avendo saputo ch’era Ursicino, entrato poc’anzi nella città ed ora avviatosi al monte Izala, uccisero quel servo, e An.dell’E.V. 359 raccoltisi insieme parecchj e correndo qua e là si misero a cercare di noi. Ma avendoli io avanzati colla rapidità del mio cavallo, vidi i nostri nelle vicinanze della debole piazza di Amudio, che mentre i cavalli pascevan dispersi qua e là, se ne stavano a gran fidanza sdrajati. Laonde stendendo il braccio, e sventolando in alto il lembo del mio abito militare, feci loro conoscere con quel consueto segnale che i nemici eran vicini; poi unitomi a loro proseguij con essi la fuga, benchè al mio cavallo venissero meno le forze. Ci spaventavano poi il plenilunio che rischiarava la notte, e l’aperta pianura dei campi, la quale se il nostro pericolo si fosse fatto maggiore non ci presentava nessun nascondiglio, non vedendosi in essa nè alberi, nè macchie, nè cosa alcuna fuorchè umili erbette. Fu immaginato pertanto di raccomandare ad un cavallo una lampada accesa per modo che non potesse caderne, poi lasciare che se n’andasse tutto solo e senza guida a sinistra, mentre noi ci avvieremmo alle gole dei monti che ci stavano a destra; affinchè i Persiani credendo quella esser la face15 da cui fosse preceduto il generale nel suo lento cammino si dirizzassero principalmente colà: che se questo non si faceva, noi tutti, circondati e presi, saremmo venuti in poter del nemico. Usciti poscia da quel pericolo, e rifugiati in un luogo arboroso e tutto pieno di viti e di pomiferi arbusti, denominato Majacarire16 per le gelide fonti che quivi sono, essendone fuggiti tutti gli abitanti, non vi trovammo se non solamente un soldato, nascosto in un segreto recesso. Il quale essendo menato dinanzi al nostro condottiero, An. dell’E.V. 359 e variamente parlando per la paura, fece nascer sospetto di sè; ma vinto poscia dalle minacce che gli erano fatte palesò sinceramente ogni cosa: nato nelle Gallie in Parigi, aver militato nella cavalleria: poi temendo il castigo di un delitto in cui era caduto, esser passato siccome fuggiasco presso i Persiani: quivi aver presa in moglie una donna di lodati costumi ed avutane figliuolanza: mandato parecchie volte fra noi come esploratore, aver riportate veraci notizie ai nemici: ed anche allora, spedito a tal fine da Tamsapore e da Noodare condottieri d’alcune bande di predatori, tornarsene ad essi per informarli di quello che aveva potuto scoprire. Dopo di che avendo anche manifestato quel che facevasi presso i nemici, fu ucciso. Laonde facendosi ognora più grave la nostra condizione, intanto che ne avevamo ancor tempo, a gran fretta ci portammo in Amida17, città che divenne poi celebre per le sciagure alle quali soggiacque. Dove essendo tornati anche i nostri esploratori trovammo nell’interno d’una vagina una pergamena scritta con cifre, la quale ci era inviata da quel Procopio ch’io dissi già prima essere stato spedito come ambasciadore nella Persia in compagnia del conte Lucilliano18. Egli pertanto, studiosamente oscuro, affinchè se gli apportatori fossero presi e si comprendesse il significato di quelle scritture, non ne nascesse qualche sinistro, così ci diceva: Rimosși di gran tratto gli ambasciadori dei Greci, destinati fors’anco alla morte, il re Longevo19, non contento dell’Ellesponto, An. dell’E.V. 359 gettando ponti sul Granico e sul Rindaco verrà ad invadere l’Asia con popoli numerosi; irritabile e durissimo uomo già per sè stesso, consigliato poi e stimolato all’impresa dal successore di Adriano principe che fu di Roma: se la Grecia non si guarda, tutto è finito per essa. Le quali parole significavano che il Re dei Persiani, valicando il fiume Anzaba ed il Tigri per esortazione di Antonino, aspirava al dominio di tutto l’Oriente. Però come s’ebbe letta, non senza gravissima difficoltà, quell’ambigua scrittura fu preso un prudente consiglio. Era in quel tempo Satrapo della Corduena, la quale ubbidiva alla podestà dei Persiani, un certo Gioviano vissuto mentre era fanciullo sul territorio romano e però occultamente a noi inclinato, come colui che, essendo stato già tempo nella Siria in qualità di ostaggio e dilettandogli la dolcezza degli studii liberali, ardentemente agognava a ritornare fra noi. Ora essendo io spedito con un fidatissimo centurione a costui per esplorare più addentro quello che i nostri nemici facessero, viaggiando per monti dove non erano strade, e per angustie piene di precipizii, finalmente vi giunsi. E visto e riconosciuto da lui ed accolto piacevolmente, poich’ebbi confessata a lui solo la vera cagione di quel mio viaggio, mi fu data una scorta fedele e pratica di que’ luoghi, la quale mi conducesse a certe lontane rupi elevate, d’onde se a tanto, mi bastasse la forza degli occhi avrei potuto vedere minutamente ogni cosa per lo spazio di cinquanta miglia. Colà ristemmo due giorni, e nel terzo essendo apparsa la chiara luce del sole vedemmo tutta la soggetta pianura, o come suol dirsi tutto l’orizzonte, pieno in ogni sua parte d’innumerabili schiere, An. dell’E.V. 359 e il Re innanzi ad esse rilucente per lo splendor della veste. E vicino a lui da mano manca veniva Grumbate re dei Chioniti, di mezzana età, con volto rugoso, ma di gran mente, ed illustre per molte insigni vittorie. Alla destra poi cavalcava il Re degli Albani, pari di grado e di onore. Appresso venivano parecchj capitani eminenti per autorità e per cariche; e seguitavali una moltitudine raccolta dal fiore delle genti vicine, ed ammaestrata da lunghi casi a tollerare l’asprezza di qualsivoglia fortuna. O favolosa Grecia! e fino a quando vorrai tu ricordarne Dorisco città della Tracia, e gli eserciti a schiere a schiere noverati colà in uno steccato20? Mentre noi per lo contrario cauti, e meglio potrei dire anche timidi, non esageriamo punto nè poco sopra quello di che fanno fede testimonii nè dubbii nè incerti.
VII. Dopo che i re già nominati si furon lasciata da tergo Ninive, grande città dell’Adiabene, avendo sul ponte dell’Anzaba scannate le vittime e trovato che le viscere promettevano loro prosperi eventi, con grande allegrezza varcaron quel fiume: e noi congetturando che la moltitudine ond’erano seguitati non passerebbe in men di tre giorni, ritornammo celeremente dal Satrapo. Ristoratici poi nel riposo e nelle ospitali agiatezze, ripigliammo il cammino: e tornati più rapidamente An. dell’E.V. 359 che non avremmo sperato, per luoghi pure deserti e solinghi, secondochè ci animava la necessità, fummo cagione che i nostri tuttora sospesi pigliassero finalmente quel partito che pareva il migliore, avendo ad essi manifestato senza alcun velo avere i Re già superato uno dei ponti navali. Furono quindi subitamente spediti annunzii a cavallo a Cassiano duca della Mesopotamia, non meno che ad Eufronio allora governatore della provincia, affinchè eccitassero i contadini di colà intorno a trasportarsi colle famiglie e co’ loro armenti in luoghi più sicuri, e gli abitanti di Carra ad abbandonare quella città circondata da muri mal fermi: e fu imposto eziandio che si mettesse il fuoco per tutti i campi, affinchè non restasse alcun pascolo ai sopravvegnenti nemici. Quegli ordini furono senza indugio compiuti; ed appiccato il fuoco per tutto, fu cosi grande la violenza di quell’elemento, che abbruciò tutte le biade già biondeggianti per le turgide spiche, e le erbe alcun poco cresciute; per modo che dalle spiagge del Tigri sino all’Eufrate nulla più si vedeva di verde. In quella occasione rimasero abbruciate parecchie bestie feroci, e soprattutto molti leoni che sono d’immane ferocia in que’ luoghi, e soliti ad essere o distrutti od accecati nel modo seguente. Fra i canneti de’ fiumi e le macchie della Mesopotamia si aggirano innumerevoli leoni, innocui sempre nella stagione del verno per la incredibile mollezza del clima: ma quando poi la stagione s’infuoca ai raggi del sole in quella regione sì calda, sono agitati ad un tempo e dalla vampa del pianeta e da grandi tafani ch’empiono a sciami a sciami quelle terre. E perchè quegl’insetti si drizzano agli occhi de’ leoni come alle parti che veggono umide e rilucenti, e piantandosi Pagina:Le-Storie-Di-Ammiano-Marcellino-Tradotte-Da-Francesco-Ambrosoli-Con-Note- vol-1.djvu/220 spazio di cento miglia in cui un’arsura continua distrugge An. dell’E.V. 359 ogni cosa, nè v’ha acqua se non poca ne’ pozzi, stettero lungamente dubbiosi pensando al partito che meglio dovessero pigliare: e già confidando nella vigoria dei soldati si apparecchiavano d’attraversare que’ luoghi, allorchè dalla relazione di un sicuro esploratore riseppero che l’Eufrate, gonfiato dalle nevi disciolte, allagava gran paese coi flutti, e non poteva guadarsi. Di che vedendo uscir vano contro ogni loro speranza quello che avevano divisato, si deliberarono di seguitare ciò che l’occasione lor presentasse di meglio: e bandito un concilio secondochè esigeva l’urgente condizione delle cose, Antonino essendo richiesto del parer suo propose che si piegasse a destra il viaggio, e con lungo circuito attraversando, lui condottiero, ampie regioni feraci di tutto quanto può bisognare, nè toccate finor dal nemico, si occupassero i due forti Bargala e Laudia: dove il fiume ancor picciolo ed angusto, siccome vicino all’origine sua, nè ingrossato per anco da acque straniere, potrebbesi facilmente passare a guado. Sentite queste cose, e lodatone Antonino, fu incaricato di condurre l’esercito per que’ luoghi a lui noti, e tutte le schiere seguitarono lui, deviando dall’impreso cammino.
VIII. E noi avendo avuta sicura notizia di lutto questo ci disponemmo d’andare a gran fretta sopra Samosata, affinchè valicato ivi il fiume e tagliati i ponti appresso Zeugma e Capersana, se la sorte ci favorisse alcun poco, potessimo impedire l’impeto del nemico. Ma intervenne un caso atroce, un vituperio degno d’esser sepolto nel più profondo silenzio. Perocchè due schiere di cavalleria in numero di circa settecento, mandate poc’anzi dall’Illiria in soccorso della Mesopotamia, come gente fiacca e paurosa, essendo messe a guardia Pagina:Le-Storie-Di-Ammiano-Marcellino-Tradotte-Da-Francesco-Ambrosoli-Con-Note- vol-1.djvu/222 caduto non di mio volere ma di necessità in questa colpa An. dell’E.V. 359 ch’io pure riconosco e confesso. Ben sai che i miei persecutori mi hanno costretto alla fuga; all’avarizia dei quali non potè resistere neppure la tua eccelsa fortuna impietosita delle mie miserie. Così dicendo si ritrasse; ma nel togliersi dal nostro aspetto non voltò già le spalle, bensi camminava rispettosamente a ritroso, col petto sempre rivolto a noi. E mentre codeste cose avvenivano nel breve spazio d’una mezz’ora, i nostri soldati del retroguardo, i quali trovavansi sulle parti più elevate del colle, gridando ci avvisarono d’aver veduta un’altra grandissima moltitudine di corazzieri che loro si appressava alle spalle. E stando noi, come suole avvenire in somiglianti occasioni, a pensare da qual lato dovessimo o potessimo muoverci, sospinti dal peso di un’immensa plebe, ci trovammo tutti sbandati in diverse parti: e mentre ciascuno si sforza di sottrarsi al gran pericolo che lo minaccia, dispersi chi qua e chi là fummo tutti confusi col nemico che da più parti correva sopra di noi. Allora deposto ogni desiderio di vivere e combattendo da forti ci ritraemmo fino alle dirupate sponde del Tigri: quivi alcuni a precipizio sospinti, si trovaron dal peso delle armi impacciati e trattenuti dove le acque del fiume eran basse; altri assorti dai gorghi vi si perdevano; alcuni affrontando il nemico pugnavan con vario successo; ed altri finalmente atterriti dalla densità delle schiere avversarie si rifugiavano sulle alture del Tauro vicino. Fra i quali essendosi riconosciuto anche il nostro generale, fu subito circondato da grande schiera di assalitori; ma, grazie alla celerità del cavallo, usci del pericolo col tribuno Ajadalte e con uno scudiero. In quanto a me poi, mentre deviato dal sentiero che i compagni Pagina:Le-Storie-Di-Ammiano-Marcellino-Tradotte-Da-Francesco-Ambrosoli-Con-Note- vol-1.djvu/224
IX. Costanzo quand’era ancor Cesare, nel tempo An. dell’E.V. 359 stesso in cui costrusse anche l’altro castello detto Antoninopoli, circondò di torri ampie e di muri questa città per lo addietro picciolissima, affinché gli abitanti di colà intorno avessero luogo dove potersi al bisogno ritrarre con sicurezza: ed avendovi collocato un magazzino di macchine murali, la fece terribile ai nemici, e volle che fosse chiamata col suo nome. Dal lato di mezzogiorno è bagnata dal Tigri che le nasce vicino: dalla parte orientale guarda le pianure della Mesopotamia: dov’è esposta all’Aquilone, vicina al fiume Nimfeo, è difesa dai vertici del monte Tauro che dividon l’Armenia e le genti poste al di là del Tigri: dall’occidente onde vengono i soffi di Zefiro tocca la Gumatena21, regione ubertosa e feconda, nella quale trovasi il borgo denominato Abarne, illustre pei bagni caldi di salutifere acque. Nel mezzo poi della città stessa di Amida, e sotto la rocca, v’ha una fonte di vena molto abbondante, e buona a bere, ma talvolta fetente, quando la state è più calda. A presidiare questa città destinavasi sempre la quinta legione Partica, e con essa una moltitudine non dispregevole di nazionali. Ma allora sei legioni, precorse con rapido viaggio alla moltitudine dei Persiani, stavano alla difesa di quelle fortissime mura: ed erano le legioni state già di Magnenzio e di Decenzio, le quali (poichè furono terminate quelle guerre civili) l’Imperatore, avendole in conto di mal fide e torbide, avea sequestrate nell’Oriente, dove non si potevap temere se non guerre esterne: poi la legione trentesima e la decima della anche Fortense, e i Superventori ed i Preventori22 con Eliano già fatto conte, i quali abbiam riferito che quando eran tuttora novelli nel mestiere dell’armi, An. dell’E.V. 359 incoraggiati dal capitano predetto, allora guardia del corpo, sortirono improvvisamente da Singara e trucidarono molti Persiani sepolti nel sonno. Eravi anche la maggior parte dei conti arcieri, cioè di quella torma equestre cosi nominata, nella quale s’arruolano tutti i Barbari di libera condizione, che si distinguon dagli altri per la forza e per la destrezza nelle armi.
X. Mentre con questi sforzi non preveduti il primo impeto di quella spedizione produceva siffatti successi, il Re col suo popolo e colle genti delle quali era capo, partendosi da Bebase e piegando a destra, secondo l’avviso di Antonino, passò per Storen e Majacarire e Charca, come se di Amida non si curasse; e poichè fu venuto vicino a certi castelli romani, dei quali uno chiamavasi Reman e l’altro Busan, intese dalle relazioni di alcuni fuggiaschi, esser colà raccolte le ricchezze di molti cittadini che ve le avevano trasportate; siccome in luoghi muniti dall’altezza in cui erano e reputati sicuri. E soggiungevano trovarsi là dentro, insieme colle sue suppellettili prezioze una bella donna con una figliuoletta, moglie di un certo Craugasio di Nisibi, ragguardevole per l’origine sua, l’origine sua, la fama e la potenza nel l’Ordine municipale. Laonde, sollecitato dall’avidità della preda, con grande fidanza si volse ad assaltar que’ castelli: e i difensori spaventati da quell’impeto improvviso An. dell’E.V. 359 ed oppressi dalla varietà delle armi, diedero nelle mani dell’inimico sè stessi e tutti coloro che s’erano rifugiati in que’ luoghi; ed avendo ricevuto l’ordine di sgomberare di là, consegnarono subitamente le chiavi. Aperto quindi ogni ingresso fu tratto fuori tutto quanto v’era depositato: e si videro uscire alcune donne attonite dallo spavento, e fanciulli strettamente abbracciati alle madri, e sottoposti sul bel principio della più tenera età a gravi sciagure. Quando il Re fu informato qual fosse di loro la moglie di Craugasio, confortolla di accostarsi a lui senza tema di sorta; e veggendola in fino al mento coperta di nero velo, col darle sicura speranza di ricuperare il marito e di conservare inviolato il pudore, benignamente la consolò. Perocchè sentendo che Craugasio ardentemente l’amava sperò di potere con questo premio comperare da lui il tradimento di Nisibi. Per altro avendo trovate anche alcune altre vergini, consacrate secondo il rito cristiano al culto divino, ordinò di custodirle intatte, e che servissero com’erano solite alla religione, senza che alcuno potesse loro vietarlo: simulando per certo a tempo piacevolezza, affinchè tutti coloro ch’egli avea prima atterriti coll’asprezza e colla crudeltà, deposto ogni timore, gli si accostassero volontariamente, siccome persuasi da’ nuovi esempi, saper lui temperare la grandezza della fortuna coll’umanità e coi placidi costumi.
fine del libro decimottavo
Note
- ↑ Forse Capello, piccola città nel ducato di Cleves.
- ↑ Di costui parlò l’Autore nel lib. xv, cap. 5.
- ↑ Primicerius protectorum.
- ↑ Consilia tartareis manibus miscens. II Wagner tradusse: evocò i Mani dal regno delle ombre all’esecuzione del suo disegno. E un antico epigramma dice che Sapore ruppe con magici carmi la terra osò evocare Pompeo dai campi Elisi ec.
- ↑ Con questa ironia Ammiano riprende il troppo favore conceduto da Costanzo ad Eusebio.
- ↑ La malvagità dei pretesi creditori di Antonino e dei giudici avea fatto sì ch’egli apparisse debitore, non di un privato, ma del fisco, acciocchè più difficile gli riuscisse il sottrarsi al pagarlo. L’esattor pubblico e i privati in questi casi dividevano poi i disonesti guadagni; e contro queste non rare malvagità si trova un rescritto di Gordiano.
- ↑ Zopiro dopo essersi in più parti mutilato e ferito finse di rifugiarsi in Babilonia per aver modo di consegnare quella città a Dario suo re. Antonino invece se n’andò ai Persiani per vendicarsi della sua patria.
- ↑ Il testo dice Diribitores. Cosi chiamavansi coloro che portavano al popolo le tabelle sulle quali segnavansi i voti, poi raccogliendole li numeravano. Nei tempi della corruzione costoro servivano naturalmente al mercato de’ suffragi.
- ↑ Il testo dice apicis nobililatus auctoritate.
- ↑ Vedi Tito Livio, lib. xxi, cap. 28.
- ↑ Odissea, lib. xiii.
- ↑ La Mirza che nasce sull’Emo, traversa la Romania e si getta nell’Arcipelago.
- ↑ Sine apparitione. Come chi dicesse senza alcun segnale di podestà.
- ↑ Indizio di libera condizione.
- ↑ Sebalem facem, la fiaccola di sego.
- ↑ Notan gl’interpreti che nella lingua siriaca maja o majo significa acqua, e carire val freddo.
- ↑ Diarbekr. Di questa città e delle sue sciagure parlasi in questo libro al cap. 9 e nel lib. xix, cap. 1.
- ↑ Lib. xvii, cap. 14.
- ↑ Cosi vien detto Sapore anche altrove da Marcellino.
- ↑ Allude ad un luogo di Erodoto (lib. vii, cap. 59 e 60) ov’è detto che Serse, volendo annoverare in Dorisco il proprio esercito, raccolse diecimila soldati nella più fitta ordinanza che mai si potesse, poi fece piantare uno steccato intorno ad essi; e trattine i primi, empiè lo steccato di nuovo, e così facendo finchè ebbe soldati, seppe che il suo esercito si componeva di tante miriadi, quante volte aveva empiuto e vôtato quel circolo. E le miriadi, dice Erodoto, furono centosessanta.
- ↑ V’ha chi vorrebbe leggere Comagena.
- ↑ Fortense dicevasi la decima legione o pel valore di che avea sempre dato prove, o perchè i soldati che la componevano traevansi forse dalla città di Fortia nella Sarmazia asiatica. — Praeventores e Superventores poi si dicevano due corpi di soldati l’uno dei quali era destinato a prevenire il nemico, sia coll’assalirlo sia coll’occupare prima di lui i posti più vantaggiosi; l’altro doveva succedere al primo e rinforzar la battaglia, quando la mischia era già cominciata.