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LIBRO DECIMOTTAVO 193

rava Annibale di lentezza1[An.dell’E.V. 359], non cessava mai di ripetergli che potea vincere a suo senno ma non sapeva usare della vittoria. Imperciocchè quell’uomo educato fra noi, e pratico di tutte le cose nostre, avendo trovati attenti uditori che ricevevano volentieri quelle sue voci che loro lusingavan gli orecchi, e non lo interrompevan con lodi, ma sì piuttosto lo ammiravan tacendo come i Feaci di Omero2, riandava a mente le cose avvenute nel corso di quarant’anni: che dopo i continui casi delle guerre, principalmente presso Ilea e Singara, dove si combattè aspramente durante la notte, essendo gli eserciti nostri da grande strage soverchiati, come se un feciale avesse imposto fine alla pugna, i Persiani vittoriosi non s’erano impadroniti nè di Edessa nè dei ponti sull’Eufrate; mentre sarebbe pur convenuto ch’essi fidandosi nella possanza dell’armi e in quegli splendidi successi avessero ampliato il proprio dominio, approfittando principalmente di quel tempo nel quale il fior del sangue romano versavasi d’ogni parte nelle turbolenze delle guerre civili. Di questa maniera quel fuggitivo conservandosi sobrio ne’ banchetti, nei quali i Persiani secondo il costume dei Greci antichi, soglion trattar delle guerre e delle cose di gran rilievo, infiammava il Re già di sua natura ardente, affinchè quando fosse passato l’inverno, confidando nella grandezza della propria fortuna, corresse subito all’armi: promettendogli inoltre lealmente l’opera sua dovunque potesse parer necessaria.

VI. Quasi sotto i medesimi giorni Sabiniano inorgoglito della podestà repentinamente acquistata, ed entrato

  1. Vedi Tito Livio, lib. xxi, cap. 28.
  2. Odissea, lib. xiii.
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