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LIBRO DECIMOTTAVO 197

ora avviatosi al monte Izala, uccisero quel servo, e[An.dell’E.V. 359] raccoltisi insieme parecchj e correndo qua e là si misero a cercare di noi. Ma avendoli io avanzati colla rapidità del mio cavallo, vidi i nostri nelle vicinanze della debole piazza di Amudio, che mentre i cavalli pascevan dispersi qua e là, se ne stavano a gran fidanza sdrajati. Laonde stendendo il braccio, e sventolando in alto il lembo del mio abito militare, feci loro conoscere con quel consueto segnale che i nemici eran vicini; poi unitomi a loro proseguij con essi la fuga, benchè al mio cavallo venissero meno le forze. Ci spaventavano poi il plenilunio che rischiarava la notte, e l’aperta pianura dei campi, la quale se il nostro pericolo si fosse fatto maggiore non ci presentava nessun nascondiglio, non vedendosi in essa nè alberi, nè macchie, nè cosa alcuna fuorchè umili erbette. Fu immaginato pertanto di raccomandare ad un cavallo una lampada accesa per modo che non potesse caderne, poi lasciare che se n’andasse tutto solo e senza guida a sinistra, mentre noi ci avvieremmo alle gole dei monti che ci stavano a destra; affinchè i Persiani credendo quella esser la face1 da cui fosse preceduto il generale nel suo lento cammino si dirizzassero principalmente colà: che se questo non si faceva, noi tutti, circondati e presi, saremmo venuti in poter del nemico. Usciti poscia da quel pericolo, e rifugiati in un luogo arboroso e tutto pieno di viti e di pomiferi arbusti, denominato Majacarire2 per le gelide fonti che quivi sono, essendone fuggiti tutti gli abitanti, non vi trovammo se non solamente un soldato,

  1. Sebalem facem, la fiaccola di sego.
  2. Notan gl’interpreti che nella lingua siriaca maja o majo significa acqua, e carire val freddo.