La Veste d'Amianto/Parte prima/IV
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IV.
Quel giorno, mentre alzava la mano per dare il segnale della partenza, Ettore Noris, per la prima volta, pensò:
— Forse, piccola Eva, oggi vengo davvero a trovarti.
Ma il suo cuore non ebbe un battito di più.
Aveva sentito maggior trepidazione nei giorni passati, mentre attendeva ai preparativi per la gran prova. Man mano l’ora s’era andata avvicinando, l’orgasmo s’era dissipato, ogni sovreccitazione era caduta e adesso, una calma sovrana e una perfetta lucidità dominavano il suo sangue e il suo spirito.
L’ultima visione che i suoi occhi accolsero e un istante serbarono mentre il velivolo si staccava dal suolo ed egli si sentiva mancargli, sotto, la terra e man mano farsi più lontano il fragore dell’applauso delirante, fu uno sguardo di fanciulla velato di lagrime in un viso intenso d’espressione fino alla sofferenza.
Con un sorriso che nessuno vide mandò un saluto alla dolce piccola ignota che confusa tra la folla palpitava per lui o lo seguiva con tutta l’ansia della sua ingenua anima protesa in alto.
— Torna, — pareva dirgli ancora adesso il pallido viso rimastogli nelle pupille.
— Se il destino vorrà, — pensò Ettore Noris perfettamente tranquillo.
Mai come in quell’ora la sua vita era stata, tra le mani del destino. E mai egli aveva osato sfidarlo come in quell’ora. L’impresa cui s’era accinto non aveva precedenti nella storia dell’aviazione, realizzava un tentativo d’audacia che non aveva esempio nel campo degli ardimenti passati.
Quando egli l’aveva annunziata, imponendo attraverso l’autorità del suo nome la serietà della sua intenzione e del suo proposito, era stato un grido unanime decretante la follia del tentativo.
Ettore Noris si proponeva di attraversare il Cervino?
— S’erano visti — aveva scritto un giornale ironico — dei tentativi di suicidio anche più strani quantunque meno geniali.
Altri aveva enumerati i pericoli enormi da affrontare, le difficoltà gravissime da superare, il pauroso ignoto da subire e da vincere, concludendo per la follia dell’impresa.
Lo stupore sorpassava anche l’ammirazione, faceva guardare a Ettore Noris come a un vanitoso farnetico anzi che a un intrepido audace.
Nessuno contestava l’abilità di Noris ma nessuno era tenuto a supporgli dei limiti di resistenza superiori a quelli di ogni altra creatura umana. Ora, l’impresa superava certamente l’impeto e l’audacia di qualunque resistenza umana.
Geo Chavez? Sì, ma il Sempione misurava duemila metri d’altezza nel punto dove il peruviano ardito era passato, e il Cervino ne misurava quattromila e cinquecento. E si conosceva palmo per palmo il gruppo del Sempione, erano note le insidie dei suoi venti, si poteva calcolare e prevedere qualsiasi suo pericolo.... E ancora, malgrado tutte queste condizioni che riducevano di molto, nei confronti di quella sognata dal Noris, l’impresa di Geo Chavez, Geo Chavez aveva pagato colla vita il suo ardimento.
Era morto, Geo Chavez, e non di ferita ma per la troppo intensa vibrazione dei suoi nervi, per il pulsare troppo rapido delle sue arterie, per il troppo palpitare del suo cuore di commozione, di febbre, di orgasmo, di esaltazione; era morto Geo Chavez e nessuno aveva conosciuto, nessuno aveva indovinato il segreto di quella sensazione violenta che in un’ora aveva logorato la sua fibra di vent’anni e bruciata la sua vita.
E ora, Ettore Noris si proponeva di ripetere, superandolo, il gesto di Geo Chavez?
Questo non era più ardimento, questa era follia. I giornali lo avevano dichiarato, dimostrando in lunghi commenti le insuperabili difficoltà dell’impresa. Anzitutto, superare il Cervino significava elevarsi a cinquemila metri d’altezza, punto non raggiunto mai da nessun aviatore nemmeno per un attimo e significava ancora mantenersi a un’altezza di poco inferiore per molti e molti chilometri, sintanto che il velivolo avesse superato l’altipiano formidabile composto tutto di vette giganti. Quale orgoglio umano avrebbe osato affrontare una simile impresa?
Avesse Noris annunziato di voler intraprendere la traversata aerea dell’Oceano scortato soltanto da una nave che potesse, nei momenti di forzata discesa, diventare piattaforma d’atterramento e di slancio, la sua impresa non sarebbe parsa folle e impossibile come la decisa scalata della più tempestosa fra le cime.
Anche questo aveva detto un giornale e Noris aveva risposto:
— Ci penso alla vostra supposizione: l’Oceano sarà per dopo il Cervino.
No, nessuno osava ammirarlo. Coloro che conoscevano la montagna formidabile e terribile per aver avuto la fortuna di salirla, pensavano con un brivido di terrore nelle vene il fragile apparecchio perduto al disopra della distesa infinita di rocce, di picchi, di creste, di ghiacciai, nell’insidia dei venti urlanti dalle innumeri gole pronti a trionfare della mano pur salda dell’uomo per contendergli la gloria della violazione immaginata mai degli eterni silenzi, della solitudine maestosa e divina.
Ma concepiva soltanto, Ettore Noris, l’assurdo della sua impresa?
Aveva egli veduto mai davvicino il gigante spaventoso col quale si accingeva al duello formidabile? aveva contemplato mai le pareti rocciose, cupe, immenso contro le quali il vento urlante dalle gole immani avrebbe potuto spingere le ali fragili della sua macchina orgogliosa? e sapeva l’insidia delle altezze vertiginose che paralizzano i battiti del cuore e stringono in una morsa ferrea la gola e velano gli occhi di lagrime di fuoco e assiderano le membra e sospendono la vita?
Sì, Ettore Noris conosceva tutto questo e partiva. Conosceva tutto questo ed era partito.
Forse, quando l’impresa gli era balenata sotto forma di un sogno folle, di una vertigine, di un tentativo sovrumano eroico e disperato, egli ignorava la realtà dei pericoli da superare.
Poi, una volta accolta l’idea, aveva risoluto subito di venirne a capo nelle migliori condizioni di riuscita.
Un mese era bastato per i preparativi necessari e i preparativi erano consistiti sopratutto nell’avvicinare il monte per fare la conoscenza del nemico.
Ettore Noris s’era recato dapprima al Giomein poi a Zermatt: aveva soggiornato dieci giorni ai piedi del gigante studiandolo in tutte le ore, osservandolo ad ogni istante: poi, ne aveva cominciata l’esplorazione salendo fino all’estrema base della piramide, camminando per ore e ore sui ghiacciai che formano la base maestosa di quello che Ruskin chiamò «il più nobile scoglio del mondo». Poi lo salì, dalla cresta di Breuil dapprima, in seguito dal versante di Zmutt. Voleva conoscere sotto ogni aspetto non solo la montagna ma il gruppo intero di cime formidabili che costituiscono il dominio del Cervino.
Donde avrebbe spiccato il volo per il suo tentativo audace?
Il pianoro di Breuil, tagliato dal Marmore che porta giù a valle il pianto del ghiacciaio, gli parve dapprima propizio campo per lo slancio. Con un Lavoro facile e rapido si sarebbe certo potuto adattare il terreno necessario. Sarebbe partito da Breuil per scendere a Zermatt: un volo d’aquilotto sopra una catena di picchi nevosi e la discesa audacissima dopo la traversata breve e folle.
Poi, mutò idea. Breuil era troppo sotto la montagna. Bisognava prendere il volo da più lontano e più in basso. Avere di fronte lo spazio aperto necessario per portarsi in alto in alto, fino a superare la cortina rocciosa che gli chiudeva di fronte l’orizzonte, poi tagliare dritto verso nord-est e scendere sul suolo svizzero.
Sostituì Breuil col villaggio di Paquier come punto di partenza, e mantenne come punto di arrivo Zermatt. Ma neppure questa doveva essere la risoluzione definitiva. Innumerevoli difficoltà si affacciarono per il trasporto de d’apparecchio su per la carrozzabile di Valtournanche, cosicchè Noris stabilì senz’altro di partire da Châtillon. Il volo sarebbe stato più ampio, ecco tutto. Mutato il punto della partenza, aveva sostituito anche quello d’arrivo: non più Zermatt, ma la valle d’Hérens sarebbe stata la sua meta, e nella valle, ampia, selvaggia, bella, il paesello di Evolena.
Così, era partito da Châtillon in quella mattinata estiva, limpida e calma come un augurio propizio. Aveva atteso, per spiccare il volo, che il sole fosse emerso nella valle e avesse pittato il suo oro o la sua porpora sulla vetta della gran piramide, dissipandone il cappuccio di nebbia e di nubi che ogni alba vi ritrova.
Era partito innalzandosi fra l’applauso scrosciante di una folla singolare composta dei più svariati elementi, salita dalle grandi città lontane, venuta da ogni valle e da ogni casolare intorno, uscita da tutte le caso della cittadina, da tutti gli alberghi e dalle ville, più commossa che curiosa, persuasa di assistere al più grandioso tentativo di suicidio che la storia della follia e dell’audacia umana avesse mai contemplato.
Indifferente ugualmente a quella indovinata persuasione o alla commozione collettiva e all’applauso frenetico che voleva essere saluto supremo, s’era innalzato Noris, toccato soltanto, sino in fondo all’anima, dalle lagrime sorprese nell’occhio della piccola ignota confusa tra la folla e muta.
Un altro ricordo egli portava con sè salendo salendo con regolarità e tranquillità, attento alla manovra della macchina e pure occupato dalle sue sensazioni interiori per un fenomeno di sdoppiamento del quale aveva pure il controllo perfetto.
Il ricordo si riferiva al suo piccolo prediletto meccanico, Ugo, un giovinetto pieno d’ingegno e d’una sensitività che pareva e non era in contrasto col suo reale ardimento. Ugo lo aveva voluto baciare quella mattina, mentre lo aiutava a infilare lo scafandro nero sopra il costume di flanella ovattata e quel bacio che diceva tutta la repressa commozione del fanciullo era sceso all’anima dell’aviatore.
Anche Ugo temeva per lui. Adesso Ettore Noris lo indovinava quantunque il giovinetto non avesse mai osato tenergli parola del suo scoramento e della sua sfiducia e immaginava con un sentimento di tenerezza il viso imberbe dell’adolescente alzato contro il cielo a seguire il volo della macchina fragile, intento a cogliere l’ultima voce del motore per giudicare da quella le estreme probabilità di vittoria di Ettore Noris.
— Se ancora gli arriva lo scatto del motore, — pensò Noris, — Ugo dev’essere tranquillo per me.
Ma, difatti, la voce del gran cuore pulsante della macchina era stata più sonora, più regolale, più isocrona, più piena. Pareva che l’anima d’acciaio dell’apparecchio volesse con quel linguaggio formidabile rassicurare l’eroe e confortare la sua audacia.
E a quell’anima, Noris parlava come davvero ella potesse intendere la sua lode e la sua esortazione:
— Brava; se continui così, vedrai che miracoli noi compiremo. Ma tu devi aiutarmi a compiere il miracolo perchè la gloria sarà per entrambi.
Adesso, ogni voce della terra era scomparsa e il fremito sonoro del velivolo dominava solo il silenzio immenso. Noris si alzava gradatamente, continuamente, descrivendo nell’aria azzurra una spirale della quale non restava traccia contro l’orizzonte e che pure diventava la scala ideale per raggiungere e assaltare il nuovissimo Olimpo. Non aveva l’impressione di salire: si sentiva vieppiù distanziato dalla terra perchè questa pareva sfuggirgli di sotto e vedeva ampliarsi i confini del suo orizzonte e confondersi la visione dei particolari e il paesaggio assumere man mano un rilievo grandioso insolito alla sua osservazione, minaccioso di forma e di colori nel raggio più immediato, digradante lontano in una ondulazione imprecisa e infinita verso l’orizzonte estremo.
Le pareti verdi della valle che chiudevano come in una custodia inviolabile cupa di mistero e d’insidie la base della grande piramide, sperano sprofondate anch’esse e le ali bianche del velivolo si libravano già a un’altezza donde il Cervino appariva nitido come una piramide isolata staccantesi — roccia nera chiazzata qua e là di neve, velata lievissimamente da una imponderabile cortina azzurra — in fondo alla valle, contro il cielo.
Ettore Noris guardò l’aneroide: segnava tremiladuecento metri. Rapidissime si abbassavano innumeri vette intorno, le minori del gruppo, come si accovacciassero sotto il volo regolare meraviglioso non contemplato mai.
Noris volse intorno lo sguardo e non ebbe bisogno di consultare la nitida carta assicurata dinanzi ai suoi occhi, sotto il cristallo, accanto alla bussola per distinguere le catene più importanti: vicino il Monte Rosa; più vicini ancora e già superati, il gruppo del Thèodulhorn, le cime del Breithorn, del Gran Combino, del Château, des Dames, della Dent d’Hérens; laggiù, l’Oberland, poi il Monte Bianco, il più alto di tutti e che pareva soltanto, così da lungi, un mucchietto di nevi.
Quanta neve intorno e sotto! Tre colori soltanto distinguevano i suoi sguardi: le nevi bianche, le rocce azzurre, le valli verdi scavate come solchi fra precipizi spaventosi.
Tremila ottocento segnava adesso l’aneroide.
Ettore Noris pensò che giammai egli aveva raggiunto una simile altezza. Ebbe la lucidità di esaminarsi per avvertire l’impressione di quella distanza vertiginosa dalla terra. E con un senso d’orgoglio rilevò che tutto era calma nel suo organismo, come calma sino al prodigio era l’atmosfera dove il suo apparecchio continuava ad ascendere.
A parte il freddo intenso che adesso passava anche la maschera, ch’egli s’era posta sul viso e i guanti di lana e il costume imbottite, sotto lo scafandro, non avvertiva nessuna sensazione sgradevole: i suoi polmoni funzionavano regolarmente, come regolarmente funzionava il motore della sua macchina: il suo cuore non dava un palpito di più, una calma sovrana teneva il suo spirito. Se le cose fossero continuate così, quel suo viaggio, davvero, sarebbe stato un gioco.
Ma non sarebbero continuate così. Noris lo sapeva e non si faceva illusioni. Questa, era la parte più facile dell’impresa. Attraversare a quell’altezza l’ampia Valtournanche nel senso longitudinale tenendosi al disopra delle correnti delle piccole gole laterali, non poteva costituire un pericolo.
Il difficile cominciava adesso che l’aereoplano si trovava al disopra di Breuil, in uno spazio limitato intorno da irte pareti rocciose tagliate a picco sopra gole insidiose.
L’aneroide segnava quattromila metri e il freddo si faceva più vivo, l’aria più frizzante. Mille piccoli segni avvertivano l’aviatore che una corrente era vicina: egli risolse di affrontarla mettendo l’apparecchio in linea retta colla prora rivolta verso il Cervino. Aveva così il sole alle spalle e la visuale limpidissima. La manovra eia necessaria anche per avvicinarsi il più possibile alla cima della piramide prima di raggiungere l’estrema altitudine necessaria per superarla.
Quando fosse stato a trecento metri dalla parete granitica, non sarebbe stato difficile a Noris di riprendere la manovra dell’ascensione a spirale che doveva permettergli di raggiungere l’altro versante del monte. La misura di prudenza era imposta anche dalla necessità di scongiurare il congelamento dell’olio del motore. Quantunque il motore Kindler-Pearly che Noris adoperava, fosse sotto questo riguardo assai più garantito d’ogni altro per avere i tubi oleatori assolutamente protetti, rivestiti com’erano d’una sostanza termogene, pure l’aviatore non si sentiva perfettamente sicuro. Nessuno aveva esperimentato quella disposizione speciale del congegno a cinquemila metri d’altezza....
Così, bisognava abbreviare la prova.
Stava concludendo su questa necessità, quando una scossa improvvisa fece sussultare l’apparecchio che oscillò con violenza.
— La raffica, — pensò Noris.
Non un fremito ebbe il suo sangue. Soltanto la ruga scavata fra le sue sopracciglia corrusche si fece più fonda e più cupamente il gesto sicuro e fermo della sua mano ristabiliva l’equilibrio dell’apparecchio. L’urto si ripetè, più basso, con una spinta brusca che sollevò la macchina e fece tendere le ali in una vibrazione che rasentò lo schianto, e la manovra serrata, pronta, rude dell’aviatore non aveva ancora parato quest’altro assalto del nemico invisibile che una nuova spinta investì l’apparecchio di fianco, stavolta, togliendo a Noris, per un attimo, il controllo della direzione.
Un colpo di timone protestò contro l’aggressione che minacciava di mandare la macchina a sfasciarsi contro una delle enormi pareti della gran roccia vicinissima ormai e formidabile col suo mantello nero chiazzato qua e là di amplissime macchie nevose lacerato dai crepacci cupi d’ombra e di mistero.
Per un istante il timone ebbe ragione dell’assalto, poi l’urto replicò, più violento, seguito da altri innumeri che venivano dal fianco opposto, dall’alto, dal basso, come se infinite mani invisibili di invisibili giganti spingessero l’apparecchio, lo sollevassero, lo schiacciassero giuocando insieme coll’audacia magnifica dell’uomo e colla possanza del cuore metallico della macchina.
— Un vortice, — pensò Noris mentre tutta la sua fredda e nitida percezione era intento, a prevenire, a percepire, a cogliere ogni nuovo assalto del nemico visibile e a pararlo.
Non era nuovo a quel genere di lotta.
Più di una volta i terribili remous lo avevano sorpreso e investito durante i suoi nuovi esperimenti e sempre egli ne aveva trionfato opponendo alla furia dell’assalto la paziente resistenza vigorosa e quasi passiva della sua manovra. Certo, bisognava uscire dal vortice e la sua macchina tentava appunto questa fuga, ma senza impazienza e senza scoraggiamento per gli ostacoli incessanti che l’assalto del gorgo aereo rinnovava e replicava.
Adesso, l’apparecchio pareva dovesse tagliarsi il suo cammino attraverso mille braccia che lo trattenessero e lo respingessero. Per ogni tratto d’avanzata era una spinta nuova, un urto dall’alto al basso che pareva abbatterlo come una mazzata sulla cervice d’un ribelle.
Finalmente, dopo un ultimo sobbalzo violento che sollevò i piani posteriori dell’apparecchio facendo piegare innanzi la macchina come per precipitarla a picco contro il ghiacciaio immenso disteso alla base della piramide, lo sballottamento del vento cessò a un tratto.
Noris respirò. La lotta era durata pochi secondi ma egli ne usciva stanco per la fatica e la tensione sostenute.
— Purchè non me ne venga un altro, — pensò.
Si guardò attorno e non vide più che lo spazio. Ogni vetta era dominata adesso dal suo sguardo e dalla sua macchina: solo dinanzi a lui, vicinissima ormai, la magnifica piramide formidabile estolleva la sua cima isolata tagliata sullo sfondo azzurro con una regolarità così meravigliosa da parere un artifizio. La macchina, adesso, aveva ripreso ad ascendere in larghe volute che man mano offrivano alla visione di Noris tutti gli aspetti del paesaggio meraviglioso. E l’intero paesaggio, veduto da quell’altezza, non pareva più che un amplissimo mare solcato da striature cupe, le valli, sollevato in larghi cavalloni immobili dalle creste bianche sfrangiato in mille lince bizzarre, tagliati dai solchi neri dei crepacci insidiosi.
Lontano, verso mezzogiorno, i cavalloni si abbassavano e il mare di rocce aveva ondulazioni più lievi, poi, s’indovinava l’abitato allo sbocco delle valli amplissime. Ma a settentrione, a oriente, a occidente la cortina fitta di montagne andava ripetendosi in una distesa senza confine sino all’orizzonto estremo. Adesso, Noris distingueva perfettamente alla destra tutto il gruppo del Thèodulhorn col Breithorn, e più su il Gornergrat, il Riffelhorn, lo Stockhorn oltre il quale si apriva, dominata a destra dal gruppo maestoso e candido del Mischabel la vallata della Viège coll’altipiano di Zermatt vicinissimo. Fra l’una e l’altra montagna v’erano gole profonde e cupe in fondo alle quali s’indovinava un torrente alimentato dai ghiacci eterni, o era una distesa candida per neve recente o una pianura inclinata verdognola, il ghiacciaio, solcato qua e là dai crepacci aperti come gole di trabocchetto, o ancora un prolungarsi della roccia nera striata come se sopra vi fosse passata, strisciando, un’altra montagna: la Morena.
Adesso, anche il Cervino si rivelava: Noris era già passato tre volte al disopra del rifugio Luigi di Savoia, aveva già superati i «Degrès de la Cour» e contemplato sotto di sè la «vallée des glaçons». Il suo velivolo passava adesso all’altezza del «cattivo passo», la terribile sporgenza di roccia librata sull’abisso e la superava, e saliva ancora, lasciandosela alle spalle, sollevandosi in un’altra voluta della infinita spirale descritta nell’azzurro per portarsi all’altezza della spalla del Cervino.
Oltre, sarebbe stata la vittoria.... Nell’aria freddissima passavano folate brevi, come un saluto, un susurro; l’espressione della meraviglia dello spazio per quella violazione e per quell’audacia, le sentiva sul viso, sulle mani, le sentiva nelle ali del suo apparecchio che si tendevano a quando a quando con uno scricchiolio caratteristico.
Ma non era tale, quella voce del vento; nella descrizione dell’ultimo giro che doveva portarlo al disopra della vetta, la sua macchina ebbe un sobbalzo brusco che improvvisamente la respinse in basso facendogli perdere una diecina di metri: era l’ultima resistenza del monte e del destino.
Uno stormo di corvi, snidato dalla roccia sotto l’estrema vetta, dal rumore non mai udito del motore, più fragoroso del rombo del tuono noto solo in quei silenzi eterni, passò sgomento dinanzi alla macchina con uno starnazzar d’ali incomposto e folle, si allargò, si disperse.
Noris non ne fu impressionato. Nulla poteva impressionarlo, ormai: le sue energie erano tese verso lo scopo quasi raggiunto, dominavano ogni emozione in quella tensione unica, attutivano ogni altra sua forma di sensibilità.
Tutto era lontano infinitamente: la vita, il mondo, gli uomini, le cose. Il suo sforzo solo viveva e la sua meta. E il suo sforzo viveva uno di quegli attimi che valgono a riassumere tutta la vita, a esaltare tutte le concezioni, a bruciare tutta l’energia d’una creatura.
La vetta, la vetta! Ecco, ora il velivolo aveva superata la spalla del monte e la cresta, estrema appariva poco al disotto della macchina, un po’ a destra, sottile e lunga più d’un centinaio di metri, tagliata in due da una spaccatura.
Aveva vinto!
Egli era più su, più su del punto dove il monte formidabile, il monte magnifico, il monte inviolato per migliaia d’armi ergeva il suo fierissimo capo tenebroso nel sole e nel vento. Nessuno aveva mai portato tanto in alto quella fragile macchina possente e infida come una creatura vivente.
Aveva vinto!
E si sentiva così forte ancora, così sereno e calmo dopo quello sforzo senza precedenti che avrebbe accettato di salire ancora ove altre scuote si fossero offerte alla sua audacia e al suo orgoglio.
Adesso egli aveva drizzato la prora del velivolo verso est. Voleva attraversare la cima in tutta la sua lunghezza come per una presa di possesso, descrivere intorno alla vetta domata il cerchio di corona che egli si attribuiva, per la conseguita vittoria, legittimamente.
Poi, avrebbe pensato a scendere.
Lo scopo del viaggio era raggiunto ma la mèta era ancora lontana.
Guardò la carta mentre il velivolo compiva il volo incoronatore; per raggiungere Evolena, a mezzo della Valle d’Hérens, bisognava drizzare la prora della macchina verso nord-nord-ovest.
La corrente era propizia.
Noris se ne accorse subito non appena ebbe messo la macchina nella direzione del ghiacciaio di Zmutt.
— Addio, Cervino! — disse forte, con un accento di tenerezza e di orgoglio che solo il vento raccolse.
Adesso, il paesaggio mutava.
Scomparsa o quasi la roccia che disegnava in possenti rilievi neri chiazzati qua e là di bianco la forma e l’asprezza dei monti sul versante italiano della catena alpina formidabile, la visione non abbracciava qui che un candore uniforme di ghiacci: picchi altissimi ancora si susseguivano che obbligavano l’aviatore a tenersi ancora a un’altezza di oltre quattromila metri, ma i picchi apparivano collegati l’uno all’altro in una uniformità di bianco che dava l’immagine di un unico immenso ghiacciaio dai confini senza orizzonte.
Oltre il ghiacciaio di Zmutt, tre vette apparivano allo sguardo di Noris che quantunque distanti l’una dall’altra sembravano ancora la continuazione di Stockjè, la Punta di Zinal e, più erta di tutte, la Dent Blanche.
Superata questa, la parte più aspra del viaggio sarebbe terminata. Oltre quel picco, era la Comba di Ferpècle, ossia la valle già ampia, già libera, custodita fra due pareti digradanti ai mediocre altezza.
Ora, Noris desidera va di veder apparire la valle. La tensione del suo spirito, sollevata in un’esaltazione gloriosa sin che il picco formidabile era stato dinanzi a lui, s’era allentata, d’un tratto non appena egli s’era lasciato allo spalle il Cervino. Sentiva il disagio del freddo e della stanchezza come non lo aveva avvertito prima.
Guardò l’orologio fissato dinanzi a lui, sotto i suoi occhi, tra la carta e la bussola. Sul quadrante largo, dalle grosse cifre segnate in rilievo nero, la lancetta segnava le otto. Il suo volo durava da un’ora e mezzo. Fra mezz’ora, adesso, poteva giungere a Evolena. La sua immaginazione precorse il velivolo, vide lo spiazzo all’entrata del villaggio, oltre la Borgne, dove era stato preparato, dietro le sue disposizioni, il campo d’atterramento. Vide e contò ad uno ad uno i suoi meccanici pronti a riceverlo. Vide anche l’automobile che doveva portarlo a Sion donde avrebbe proseguito per Briga e per l’Italia.
Più rapida del velivolo correva la fantasia.
La macchina empiva adesso del suo fragore la pace azzurra e lo sconfinato silenzio al disopra della punta di Zinal: la fantasia dell’aviatore s’era già ritrovata a Torino col piccolo Ugo, tornava con lui a Genova.
Un senso di tedio occupò a questo punto del suo vagabondaggio fantastico il cervello di Noris.
Che avrebbe fatto a Genova?
Nulla! ovverossia molte cose ma nessuna di quelle che allargano il cuore e lo riscaldano.
Egli avrebbe organizzato nuove imprese e cimenti nuovi, e nessun ostacolo sarebbe sorto ad attraversare i suoi ardimenti, poichè nessuno aveva diritti sul suo cuore nè bisogno della sua vita.
Perchè desiderava dunque d’essere giunto? perchè spiava ansioso dietro la Dent Bianche ancora insuperata se apparisse laggiù all’orizzonte distesa della vallata di Hèrens? Essere laggiù, essere lassù, non era la stessa cosa per lui che ormai nella vita s’era imposto un solo compito: attendere la Morte, e cercare la bella Morte?
Sì, questo era infatti. Ma contro ogni ragionamento della sua mente l’istinto suo tendeva ansioso, adesso, verso la mèta.
Non era fatto di solo spirito, Noris, e il suo corpo, adesso, era stanco. Trovò un impeto di energia nuova quando si trovò di fronte alla parete candida è scoscesa della Dent Blanche e dovette risalire verso l’azzurro per superare i 4370 metri della sua estrema vetta. Ubbidendo mirabile alla manovra della sua mano, la macchina si sollevò, dominò un’altra volta tutto il paesaggio, tagliò rapida collo stormir lieve delle sue immense ali candide lo spazio eccelso e fu oltre tutte le cime, librata altissima sopra la vallata.
Le Alpi erano superate e rapidamente, su questo versante, il declivio scendeva a valle. Ma la valle rimaneva nascosta agli occhi di Noris, coperta tutta da un mare di nebbia candida e folta dalla quale emergevano lontane, all’orizzonte e intorno, altre vette, corona di un lattiginoso mare fantastico.
— Questa — egli pensò — non ci voleva.
Avrebbe preferito il vento e ancora la lotta con altri vortici e magari una tempesta a quella sorpresa. Nella sua situazione, al disopra di un paesaggio appena noto e vicinissimo alla mèta la nebbia veniva ad essere la peggiore delle insidie.
Tuttavia, bisognava affrontarla.
Sopratutto, bisognava calare verso la valle per sottrarsi al freddo che adesso gli intirizziva le mani contratte sul manubrio e spremeva lagrime dai suoi occhi malgrado la protezione degli occhiali.
Guardò la carta.
Ecco: mantenendosi sulla sua rotta nord-nord-ovest, egli poteva adesso abbassarsi sino a duemila e trecento metri senza pericolo di incontrare altre vette. Evolena era a mille e trecento sul mare: intorno, la vallata non contava che contrafforti di colline, nessuna delle quali raggiungeva i mille metri d’altezza. E forse, più in basso la nebbia si sarebbe schiarita.
Cominciò a scendere concentrando un’altra volta tutte le sue facoltà sulla manovra della macchina. A un tratto gli parve che questa scomparisse travolta da un gorgo candido imponderabile che soffocasse lui pure. La nebbia lo aveva investito in pieno separandolo dal mondo, togliendogli la visione delle cose e anche la sensazione della luce, stringendolo dappresso così da impedirgli persino di distinguere più la carta e la bussola collocate sotto i suoi occhi e nemmeno le sue mani contratte sul manubrio.
Istintivamente sollevò il capo e lo scosse come per liberarsi da quella forma nuova di aggressione fastidiosa e terribile, poi subito si reso conto dell’assurdità del suo gesto e sorrise. Ma aveva bisogno di respirare e non potè impedire alla sua bocca di spalancarsi per aspirare una boccata d’aria che non trovò. Il vapore freddo e acre che gli entrò in gola e che i polmoni aspirarono gli diede un senso di soffocazione fastidiosissimo.
— Qui muoio, se non esco da questa caligine, — pensò.
Ebbe l’impulso di risalire in cerca di un po’ di ossigeno, ma un attimo di riflessione lo fece desistere dalla tentazione.
— Se salgo — si disse — perdo dell’altro tempo, incontro ancora il freddo e poi non faccio che rimettere questo cattivo passo senza vincerlo. Coraggio!
Spalancò gli occhi fissando acutamente le pupille attraverso la nebbia come volesse penetrarla. Nulla. L’atmosfera intorno pareva fatta di bambagia tinta in un color bianco giallastro. Noris aveva l’impressione di esserne investito e rivestito, fasciato, schiacciato, imprigionato. Nella sensazione d’isolamento spaventoso che questo fenomeno gli dava, unica espressione di vita era la voce del motore, un po’ attutita anch’essa dalla fascia imponderabile e greve della nebbia, meno vibrante, meno metallica, ma profonda e possente come una garanzia e una promessa.
Tutta l’anima di Noris era intenta adesso a quella voce e mai gli pareva d’averne inteso come in quel momento il linguaggio meraviglioso, mai gli pareva d’averla tanto amata quella cara voce amica che nel disagio e nel pencolo voleva rassicurarlo.
— Ti affida, ti affida! senti come saldo e sicuro funziona il cuore della tua macchina. Ti affida, ti affida! io non ti mancherò e canterò per te la diana della vittoria!
Di quanto era scesa la macchina? Noris non avrebbe potuto dirlo e non poteva controllarlo. Nemmeno chinandosi sino a toccarlo con l’elmetto egli poteva distinguere la cifra segnata dall’aneroide. Sollevò il capo nella illusione d’interrogare lo spazio. Sopra la sua testa la caligine s’era fatta più densa. Ricevette anche sul viso, presso il mento, in un punto che la breve maschera lasciava scoperto, qualche goccia d’acqua. Pioveva.
Ogni speranza di veder rarefarsi e sciogliersi la nebbia più in basso gli cadde dall’anima. Che fare? Nell’assoluta impossibilità in cui si trovava di poter controllare il cammino dell’apparecchio, egli non osava abbassarsi di più. Risolse di dirigersi dritto dinanzi a sè senza discendere di più, fidando nel suo senso d’orientamento per giungere all’altezza di Evolena, ripromettendosi di calare gradatamente non appena avesse raggiunto e intuito il punto della discesa.
Di nuovo il senso greve di tedio lo afferrò sensibile come un peso fisico, deprimente come una sconfitta.
Bastava quell’istante di riposo concesso al suo spirito, quella pausa determinata da una risoluzione presa fra due periodi di tensione e di lotta acuita dal pericolo grave per sopire le sue energie e far prevalere la materia.
Si impose ad alta voce:
— Coraggio!
E ancora si guardò attorno spiando il nemico.
La prigione bianca imponderabile e terribile non si apriva.
Fin dove stendeva dunque i suoi tentacoli quella nuova piovra silenziosa e implacabile?
Dov’era adesso Evolena? Al disotto della sua macchina o più lungi? E a quale altezza si libravano le ali candide del suo velivolo? Come una punta di gelo gli attraversò il cuore il pensiero di quello che sarebbe accaduto di lui e della sua macchina ove l’apparecchio fosse andato a cozzare contro la parete d’una roccia invisibile. Poteva avvenire! dove correva egli adesso in quel chiarore diafano più acciecante della più profonda oscurità?
Non diventava, quella sua, l’aereonave fantasma destinata a essere il soggetto della leggenda nuova nei novissimi tempi, a espiare la rivolta audace del più fortunato Icaro, a rivendicare gli spiriti delle inaccessibili solitudini e dei silenzi eterni di tutte le violazioni subite?
Sorrise alla propria fantasia.
— Divento fiacco, — pensò, — in guardia.
Il volo che si affidava al destino continuava fragoroso senza squarciare la nube immensa e ormai a ogni scoppio del motore il pericolo si faceva più vicino.
Bisognava, a ogni costo, riprendere il controllo della macchina. Il viso di Noris si chinò per la decima volta sull’aneroide, sulla bussola, sull’orologio con tutta l’intensità visiva delle sue pupille: invano. Vagamente egli distingueva gli oggetti e il loro contorno: non riusciva a scorgere i segni cercati.
Come un lampo, il pensiero gli attraversò il cervello:
— Trovato!
C’era il modo di leggere e di vedere, di sapere: l’accenditore!
Un tumulto giocondo gli fece pulsare più rapido il sangue: gli parve d’aver fatto una scoperta prodigiosa. Subito, mentre la sua mano sinistra manteneva il volante, frugò colla destra nella tasca ampia dello scafandro, trovò l’astuccio metallico sottile e liscio, lo cavò fuori, lo avvicinò agli strumenti misuratori, fece scattare trepidamente la molla e la fiammella breve brillò, oscillò un poco, piegò, si risollevò e si mantenne.
Noris guardò subito l’aneroide: segnava duemila e quattrocento metri. Ebbe freddo al cuore.
Se la macchina non correva proprio perpendicolare al fiume, egli si trovava tuttora nella regione del pericolo. In un lampo aveva calcolato: Evolena, si trova a mille e trecento metri d’altitudine, e la valle è chiusa lateralmente da colline che s’innalzano da cinquecento a novecento metri e anche più.
Istintivamente manovrò per far risalire un poco il velivolo mentre il suo sguardo correva a consultare la bussola. Questa segnava adesso, tutta volta a settentrione la direzione della macchina. Una dilezione ottima ove si fosse trovato davvero al disopra della valle.
Un ultimo sguardo all’orologio e alla carta.
L’orologio segnava le otto e venticinque e la carta garantiva ampia e sgombra, d’ostacoli la vallata intorno a Evolena.
Facendo il computo della direzione in cui si trovava l’aereoplano, del cammino fatto, del tempo trascorso, Noris pensò che Evolena doveva essere poco lontana.
Bisognava scendere. Rischio per rischio, meglio quello che rispondeva alla necessità del suo itinerario che non l’avventuroso affidarsi al caso senza una visione e senza una mèta.
Come ebbe presa la risoluzione audace cominciò ad abbassarsi attento e intento con tutta la forza della sua esperienza a ogni oscillazione della macchina e a ogni scatto del motore. A un certo punto, la sua destra che teneva sempre chiuso l’astuccio dell’accenditore, lo fece scattare un’altra volta; il tempo di gettare uno sguardo sull’aneroide: era a mille e ottocento metri.
Respirò. Se tutto era proceduto bene sinora, voleva dire che il suo intuito non l’aveva ingannato. La linea delle colline era superata.
Trasse un profondo respiro. Ogni pericolo non era scomparso ma il più grave era certo superato, e l’averlo superato così meravigliosamente gli pareva di ottimo augurio.
Ecco, adesso sarebbe bastato di stendere la mano per afferrare la vittoria.
La sua gioia ebbe a un tratto una voce squillante come un trionfo. Finalmente! Finalmente!
Un altro miracolo si compiva: la vittoria gli sorrideva gloriosa poichè la sua macchina usciva finalmente dal suo carcere candido e tenebroso, ritrovava la luce oltre la nebbia disciolta, e i suoi occhi potevano ora vedere limpido il paesaggio sotto il velo bianco abbandonato fuggente in alto e dissolventesi nella luce.
Ah, la liberazione tanto attesa, insperata ormai e accolta come un prodigio!
Ora, davvero la vittoria diventava un giuoco ma diventava anche un premio per la gravità del pericolo affrontato e superato attraverso emozioni che sarebbero sempre state il segreto suo e il suo orgoglio.
Sotto il velivolo, la valle ampia e grigia si allargava, chiusa ai lati dalla doppia linea delle alture rocciose, tagliata in tutta la lunghezza dal torrente rapidissimo. In uno spiazzo più ampio, sorgeva il villaggio così vicino, così distinto che Noris non potè credere fosse già Evolena.
No, non poteva essere. Il velivolo era a non più di un centinaio di metri dai tetti d’ardesia delle case e l’aneroide segnava mille e cinquecentocinquanta.
Consultò la carta e l’orizzonte, e comprese. Non era Evolena, quella: era il villaggio di Handerès, e a nord la valle si faceva ancora più ampia e più largo il fiume e meno ripide le alture intorno.
Volse a nord-nord-ovest e pochi minuti bastarono per portarlo all’altezza di Evolena. Da lungi ancora egli ravvisò la fisionomia del villaggio e l’ampio campo preparato per l’atterramento del suo apparecchio segnalato dal pallone frenato già visibile sullo sfondo dell’orizzonte un po’ coperto, come visibile era ormai la larghissima striscia bianca tracciata in mezzo al campo.
Noris raccolse le sue energie per l’ultimo sforzo: adesso, un vivo desiderio lo aveva preso di scendere bene, non solo vittoriosamente ma esteticamente. Fino all’ultimo egli doveva avere il controllo di sè, il controllo della sua macchina, e ottenere alla sua impresa un suggello di bellezza grandiosa.
Spense il motore, e abbandonandosi in un volo librato che ancora la sua manovra guidava, cominciò a scendere.
La terra si avvicinava rapida, pareva salisse salisse in un impeto d’entusiasmo per incontrarlo, per abbracciarlo. Ecco: ogni particolare del campo d’atterramento era visibile ormai: pareva gli facesse cornice la fitta schiera della folla convenuta, disposta ai quattro lati del campo stesso, e pareva avesse un sol viso, quella folla, alzato ansioso verso il velivolo. Noris sentì a un tratto salire e investirlo un clamore frenetico dove si fondevano e confondevano grida, battimani, urla, esclamazioni, applausi. Ed ebbe appena il tempo d’avvertirlo. La terra era lì sotto.
Ebbe l’impressione di toccarla, di urtarvi quando ancora i suoi occhi cercavano ansiosi, acuti, fissi con la tensione lungamente durata e che adesso si mutava in spasimo, la linea bianca seguita fino allora, scomparsa a un tratto.
Dov’era? dov’era?
Un urto, un sobbalzo leggero, e ancora un tentativo di fuga della macchina, frustrato a un tratto dalla resistenza di robuste braccia sorte intorno come per un miracolo.
Arrivato? ma dov’era la linea bianca? dove?
Alla domanda formulata dalle sue labbra, dalla sua voce, senza che egli avesse coscienza d’aver espresso la sua preoccupazione, sentì rispondere con una sorpresa e con infinito giubilo da un’altra voce nota:
— Sotto la macchina, Noris! sotto la macchinai Bravo!
Il trionfo completo, dunque!
Alzò gli occhi e incontrò, fra cento visi ignoti intenti al suo, sorti intorno come in una visione di sogno, il volto noto di uno dei suoi meccanici illuminato da una espressione di felicità orgogliosa.
Ebbe la sensazione di rispondere a quel sorriso con un altro sorriso, poi non avvertì più nulla, non gli applausi formidabili, non le note squillanti della fanfara del villaggio che lo salutava trionfatore, non le cento mani protese verso le sue ancora contratte sul manubrio, non le infinite domande, le sollecitazioni, le proteste.
La reazione avveniva rapida: come una cappa di piombo buttatagli sulle spalle e sul capo a tradimento, la stanchezza lo aggrediva, lo prostrava, lo annientava.
Egli non seppe mai ricordare, poi, come fosse sceso dalla macchina e dove lo avessero trascinato le cento e cento braccia che si erano impadronite del suo povero corpo intirizzito e disfatto.
La sua energia lo aveva sorretto fino alla conquista e alla constatazione della vittoria: oltre, aveva ripreso i suoi diritti la fragilità della materia.