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do sull’aneroide: era a mille e ottocento metri.

Respirò. Se tutto era proceduto bene sinora, voleva dire che il suo intuito non l’aveva ingannato. La linea delle colline era superata.

Trasse un profondo respiro. Ogni pericolo non era scomparso ma il più grave era certo superato, e l’averlo superato così meravigliosamente gli pareva di ottimo augurio.

Ecco, adesso sarebbe bastato di stendere la mano per afferrare la vittoria.

La sua gioia ebbe a un tratto una voce squillante come un trionfo. Finalmente! Finalmente!

Un altro miracolo si compiva: la vittoria gli sorrideva gloriosa poichè la sua macchina usciva finalmente dal suo carcere candido e tenebroso, ritrovava la luce oltre la nebbia disciolta, e i suoi occhi potevano ora vedere limpido il paesaggio sotto il velo bianco abbandonato fuggente in alto e dissolventesi nella luce.

Ah, la liberazione tanto attesa, insperata ormai e accolta come un prodigio!

Ora, davvero la vittoria diventava un giuoco ma diventava anche un premio per la gravità del pericolo affrontato e superato attraverso emozioni che sarebbero sempre state il segreto suo e il suo orgoglio.

Sotto il velivolo, la valle ampia e grigia si allargava, chiusa ai lati dalla doppia linea delle alture rocciose, tagliata in tutta la lunghezza dal torrente rapidissimo. In uno spiazzo più ampio, sorgeva il villaggio così vicino, così distinto che Noris non potè credere fosse già Evolena.

No, non poteva essere. Il velivolo era a non più di un centinaio di metri dai tetti d’ardesia delle case e l’aneroide segnava mille e cinquecentocinquanta.

Consultò la carta e l’orizzonte, e comprese. Non era Evolena, quella: era il villaggio di Handerès, e a nord la valle si faceva ancora più ampia e più largo il fiume e meno ripide le alture intorno.

Volse a nord-nord-ovest e pochi minuti bastarono per portarlo all’altezza di Evolena. Da lun-