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vita era la voce del motore, un po’ attutita anch’essa dalla fascia imponderabile e greve della nebbia, meno vibrante, meno metallica, ma profonda e possente come una garanzia e una promessa.

Tutta l’anima di Noris era intenta adesso a quella voce e mai gli pareva d’averne inteso come in quel momento il linguaggio meraviglioso, mai gli pareva d’averla tanto amata quella cara voce amica che nel disagio e nel pencolo voleva rassicurarlo.

— Ti affida, ti affida! senti come saldo e sicuro funziona il cuore della tua macchina. Ti affida, ti affida! io non ti mancherò e canterò per te la diana della vittoria!

Di quanto era scesa la macchina? Noris non avrebbe potuto dirlo e non poteva controllarlo. Nemmeno chinandosi sino a toccarlo con l’elmetto egli poteva distinguere la cifra segnata dall’aneroide. Sollevò il capo nella illusione d’interrogare lo spazio. Sopra la sua testa la caligine s’era fatta più densa. Ricevette anche sul viso, presso il mento, in un punto che la breve maschera lasciava scoperto, qualche goccia d’acqua. Pioveva.

Ogni speranza di veder rarefarsi e sciogliersi la nebbia più in basso gli cadde dall’anima. Che fare? Nell’assoluta impossibilità in cui si trovava di poter controllare il cammino dell’apparecchio, egli non osava abbassarsi di più. Risolse di dirigersi dritto dinanzi a sè senza discendere di più, fidando nel suo senso d’orientamento per giungere all’altezza di Evolena, ripromettendosi di calare gradatamente non appena avesse raggiunto e intuito il punto della discesa.

Di nuovo il senso greve di tedio lo afferrò sensibile come un peso fisico, deprimente come una sconfitta.

Bastava quell’istante di riposo concesso al suo spirito, quella pausa determinata da una risoluzione presa fra due periodi di tensione e di lotta acuita dal pericolo grave per sopire le sue energie e far prevalere la materia.