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una spirale della quale non restava traccia contro l’orizzonte e che pure diventava la scala ideale per raggiungere e assaltare il nuovissimo Olimpo. Non aveva l’impressione di salire: si sentiva vieppiù distanziato dalla terra perchè questa pareva sfuggirgli di sotto e vedeva ampliarsi i confini del suo orizzonte e confondersi la visione dei particolari e il paesaggio assumere man mano un rilievo grandioso insolito alla sua osservazione, minaccioso di forma e di colori nel raggio più immediato, digradante lontano in una ondulazione imprecisa e infinita verso l’orizzonte estremo.

Le pareti verdi della valle che chiudevano come in una custodia inviolabile cupa di mistero e d’insidie la base della grande piramide, sperano sprofondate anch’esse e le ali bianche del velivolo si libravano già a un’altezza donde il Cervino appariva nitido come una piramide isolata staccantesi — roccia nera chiazzata qua e là di neve, velata lievissimamente da una imponderabile cortina azzurra — in fondo alla valle, contro il cielo.

Ettore Noris guardò l’aneroide: segnava tremiladuecento metri. Rapidissime si abbassavano innumeri vette intorno, le minori del gruppo, come si accovacciassero sotto il volo regolare meraviglioso non contemplato mai.

Noris volse intorno lo sguardo e non ebbe bisogno di consultare la nitida carta assicurata dinanzi ai suoi occhi, sotto il cristallo, accanto alla bussola per distinguere le catene più importanti: vicino il Monte Rosa; più vicini ancora e già superati, il gruppo del Thèodulhorn, le cime del Breithorn, del Gran Combino, del Château, des Dames, della Dent d’Hérens; laggiù, l’Oberland, poi il Monte Bianco, il più alto di tutti e che pareva soltanto, così da lungi, un mucchietto di nevi.

Quanta neve intorno e sotto! Tre colori soltanto distinguevano i suoi sguardi: le nevi bianche, le rocce azzurre, le valli verdi scavate come solchi fra precipizi spaventosi.