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Tremila ottocento segnava adesso l’aneroide.
Ettore Noris pensò che giammai egli aveva raggiunto una simile altezza. Ebbe la lucidità di esaminarsi per avvertire l’impressione di quella distanza vertiginosa dalla terra. E con un senso d’orgoglio rilevò che tutto era calma nel suo organismo, come calma sino al prodigio era l’atmosfera dove il suo apparecchio continuava ad ascendere.
A parte il freddo intenso che adesso passava anche la maschera, ch’egli s’era posta sul viso e i guanti di lana e il costume imbottite, sotto lo scafandro, non avvertiva nessuna sensazione sgradevole: i suoi polmoni funzionavano regolarmente, come regolarmente funzionava il motore della sua macchina: il suo cuore non dava un palpito di più, una calma sovrana teneva il suo spirito. Se le cose fossero continuate così, quel suo viaggio, davvero, sarebbe stato un gioco.
Ma non sarebbero continuate così. Noris lo sapeva e non si faceva illusioni. Questa, era la parte più facile dell’impresa. Attraversare a quell’altezza l’ampia Valtournanche nel senso longitudinale tenendosi al disopra delle correnti delle piccole gole laterali, non poteva costituire un pericolo.
Il difficile cominciava adesso che l’aereoplano si trovava al disopra di Breuil, in uno spazio limitato intorno da irte pareti rocciose tagliate a picco sopra gole insidiose.
L’aneroide segnava quattromila metri e il freddo si faceva più vivo, l’aria più frizzante. Mille piccoli segni avvertivano l’aviatore che una corrente era vicina: egli risolse di affrontarla mettendo l’apparecchio in linea retta colla prora rivolta verso il Cervino. Aveva così il sole alle spalle e la visuale limpidissima. La manovra eia necessaria anche per avvicinarsi il più possibile alla cima della piramide prima di raggiungere l’estrema altitudine necessaria per superarla.
Quando fosse stato a trecento metri dalla parete granitica, non sarebbe stato difficile a Noris di riprendere la manovra dell’ascensione a spi-