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alla manovra della macchina e pure occupato dalle sue sensazioni interiori per un fenomeno di sdoppiamento del quale aveva pure il controllo perfetto.

Il ricordo si riferiva al suo piccolo prediletto meccanico, Ugo, un giovinetto pieno d’ingegno e d’una sensitività che pareva e non era in contrasto col suo reale ardimento. Ugo lo aveva voluto baciare quella mattina, mentre lo aiutava a infilare lo scafandro nero sopra il costume di flanella ovattata e quel bacio che diceva tutta la repressa commozione del fanciullo era sceso all’anima dell’aviatore.

Anche Ugo temeva per lui. Adesso Ettore Noris lo indovinava quantunque il giovinetto non avesse mai osato tenergli parola del suo scoramento e della sua sfiducia e immaginava con un sentimento di tenerezza il viso imberbe dell’adolescente alzato contro il cielo a seguire il volo della macchina fragile, intento a cogliere l’ultima voce del motore per giudicare da quella le estreme probabilità di vittoria di Ettore Noris.

— Se ancora gli arriva lo scatto del motore, — pensò Noris, — Ugo dev’essere tranquillo per me.

Ma, difatti, la voce del gran cuore pulsante della macchina era stata più sonora, più regolale, più isocrona, più piena. Pareva che l’anima d’acciaio dell’apparecchio volesse con quel linguaggio formidabile rassicurare l’eroe e confortare la sua audacia.

E a quell’anima, Noris parlava come davvero ella potesse intendere la sua lode e la sua esortazione:

— Brava; se continui così, vedrai che miracoli noi compiremo. Ma tu devi aiutarmi a compiere il miracolo perchè la gloria sarà per entrambi.

Adesso, ogni voce della terra era scomparsa e il fremito sonoro del velivolo dominava solo il silenzio immenso. Noris si alzava gradatamente, continuamente, descrivendo nell’aria azzurra