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traverso l’autorità del suo nome la serietà della sua intenzione e del suo proposito, era stato un grido unanime decretante la follia del tentativo.

Ettore Noris si proponeva di attraversare il Cervino?

— S’erano visti — aveva scritto un giornale ironico — dei tentativi di suicidio anche più strani quantunque meno geniali.

Altri aveva enumerati i pericoli enormi da affrontare, le difficoltà gravissime da superare, il pauroso ignoto da subire e da vincere, concludendo per la follia dell’impresa.

Lo stupore sorpassava anche l’ammirazione, faceva guardare a Ettore Noris come a un vanitoso farnetico anzi che a un intrepido audace.

Nessuno contestava l’abilità di Noris ma nessuno era tenuto a supporgli dei limiti di resistenza superiori a quelli di ogni altra creatura umana. Ora, l’impresa superava certamente l’impeto e l’audacia di qualunque resistenza umana.

Geo Chavez? Sì, ma il Sempione misurava duemila metri d’altezza nel punto dove il peruviano ardito era passato, e il Cervino ne misurava quattromila e cinquecento. E si conosceva palmo per palmo il gruppo del Sempione, erano note le insidie dei suoi venti, si poteva calcolare e prevedere qualsiasi suo pericolo.... E ancora, malgrado tutte queste condizioni che riducevano di molto, nei confronti di quella sognata dal Noris, l’impresa di Geo Chavez, Geo Chavez aveva pagato colla vita il suo ardimento.

Era morto, Geo Chavez, e non di ferita ma per la troppo intensa vibrazione dei suoi nervi, per il pulsare troppo rapido delle sue arterie, per il troppo palpitare del suo cuore di commozione, di febbre, di orgasmo, di esaltazione; era morto Geo Chavez e nessuno aveva conosciuto, nessuno aveva indovinato il segreto di quella sensazione violenta che in un’ora aveva logorato la sua fibra di vent’anni e bruciata la sua vita.

E ora, Ettore Noris si proponeva di ripetere, superandolo, il gesto di Geo Chavez?