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mila e trecento metri senza pericolo di incontrare altre vette. Evolena era a mille e trecento sul mare: intorno, la vallata non contava che contrafforti di colline, nessuna delle quali raggiungeva i mille metri d’altezza. E forse, più in basso la nebbia si sarebbe schiarita.

Cominciò a scendere concentrando un’altra volta tutte le sue facoltà sulla manovra della macchina. A un tratto gli parve che questa scomparisse travolta da un gorgo candido imponderabile che soffocasse lui pure. La nebbia lo aveva investito in pieno separandolo dal mondo, togliendogli la visione delle cose e anche la sensazione della luce, stringendolo dappresso così da impedirgli persino di distinguere più la carta e la bussola collocate sotto i suoi occhi e nemmeno le sue mani contratte sul manubrio.

Istintivamente sollevò il capo e lo scosse come per liberarsi da quella forma nuova di aggressione fastidiosa e terribile, poi subito si reso conto dell’assurdità del suo gesto e sorrise. Ma aveva bisogno di respirare e non potè impedire alla sua bocca di spalancarsi per aspirare una boccata d’aria che non trovò. Il vapore freddo e acre che gli entrò in gola e che i polmoni aspirarono gli diede un senso di soffocazione fastidiosissimo.

— Qui muoio, se non esco da questa caligine, — pensò.

Ebbe l’impulso di risalire in cerca di un po’ di ossigeno, ma un attimo di riflessione lo fece desistere dalla tentazione.

— Se salgo — si disse — perdo dell’altro tempo, incontro ancora il freddo e poi non faccio che rimettere questo cattivo passo senza vincerlo. Coraggio!

Spalancò gli occhi fissando acutamente le pupille attraverso la nebbia come volesse penetrarla. Nulla. L’atmosfera intorno pareva fatta di bambagia tinta in un color bianco giallastro. Noris aveva l’impressione di esserne investito e rivestito, fasciato, schiacciato, imprigionato. Nella sensazione d’isolamento spaventoso che questo fenomeno gli dava, unica espressione di