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rale che doveva permettergli di raggiungere l’altro versante del monte. La misura di prudenza era imposta anche dalla necessità di scongiurare il congelamento dell’olio del motore. Quantunque il motore Kindler-Pearly che Noris adoperava, fosse sotto questo riguardo assai più garantito d’ogni altro per avere i tubi oleatori assolutamente protetti, rivestiti com’erano d’una sostanza termogene, pure l’aviatore non si sentiva perfettamente sicuro. Nessuno aveva esperimentato quella disposizione speciale del congegno a cinquemila metri d’altezza....
Così, bisognava abbreviare la prova.
Stava concludendo su questa necessità, quando una scossa improvvisa fece sussultare l’apparecchio che oscillò con violenza.
— La raffica, — pensò Noris.
Non un fremito ebbe il suo sangue. Soltanto la ruga scavata fra le sue sopracciglia corrusche si fece più fonda e più cupamente il gesto sicuro e fermo della sua mano ristabiliva l’equilibrio dell’apparecchio. L’urto si ripetè, più basso, con una spinta brusca che sollevò la macchina e fece tendere le ali in una vibrazione che rasentò lo schianto, e la manovra serrata, pronta, rude dell’aviatore non aveva ancora parato quest’altro assalto del nemico invisibile che una nuova spinta investì l’apparecchio di fianco, stavolta, togliendo a Noris, per un attimo, il controllo della direzione.
Un colpo di timone protestò contro l’aggressione che minacciava di mandare la macchina a sfasciarsi contro una delle enormi pareti della gran roccia vicinissima ormai e formidabile col suo mantello nero chiazzato qua e là di amplissime macchie nevose lacerato dai crepacci cupi d’ombra e di mistero.
Per un istante il timone ebbe ragione dell’assalto, poi l’urto replicò, più violento, seguito da altri innumeri che venivano dal fianco opposto, dall’alto, dal basso, come se infinite mani invisibili di invisibili giganti spingessero l’apparecchio, lo sollevassero, lo schiacciassero giuo-