La Veste d'Amianto/Parte prima/V
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V.
Un richiamo sommesso e monotono di campane destò completamente Ettore Noris. Come era stato l’ultimo a spegnersi fra i suoi sensi sopraffatti dall’esaurimento di ogni energia, l’udito fu il primo a ridestarsi. Egli rimase ancora un istante raccolto ad ascoltare quella voce suscitatrice di nostalgie, mentre a poco a poco anche la coscienza andava ridestandosi.
Adesso ricordava confusamente: la traversata, la macchina, la linea bianca sul campo, il trionfo....
Eppoi? eppoi? che era avvenuto? dove si trovava? dove?
Aperse gli occhi e fece, istintivo, l’atto di sollevarsi. Invano. Il suo corpo pareva di piombo e il vasto letto che lo accoglieva, tutto bianco fra le pareti bianche della stanza deserta, sembrava avvincerlo colla possanza d’un incantesimo.
Egli tornò a ripetersi:
— Dove sono?
E come prima non trovò la risposta. Ma frugava, adesso, collo sguardo ogni angolo della stanza, inventariava gli oggetti, interrogava le cose per ottenere una risposta.
Constatò con piacere che l’ambiente era fragrante di pulitezza, sereno, eminentemente fatto per il riposo calmo e benefico del corpo e dello spirito. Una penombra fresca leggermente tinta in verde assicuravano le finestre spalancate e le griglie accostate, oltre le quali s’indovinava la quiete greve del meriggio estivo. La stanza, molto vasta, era tagliata in due da una tenda bianca tesa da una parete all’altra in faccia al lotto largo e comodo coperto d’una coltre bianca fatta all’uncinetto.
— Questo, — pensò Noris rispondendo a un dubbio melanconico suggeritogli dalla cortina bianca che gli nascondeva l’altra metà della camera, — questo non è un letto da ospedale.
Eppoi, perchè avrebbero dovuto portarlo all’ospedale? Egli non aveva subito incidente alcuno o almeno non ne aveva assolutamente memoria.
Preso da un improvviso sbigottimento si tastò le gambe, il torace, il capo, le spalle.
Che sollievo! no, non era ferito, e nemmeno si sentiva ammalato. Stanco ancora e indolito sì, ma sano e salvo e forte. Cominciò a rigirarsi lentissimamente nel letto per provare i suoi muscoli e le sue ossa. Si riconfermò nella certezza lieta che la sua macchina era intatta e funzionava bene.
No, non era quella una stanza da ospedale. E nemmeno era una camera d’albergo. V’era troppa pulizia e troppo senso d’intimità. I ninnoli sparsi sul cassettone, il merletto del lenzuolo, la frangia lunghissima degli asciugamani appoggiati sulla spalliera inferiore del lotto, escludevano la banalità delle stanze d’albergo.
E allora? dove si trovava? e perchè lo lasciavano solo? Adesso era impaziente di sapere.
— Bisogna chiamare, — pensò. — Ci sarà bene un campanello.
Girò il capo per cercarlo sulla parete, dietro il letto, ma non lo trovò. La parete, tutta bianca, era invece occupata da una dolcissima immagine della Madonna d’Einsiedeln. Sotto, due altri quadretti portavano quelle di San Maurizio e del beato Nicolao della Flüe.
— Ho capito. Sono ancora in Isvizzera, — pensò Noris.
Era poco, come informazione, ma era sempre qualcosa.
A un tratto, gli giunse dal fondo della stanza, oltre la tenda il rumore lieve d’un giornale spiegazzato. C’era dunque qualcuno nella stanza.
Senza indugiare, Noris chiamò:
— Chi c’è là?
Gli rispose un grido di gioconda meraviglia seguito subito dalla comparsa del suo più caro piccolo amico; Ugo.
— Tu? — fece Noris allargando le braccia.
— Io, signor Noris. S’è svegliato? come sta?
— Benissimo, io. Ma spiegami dove sono e come sei qui tu.
— Lei è ospite del curato di Evolena.
— Ah, capisco! Cioè, non capisco affatto. Cosa è successo?
— Nulla di male, signor Noris. Ieri, dopo quel meraviglioso viaggio....
Noris interruppe:
— Come, ieri? è stato ieri? E io ho dormito ventiquattr’ore?
— No, no, non ha dormito sempre: è stato sveglio anche, ma non se ne rammentai di certo. Era così stanco! ha avuto un po’ di febbre anche. Sfido io, dopo un viaggio come quello! che trionfo, signor Noris, che trionfo!
Una commozione profonda e tenera traspariva dalle parole del giovinetto, dal suo viso acceso, dai suoi occhi umidi, dalla sua voce che tremava un poco.
Un’altra volta le braccia, di Noris si apersero per abbracciarlo.
— Vieni qua! tu sei proprio contento, dunque?
— Se sono contento! Mi pare ancora un sogno! Sono orgoglioso come se la traversata l’avessi fatta io!
— La farai anche tu, un giorno.
— Chissà!
— Basta volere. Bisogna volere e aver fede.
— Ah no che non basta. Bisogna anche essere lei, signor Noris.
— Eppure tu non credevi, che io riuscissi. Di’ la verità. Te l’ho letto in fronte ieri mattina, quando son partito.
— È vero. Non ho mai dubitato della sua forza, ma avevo paura che le difficoltà fossero più forti del suo coraggio. Sa..... Pensavo a Geo Chavez!
— Anche tu?
— Mi perdona, signor Noris?
— Non hai bisogno del mio perdono. Hai temuto per me, ma senza mancarmi di fede. È così?
— Così, proprio. Ma adesso, vede, se anche lei mi dicesse che col suo aereoplano vuol andare in America, io ci crederò.
Noris sorrise.
— Farai bene, — disse, — perchè io ci andrò.
Il giovinetto gli fissò in volto due occhi attoniti sino allo sgomento e poi che vide sereno, calmo, sicuro il viso del suo maestro, si chinò, gli prese la mano e la portò alle labbra.
— Aiutami a sollevarmi, Ugo, — fece Noris. — Un giorno andrò in America col mio «Blériot», ma per ora non sono capace di star su dritto da me. Ho le ossa rotte.
— Sfido! con quel po’ di fatica che ha dovuto durare!
— Terribile, sì, ti assicuro.
— Chissà che impressione!
— Magnifica e terrificante. Ti racconterò.
— Oh, grazie! Ha dovuto lottare molto?
— Molto. Ho incontrato dei remous violentissimi presso la cima, poi, di qua, la nebbia.
— Me lo hanno detto. Erano tutti in apprensione qui perchè avevano veduto le montagne fasciate d’una nebbia densa e grave.
— Una nebbia come non ne avevo visto mai, Ugo. Figurati che non potevo più leggere nè la bussola nè la misura dell’aneroide.
— E come ha fatto?
— Ho accostato agli strumenti la fiammella dell’accenditore.
— Ah! una trovata!
— Già. Ma ho passato un quarto d’ora preoccupante.
— E il freddo?
— Intenso. È stata la sensazione più penosa che io abbia sofferto.
— Anche questo lo hanno capito, qui. Quando l’hanno aiutato a scendere dalla macchina era ancora intirizzito. Forse, lei non s’è nemmeno accorto di quello che avveniva.
— No, Ugo, no. L’ultima impressione che rammento è d’aver veduto Cesare e d’averlo sentito gridarmi: bravo! Non vedevo più nemmeno la linea bianca. Dove ho toccato terra?
— Sulla linea, precisamente, in pieno.
Un sorriso d’orgoglio sfiorò le labbra di Noris.
— Meno male, — egli disse.
— Ah! — ripetè il giovane meccanico, — è stata una cosa grande! Sapesse che entusiasmo in tutti! Cesare, voleva portarla subito a Sion coll’automobile e farle prendere l’espresso del Sempione fino a Torino. Ma il medico non ha permesso. Lei, scusi, sa! era disfatto. Si vedeva che non capiva più nulla e che non poteva reggersi. Le hanno fatto bere dello champagne, se ne ricorda?
— Ah no! — Vede? il medico ha insistito perchè la facessero riposare subito e allora, poichè non c’è in paese un albergo discreto, il sindaco e il parroco hanno offerto la loro casa. Il medico l’ha fatto accompagnare qui e l’ha messo a letto.
Ecco tutto.
— Che brava gente! Se non riposavo, morivo!
— Lo credo. E si figuri che c’erano dei giornalisti che insistevano per parlarle. Non sono ancora partiti, sa! Sono giù.
— Dove giù?
— In paese. Stamattina hanno supplicato anche, me. Mi fanno la corte come a un personaggio importante, nella speranza che io li avverta appena lei starà meglio e sarà in grado di riceverli.
— Lasciali aspettare, Ugo. E dimmi come ti trovi qui, tu.
— Sono partito ieri mattina da Châtillon non appena ho perduto di vista l’apparecchio. Sono venuto in automobile fino a Torino col presidente del Comitato e con due giornalisti. Facevano conto di aspettarla colà. Si ricorda che era stabilito appunto così, che andando bene le cose lei sarebbe ripartito subito da Evolena?
— Già.
— Sapesse che accoglienza le avevano preparato a Torino! Non importa. Saranno per quando ci arriverà. E anche a Genova. Ieri, dunque, eravamo a Torino da forse mezz’ora, quando, un po’ prima di mezzogiorno, arrivò da Sion un telegramma che annunziava il suo trionfo. Che entusiasmo! avesse visto! i giornali pubblicarono subito la notizia in edizioni speciali e in città non si parlava d’altro. Un po’ più tardi, alla sede del Comitato giunse la notizia che il medico aveva consigliato di lasciarla riposare almeno fino ad oggi qui. Allora, io, risolvetti di venirla a raggiungere. Non ne potevo più. Avevo bisogno ai vederla. Ho preso il diretto del Sempione alle due e alla sera sono arrivato a Sion. Ho cercato una automobile per venir subito a Evolena ma non ne ho trovate. Allora ho deciso di dormire a Sion e di ripartire stamattina presto. Ho fatto così.
— E appena arrivato ti sei messo subito far l’infermiere, nevvero? Sei un bravo ragazzo, caro Ugo, e io ti ringrazio.
— Oh, non dica così, signor Noris! se sapesse come sono felice di stare con lei, come sono orgoglioso di essere qui adesso! Sono io che debbo ringraziarla di lasciarmi qui! Chissà quanta gente vorrebbe essere al mio posto!
— Forse sì, ma per curiosità e per vanità. Tu ci sei per affetto, nevvero, Ugo?
Adesso gli occhi del giovinetto erano pieni di lagrime. L’affettuosità del suo superiore che egli sapeva essere solitamente chiuso, rude e freddissimo per tutti, acquistava dalle circostanze un significato così prezioso da gonfiargli il cuore di tenerezza e di orgoglio.
— Questo è il più bel giorno di mia vita, — egli disse con semplicità.
— È un bel giorno anche per me, — fece Noris, — sono contento d’aver fatto quello che ho fatto, Ugo.
Il giovinetto parve ricordarsi a un tratto di una cosa molto importante.
— C’è di là tanta posta per lei, signor Noris, — disse, — vuol vederla?
— Dove, di là?
Il ragazzo accennò oltre la tenda bianca nell’altra metà della camera silenziosa.
— Sul tavolo, di là.
— Ah, sta bene. In questo caso, portamela. Temevo che tu dovessi scendere e dare l’allarme a tutta quella brava gente.
Ugo sorrise.
— Non vuole che sappiano che s’è svegliato?
— Per ora no. Si sta tanto bene qui.
Il giovinetto attraversò la stanza, scomparve dietro la tenda e riapparve quasi subito reggendo un largo cesto colmo di buste multicolori e di bustine giallognole di telegrammi.
— Dio, quanta roba! — fece Noris sgomento.
— Nevvero? E continua ad arrivarne dell’altra. Erano tante che la signorina Marguerite ha dovuto prestarmi una cesta della biancheria per raccoglierle tutte.
— La signorina Marguerite? e chi è?
— La nipote del curato, signor Noris.
— Giovane, eh, canaglia?
— Giovane, sì, e carina, — fece Ugo arrossendo sotto la discreta allusione del suo maestro.
Ma Noris aveva aggrottato le sopracciglia e mutando tono a un tratto, raccomandava:
— Non far sciocchezze, neh? mi raccomando.
I ragazzi che lavorano con me debbono lasciare un buon ricordo dappertutto dove passano.
— Non abbia paura, signor Noris.
— Già, — soggiunse, — anche se avessi le idee che non ho, sarebbe perfettamente inutile. Dove c’è lei, signor Noris, gli altri uomini possono scomparire, giovani e vecchi, perchè le donne non hanno più occhi che per lei.
— Tu sei matto!
— E così. So bene che a lei non importa, che lei non ci bada, che forse non si accorge nemmeno. Lo sappiamo tutti, ma è la verità. Anche la signorina Marguerite che avrà sì e no sedici anni e che positivamente ha un visetto da madonnina, è tutta in orgasmo quando parla di lei.
— Ma dove e come te ne sei accorto se tu sei qui da stamattina?
— Sì, ma adesso sono le quattro, signor Noris, e ho pur dovuto scendere per far colazione. Il curato, che deve essere una bravissima persona, ha fatto della sua sala da pranzo corte bandita per i meccanici del signor Noris e per i giornalisti. Eravamo in nove a colazione e c’era, naturalmente, anche la signorina Marguerite.
— Ho capito.
— Guardi, — continuò Ugo che frattanto andava togliendo le lettere dalla cesta e le collocava sul tavolino trascinato presso al letto, — guardi se non ho ragione io. Scommetto che tutte queste buste colorate e profumate.... senta! scommetto, dico, che son tutte lettere di donne.
— Vediamo, — fece Noris appoggiandosi alla spalliera del letto, — apri. I telegrammi, prima.
Ce n’erano a centinaia: salutavano Noris e lo acclamavano tutte le personalità ufficiali del paese, tutte le associazioni sportive, tutti i circoli di giovani raccolti sotto le più disparate bandiere.
La sua gloria era di quelle che ogni partito poteva riconoscere e ogni fede invidiare: era l’esaltazione di quella energia che ogni idealità si propone di far trionfare, era la vittoria dell’«io» superiore sopra tutti gli istinti meno nobili e più egoistici.
Noris accoglieva la lettura di quei saluti con l’immutata espressione del suo viso chiuso e impenetrabile: qualcuno soltanto accompagnava con un cenno lento del capo che diceva il suo gradimento, e una frase breve di tenerezza rispondeva alle espressioni più ardenti e più entusiaste dei suoi ammiratori lontani.
Era così semplice, per quanto fosse stata ardua, nel suo giudizio, l’impresa compiuta, che gli pareva eccessivo avesse potuto destare tanto entusiasmo. E lo diceva al suo piccolo amico interrompendo a quando a quando la sua lettura, — Che brava gente! ma io non merito tutto questo. Il trionfo è della macchina, non mio!
— Non lo dica, signor Noris: non c’era che lei al mondo che potesse compiere quel volo.
Anche Blériot glielo diceva in un saluto vibrante d’entusiasmo e glielo confermava l’ingegner Kindler in un lungo telegramma dove esprimeva l’ammirazione e la gratitudine sua e del suo principale, Pearly, per quel nuovo trionfo che aggiungeva anche al prestigio della loro casa.
Il telegramma di Kindler evocò nel pensiero di Noris il ricordo di Susanna. Chissà che faceva Susanna? se era guarita? se ancora si lasciava amare da Kindler? se si rassegnava? se aveva già dimenticato? Chissà se aveva scritto, Susanna?
No, non aveva scritto.
Ecco, esauriti i telegrammi, Ugo apriva le lettere dando la precedenza alle più profumate e alle buste colorate. Erano tutte firmate davvero con dei piccoli nomi di donna, ma non v’era fra quei nomi, quello di Susanna.
Forse, Susanna era già guarita e aveva dimenticato. Quello che ella aveva ritenuto un sentimento profondo, era stato soltanto esaltazione e vertigine. Una sorpresa della fantasia provocata dal prestigio nuovo e non comune di un uomo eccessivamente audace. Avevano tutte la stessa origine le esaltazioni femminili che lo cercavano e lo sollecitavano: erano tutte forme vicinissime all’istinto per cui la fragilità femminile anela alla forza e la sua insita timidezza all’audacia sfrontata e il suo bisogno di dedizione alla violenza della conquista. Un aviatore o un cavallerizzo o uno schermidore o un lottatore o, in una sfera più nobile, un soldato: purchè in una qualsiasi di codeste categorie un individuo avesse raggiunto l’eccellenza e si fosse imposto al mondo e il mondo gli avesse decretato un’aureola.
Ecco, una breve lettera femminile spropositata e cinica esprimeva precisamente quel suo pensiero.
— Oh, — diceva la lettera firmata Elsa, — essere conquistata da voi che conquistate i cieli!
La frase era parsa meravigliosa a Ugo che rimaneva immobile col foglio aperto tra le mani, intento a osservare sbalordito l’impassibilità del suo maestro.
— Butta via, — fece Noris tranquillo. — Tieni solo quelle che esigono una risposta.
Veramente, una risposta l’avrebbero voluta, tutte quelle lettere: quella di una Manon che si diceva giunonicamente bella, bianca e biondissima; e l’altra d’una Ines che si proclamava intellettuale e appassionata, e l’altra ancora di una Ester che si diceva di essere signorina e ricca e libera e disposta ad offrire a Noris il suo cuore e la sua mano, e l’altra ancora d’una sentimentale inguaribile che diceva a Noris: — Che sfolgorante sogno voi sareste sull’orizzonte del mio meriggio!
— Deve avere almeno cinquant’anni questa vecchia strega! — fece Ettore ridendo di un largo e sonoro riso di fanciullo.
— Può essere, — convenne Ugo. — Ma le altre!
— Le altre sono delle povere pazze, caro Ugo.
— Senta questa che ha empito la lettera di fiori disseccati.
Si firmava Mariula l’ignota che spediva a Noris un ramoscello di verbena e un bacio per la sua fronte incoronata dalla vittoria.
— Non dice altro? — domandò l’aviatore.
— No.
— Ecco un omaggio accettabile. Non gettare la lettera.
Ugo sorrise.
— Qui, — soggiunse poi tagliando una larga busta che al tatto sentiva resistente e spessa, — qui c’è un ritratto.
— Anche?
— Già. Ecco. Dio, che bella donna!
— Vediamo. Non c’è male. E che dice?
Cominciò a leggere una lunga lettera bizzarra e appassionata rivelatrice di una certa sincerità di esaltazione attraverso l’evidente squilibrio. La lettera era firmata con un nome straniero e pregava Noris di voler accettare l’amicizia di una donna giovane e ardente che invano aveva perseguito l’ideale di un uomo che sapesse disprezzare la vita.
— Una pazza interessante, — osservò Noris.
— Risponde?
— No, butta via.
— Tutte, dunque?
— Tutte.
— Ma perchè?
— Perchè così, caro.
— Per lei non esiste proprio, dunque, l’amore?
— Nessuno ci crede più di me, caro Ugo, ma tutto questo non è l’amore.
— Chissà! è per lo meno qualcosa di molto simile e a lei non costerebbe sacrificio.
— Non mi darebbe nemmeno gioia.
— Dà sempre gioia una bella donna innamorata.
— Innamorata, sì, ma tutte codeste non lo sono.
— Perchè la cercano, allora?
— Così, per un capriccio di femmine.
— Tutte?
— Tutte. In me, esse adorano ancora la loro vanità. Hanno l’illusione di vedermi più alto degli altri miei simili e vogliono sfiorare l’altezza dove mi collocano. Alcune si accontentano di avere una cartolina firmata da me. Basta, per la loro vanità. Le altre vogliono me. Ma lo scopo è identico nelle une e nelle altre: il brivido di avere accostato un morituro. Io sono, ai loro occhi, il candidato costante della morte. Domani, il destino può farmi pagare in un attimo tutti i miei trionfi e allora tu vedi il pregio tragico che acquistano un mio autografo o il ricordo del mio amore. Sai il fatto di quella ragazza che acconsentì a lasciarsi amare da Tropmann l’ultima notte di sua vita, mentre fuori gli aiutanti del boia dirizzavano la ghigliottina? Di quell’episodio la ragazza si fece poi sempre un titolo di celebrità. Si trattava di una sciagurata in quel caso, ma lo spirito del gesto ha molta affinità colla realtà del sentimento che ha dettato tutte queste lettere.
— È atroce.
— Sì, ma la donna è sempre atroce quando non è una santa.
— Senza eccezioni?
— Le eccezioni esistono ma si chiamano angeli.
— Lei mi mette paura, signor Noris.
— Non me ne spiace: alla tua età, un po’ di paura della donna può essere una salvaguardia salutare. Fino a un certo punto, sai. Tutta la paura che io potessi ispirarti, non ti impedirebbe, non ti impedirà di amare o di credere di amare e di commettere tutte le sciocchezze che ogni uomo commette a venti anni. Ma le sciocchezze di vent’anni non contano. L’importante è che tu sappia riconoscere l’amore vero e sentirne la nostalgia quando sarai uomo e la vita ti avrà messo in grado di apprezzare quale meraviglioso dono sia il possesso di un’anima.
Tacque e per un poco regnò il silenzio nella bianca stanza raccolta.
Ettore Noris seguiva il filo delle memorie che le sue stesse parole gli avevano evocato nell’anima, memorie sempre presenti, animate sempre dall’immagine viva della dilettissima perduta. Egli lo aveva conosciuto il dono prezioso e nessuno era stato in grado di apprezzarlo più di lui che per tanti anni era passato accanto alle più complicate forme dell’egoismo e del vizio mascherate di amore ignorando sempre la dolcezza d’un profondo sentimento vero.
Ugo contemplava adesso il suo maestro adorato con rispetto nuovo. Le parole di lui — sempre così scarso di parole, così freddo, così chiuso — gli avevano aperto come una nuora visione della sua anima. Attraverso quella egli vedeva adesso Noris rivestito d’una bellezza morale che aggiungeva al suo prestigio di grandezza una ragione nuova di superiorità.
Anche, gli pareva d’intuire, attraverso quelle parole, un dramma sentimentale nella vita del suo maestro. Vagamente comprese che la ostentata freddezza di lui, diventata ormai leggendaria, doveva avere una ragione che non era l’aridità. Rinunziò a indagare il mistero ma fu orgoglioso d’averlo intuito, come se quel mistero creasse tra lui e il suo maestro un vincolo di più e più intimo.
— Ho finito, — disse a un tratto mostrando tutte le lettere distrutte.
— Bravo, — fece Noris, — adesso, aiutami a vestirmi.
— Ma il medico ha raccomandato che lo avvertissero non appena lei si sarebbe svegliato. Vuol visitarla.
— Faremo una sorpresa al medico. Saremo noi che faremo visita a lui. Guarda come son forte.
D’un balzo fu in piedi, raccolse le sue robe, si vestì, fece una rapida toeletta sommaria e propose al suo giovane amico che lo guardava sbalordito:
— Scendiamo.
Constatava con gioia di sentirsi davvero benissimo. Quella giornata di riposo profondo era bastata per restituirgli tutte le sue energie.
— Adesso — disse — potrei risalire sull’apparecchio e andarmene fino a Sion a prendere il treno. E un’idea, — soggiunse.
— Da stagionare, però, perchè il dottore non le permette certo di partire quest’oggi.
— Ne riparleremo. Andiamo a ringraziare il curato, intanto.
Uscirono insieme nel corridoio, in tempo per veder sfuggire allo svolto che dava sulla scala un lembo ai veste azzurra e di udire lo scalpiccio di passetti rapidi e leggeri giù per la scala.
— Ha veduto? — fece Ugo. — L’aspettava.
— Chi?
— La nipote del curato.
— Ah! non mi pare che aspettasse precisamente. L’abbiamo anzi sorpresa: tanto vero che è scappata.
— La soggezione. Ma certo spiava per sentire quando lei si sarebbe alzato.
— Povera piccina, dev’essere molto buona.
— Sì, e anche il curato ha l’aria d’una brava persona.
Noris se ne accorse subito quando, giunto in fondo alla scala, se lo vide venire incontro colle braccia aperte come un buon papà. Era un bel vecchio, alto e robusto, con un’aria di candore che armonizzava coi bianchi capelli lasciati un po’ lunghi intorno al suo viso roseo di saldo montanaro e contrastava invece coll’espressione di forza emanata da tutta la sua poderosa figura. L’aria patema gli stava bene e Noris ne fu subito conquistato.
— Adesso che la vedo in piedi son tranquillo, — diceva il buon prete, — ma sono stato molto inquieto. Quando me l’hanno accompagnato qui, ieri, pareva in istato di sonnambulismo. L’ho detto subito a Marguerite: vero?
Si rivolse per cercare la testimonianza della nipote, ma Marguerite non c’era.
— Dov’è? — domandò stupito. — Dove si sarà cacciata? L’ho avuta alle costole fino adesso ed ora è scomparsa. Notino che m’ha fatto ricominciare tre volte il breviario per venirmi ad annunziare che dalla sua stanza aveva udito il signore parlare, che perciò lei doveva essersi svegliata, poi che l’aveva udita alzarsi e infine che stava per scendere. E adesso scompare. Lei deve scusarla, signor Noris, è come una capretta selvaggia.
L’immagine fece sorridere Noris che rassicurò il buon vecchio e strappò un’esclamazione di protesta a Ugo:
— Oh!
— Sì sì, — continuò il curato, — una capretta selvaggia! Adesso che non è più in pena pel signore, scommetto che è tornata fuori per andare nel bosco. È la sua seconda casa il bosco: scommetto, proprio, che c’è tornata anche adesso.
Ma stavolta, la scommessa del curato doveva andare perduta, perchè appena entrati nell’ampia e luminosa sala da pranzo che, secondo Ugo, i giornalisti avevano da ventiquattr’ore mutata in bivacco e dove anche adesso tre corrispondenti erano in attesa di notizie di Noris, scorsero Marguerite affacciarsi sulla soglia d’una porta laterale che dalla sala metteva in cucina.
— Ecco la signorina, — annunziò pronto Ugo rivolto al curato.
— Ah, meno male. Vieni qua. Dopo aver tanto trepidato pel signore, vieni almeno a salutarlo.
Il bel visetto di Marguerite s’era fatto di fiamma e le sue mani tormentavano un lembo del grembiulino di seta nera staccante come una nota d’austerità sull’azzurro della semplice veste che rivelava senz’alterarla la flessuosità della figurina snella, ma i suoi grandi occhi puri come due lembi di cielo guardavano Noris con franchezza e con intensità come volessero cercare nel suo viso il segreto del suo avventuroso e vittorioso destino.
— Sono io che debbo ringraziarvi delle premure e dell’interessamento che voi avete avuto per me, signorina, e lo faccio con tutto il cuore, — disse Noris accostandosi alla fanciulla.
Un dolce sorriso pieno d’ingenua gioia gli rispose, poi le labbra soavissime mormorarono un: Merci, monsieur, appena percettibile e la visione dileguò.
Con una mossa improvvisa e rapidissima la fanciulla era fuggita, scomparsa provocando in tutti una risata di sorpresa.
— Che vi dicevo? — tornò a ripetere il curato con aria desolata, — selvaggia! selvaggia!
— È deliziosa, — protestò Noris.
E davvero egli lo pensava.
La visione era stata di quelle che dànno la gioia senza dare il turbamento, che piegano le ginocchia in un’espressione di reverenza prima ancora di arrivare al cuore. Quasi una bimba, e così fresca, così ingenua, così nuova che nessun pensiero poteva suggerire che non fosse di purezza.
— È deliziosa, — ripetè, e stavolta, Ugo e i giornalisti gli fecero coro con evidente soddisfazione del vecchio prete che doveva adorare la sua piccola selvaggia.
Poichè Marguerite era scomparsa, i giornalisti ne approfittarono per bloccare Noris e intervistarlo. Egli si sottomise rassegnato e indifferentissimo al supplizio inevitabile: rievocò, per tutti, i particolari del suo viaggio, disse le insidie, il pericolo, le emozioni e le trepidazioni colla semplicità e la sobrietà che gli erano naturali perchè rispondevano alla serenità e alla calma sovrana del suo spirito.
Quel racconto, se valse anche a vincere e a scuotere lo scetticismo professionale degli intervistatori, portò al colmo l’entusiasmo ammirativo del buon curato.
Adesso, egli guardava Noris come un essere soprannaturale e non rifiniva dal proclamarsi fortunato per aver avuto l’onore e la ventura di poterlo ospitare.
Più tardi venne il medico, quando già i giornalisti si erano congedati per ripartire colla posta della sera che doveva ricondurli a Sion. Col suo consenso, venne deciso che Ettore Noris sarebbe ripartito l’indomani mattina ma non col suo Blériot. Le difficoltà che una partenza coll’aereoplano avrebbe presentato erano tali che Noris vi rinunziò sopratutto in vista del tempo che avrebbe dovuto impiegare per organizzare l’arrivo a Sion.
L’apparecchio, affidato alle cure dei meccanici, avrebbe raggiunto l’aviatore a Genova fra qualche giorno.
La serata trascorse dolcissima in una intimità di colloquio che soltanto Noris, il parroco, Marguerite, e Ugo condivisero. E si prolungò fin tardi nella notte. La gioia di trovarsi fra persone semplici e buone, schiette e care, rendeva eloquente Ettore Noris che si diffondeva a narrare di sè e della sua vita con un abbandono insolito.
Ugo lo guardava sorpreso un poco e intenerito per le sensazioni che indovinava nel maestro. Marguerite ascoltava e taceva, ma i suoi grandi occhi azzurri non si staccavano dal viso dell’aviatore, le cui imprese le parevano, adesso, leggende fantastiche.
A un certo punto, poichè Noris esprimeva il suo rammarico di dover abbandonare quella casa e i suoi ospiti, il curato gli propose con entusiasmo:
— Rimanga!
— Potessi!
— Che cosa glielo impedisce? non m’ha detto di essere solo al mondo?
— Solo, — confermò Noris.
— E allora?
— Allora ci sono gli impegni, c’è il lavoro, c’è il dovere.
Marguerite osò intervenire nel discorso:
— Per chi lavora, — domandò, — se non ha nessuno?
— Per nessuno, signorina.
Un vago gesto desolato sottolineò quelle parole.
Il curato intervenne:
— La solitudine dev’essere terribilmente triste alla sua età. Permetta a un vecchio prete di darle un consiglio: si faccia una famiglia.
Le ciglia, dei grandi occhi azzurri che fissavano il giovane palpitarono rapide nell’attesa breve della risposta e quando la risposta venne, una calma espressione di pace si diffuse nelle iridi larghe e serene.
— Non posso, caro amico, — diceva la risposta.
— Perchè?
— Perchè sarebbe un delitto associare una donna al mio quotidiano duello con la morte.
— E non rinunzierebbe mai a questa vita?
— Non credo. È la mia vita.
— Allora, ha ragione. Ma non sente mai la nostalgia d’una famiglia, d’una casa sua?
— Raramente. La vita che io conduco non me ne lascia il tempo. E gli ambienti che solitamente frequento non sono tali da suggerire la nostalgia di una casa.
Adesso, gli occhi di Marguerite esprimevano un misterioso sgomento, come si fossero spalancati sull’orlo di un abisso tenebroso. Si rifecero subito limpidi e chiari quando Noris ebbe soggiunto:
— Se mi accadesse sovente di trovarmi in un ambiente come questo, di passare una serata dolce d’intimità come questa, probabilmente la nostalgia che voi dite si farebbe sentire. Così....
— In questo caso — disse il curato — io mi auguro di poterla rivedere sovente.
— Grazie: lei ama più me che la mia macchina, vuol dire.
— Sì, lo confesso, sì. Sento per lei qualcosa che va oltre l’ammirazione, un interessamento che mi fa desiderarle meno gloria e più felicità.
Oh come avrebbero volontieri sottoscritto alle parole dello zio i grandi occhi color di cielo!
Quel signore così celebre, così glorioso, così forte, così audace, che tutto il mondo ammirava, che avrebbe potuto legittimamente cingersi d’orgoglio e di alterezza, era invece così semplice e buono! E non doveva essere felice no, perchè il suo sorriso era sempre triste e la sua fronte chiusa da un suggello di malinconia.
Lo zio aveva ragione di desiderargli maggior felicità e meno gloria. Aveva ragione d’invitarlo a rimanere ancora alla canonica. Perchè se ne andava se era vero che qui si trovava tanto bene? E dove se ne andava?
— A Genova, — aveva detto lui.
Chissà dov’era Genova! Marguerite sapeva soltanto che era una città lontana, lontana, sul mare.
Ma ignorava che cosa fosse una grande città, ella che non era mai andata più lontano di Sion e il mare si sforzava di concepirlo immaginando moltiplicato all’infinito e senza sponde il letto del Rodano contemplato appunto a Sion.
E che avrebbe fatto Ettore Noris a Genova poichè non possedeva nè casa nè famiglia? Marguerite non sapeva concepire come si potesse vivere senza famiglia e senza casa, come si potesse essere soli soli al mondo, senza nemmeno uno zio o un fratello o una sorella. Lei che pure era orfana, aveva una sorella in collegio a San Maurizio e un fratello in seminario a Friburgo e il suo caro zio curato e un’altra zia ch’era superiora in un convento di benedettine nella Savoia.
Come si poteva essere soli al mondo? e se la cosa poteva essere, come si faceva per rassegnarcisi senza morire?
Ardui problemi, che occuparono il cervello della fanciulla anche quando, congedatasi definitivamente da Noris, da Ugo e dallo zio, ella fu sola nella sua stanzetta bianca attigua a quella dell’ospite, anche quando, spento ogni lume, fu, nella casa addormentata, il silenzio solenne e profondo della notte alta.
Come si poteva vivere soli al mondo senza morire di tristezza?!
Pure, si poteva, poichè Ettore Noris viveva così. Ma Ettore Noris era un uomo ed era il forte per eccellenza fra tutti gli uomini, e se non moriva di malinconia, di tristezza, di desolazione, soffriva però profondamente.
Il viso di Ettore, austero e chiuso, colla fronte corrusca sulle pupille chiare, fu l’ultima visione che la mente della fanciulla percepì prima di abbandonarsi al sonno.
Sognò che Ettore diventava suo fratello, che era lecito a lei di parlargli, di sorridergli, di passargli la destra sulla fronte in una carezza lenta e buona, di baciarlo ogni volta ch’egli si staccava da lei per salire sulla sua macchina terribile.
Un sogno che le diede fin che durò l’illusione, una gioia avvertita soltanto dal suo sangue pulsante rapido nelle arterie, dai suoi nervi distesi, dal palpito regolare e profondo del suo cuore, ma che si mutò in sconforto al risveglio.
Era l’alba, la primissima alba estiva limpida e fresca come una rinascita. Noris doveva partire alle sei. Mancavano più di due ore e così Marguerite come lo zio avevano già preso congedo fin dalla sera innanzi dall’ospite. Era convenuto che difficilmente si sarebbero riveduti alla mattina perchè il curato diceva la messa precisamente alle sei e Marguerite vi assisteva.
Tuttavia la fanciulla risolvette di salutare un’altra volta l’aviatore. Saltò dal letto, spalancò la finestra sulla valle, salutò le vette candide lontane non ancora baciate dal sole e si vestì rapida. Il sogno fatto nella notte viveva limpido nella sua mente come il ricordo d’una realtà. E non lo trovava strano. Lo avrebbe raccontato allo zio, lo avrebbe raccontato a Noris se Noris avesse avuto il tempo d’intrattenersi con lei. Ma certo aveva altro da fare. Adesso era vestita e sentiva l’ospite muoversi nella sua stanza accanto, intento certo a prepararsi per la partenza.
Marguerite fu presa a un tratto dal timore che Noris potesse scendere e abbandonare la casa senza ch’ella potesse rivederlo. Discese rapida, si preparò sulla soglia, vi rimase un poco insensibile alla brezza fredda dell’alba. Poi, andò in cucina. La domestica non era ancora discesa. Sulla credenza, fra gli avanzi dei banchetti pantagruelici del giorno innanzi, stava un piatto colmo di pani al miele d’un bel colore bruno dorato.
Marguerite ebbe un’idea: offrirne uno a Noris. Sarebbe stato un pretesto per salutarlo. I pani, tagliati nelle forme più svariate, portavano tutti nel centro una larga mandorla sbucciata, candidissima. Marguerite ne scelse uno foggiato in forma di cuore e salì col suo piccolo viatico inconsciamente e deliziosamente simbolico.
Noris usciva appunto allora dalla sua stanza. Si incontrarono nel corridoio.
Egli ebbe un sorriso e un’esclamazione di sorpresa lieta.
— Già alzata? ma è così mattiniera lei?
— Sì, — seppe rispondere soltanto Marguerite.
— Brava! che bell’incontro! sarà una giornata buona, questa, per me!
Si avvide d’un tratto del pane che la fanciulla teneva nella destra.
— E abbiamo già appetito a quest’ora, eh? — osservò. — Benone!
Allora, Marguerite osò:
— È per lei, — fece stendendo la mano che teneva il pane con un gesto imbarazzato.
— Per me?
Una evidente sorpresa tenne un istante incerto il giovine. Poi, egli prese il pane, vide il cuore, credette e temette insieme d’indovinare un significato, rimase incerto, imbarazzato, sospeso.
Doveva credere?.... o ridere?.... o non vedere?...
La cosa era così bizzarra da diventare grottesca se davvero Marguerite avesse inteso d’annettere a quell’offerta il valore d’un simbolo.
Ma gli occhi della fanciulla levati su di lui erano limpidi e sereni come la sua cara anima ignara. E allora, una commozione dolcissima gonfiò il cuore di Noris.
— Cara bambina! — egli disse chinandosi a mettere sulla fronte bianca della fanciulla un bacio pieno di tenerezza e di reverenza.
Poi, prese il pane e scomparve mentre Marguerite lo guardava allontanarsi pensando:
— Come nel sogno....
Ma i grandi occhi erano adesso velati di lagrime perchè sapevano che il caro fratello non sarebbe tornato....