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gi ancora egli ravvisò la fisionomia del villaggio e l’ampio campo preparato per l’atterramento del suo apparecchio segnalato dal pallone frenato già visibile sullo sfondo dell’orizzonte un po’ coperto, come visibile era ormai la larghissima striscia bianca tracciata in mezzo al campo.

Noris raccolse le sue energie per l’ultimo sforzo: adesso, un vivo desiderio lo aveva preso di scendere bene, non solo vittoriosamente ma esteticamente. Fino all’ultimo egli doveva avere il controllo di sè, il controllo della sua macchina, e ottenere alla sua impresa un suggello di bellezza grandiosa.

Spense il motore, e abbandonandosi in un volo librato che ancora la sua manovra guidava, cominciò a scendere.

La terra si avvicinava rapida, pareva salisse salisse in un impeto d’entusiasmo per incontrarlo, per abbracciarlo. Ecco: ogni particolare del campo d’atterramento era visibile ormai: pareva gli facesse cornice la fitta schiera della folla convenuta, disposta ai quattro lati del campo stesso, e pareva avesse un sol viso, quella folla, alzato ansioso verso il velivolo. Noris sentì a un tratto salire e investirlo un clamore frenetico dove si fondevano e confondevano grida, battimani, urla, esclamazioni, applausi. Ed ebbe appena il tempo d’avvertirlo. La terra era lì sotto.

Ebbe l’impressione di toccarla, di urtarvi quando ancora i suoi occhi cercavano ansiosi, acuti, fissi con la tensione lungamente durata e che adesso si mutava in spasimo, la linea bianca seguita fino allora, scomparsa a un tratto.

Dov’era? dov’era?

Un urto, un sobbalzo leggero, e ancora un tentativo di fuga della macchina, frustrato a un tratto dalla resistenza di robuste braccia sorte intorno come per un miracolo.

Arrivato? ma dov’era la linea bianca? dove?

Alla domanda formulata dalle sue labbra, dalla sua voce, senza che egli avesse coscienza d’aver espresso la sua preoccupazione, sentì risponde-