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pido il sangue: gli parve d’aver fatto una scoperta prodigiosa. Subito, mentre la sua mano sinistra manteneva il volante, frugò colla destra nella tasca ampia dello scafandro, trovò l’astuccio metallico sottile e liscio, lo cavò fuori, lo avvicinò agli strumenti misuratori, fece scattare trepidamente la molla e la fiammella breve brillò, oscillò un poco, piegò, si risollevò e si mantenne.

Noris guardò subito l’aneroide: segnava duemila e quattrocento metri. Ebbe freddo al cuore.

Se la macchina non correva proprio perpendicolare al fiume, egli si trovava tuttora nella regione del pericolo. In un lampo aveva calcolato: Evolena, si trova a mille e trecento metri d’altitudine, e la valle è chiusa lateralmente da colline che s’innalzano da cinquecento a novecento metri e anche più.

Istintivamente manovrò per far risalire un poco il velivolo mentre il suo sguardo correva a consultare la bussola. Questa segnava adesso, tutta volta a settentrione la direzione della macchina. Una dilezione ottima ove si fosse trovato davvero al disopra della valle.

Un ultimo sguardo all’orologio e alla carta.

L’orologio segnava le otto e venticinque e la carta garantiva ampia e sgombra, d’ostacoli la vallata intorno a Evolena.

Facendo il computo della direzione in cui si trovava l’aereoplano, del cammino fatto, del tempo trascorso, Noris pensò che Evolena doveva essere poco lontana.

Bisognava scendere. Rischio per rischio, meglio quello che rispondeva alla necessità del suo itinerario che non l’avventuroso affidarsi al caso senza una visione e senza una mèta.

Come ebbe presa la risoluzione audace cominciò ad abbassarsi attento e intento con tutta la forza della sua esperienza a ogni oscillazione della macchina e a ogni scatto del motore. A un certo punto, la sua destra che teneva sempre chiuso l’astuccio dell’accenditore, lo fece scattare un’altra volta; il tempo di gettare uno sguar-