La Marfisa bizzarra/Canto XII
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CANTO DUODECIMO ED ULTIMO.
ARGOMENTO.
Ritrova Orlando in luogo stran Morgante.
More il guascon per la filosofía.
Si dá un dettaglio general galante
di Carlo e Francia e della baronia.
Move la guerra Marsilio arrogante.
La bizzarra ha una fiera pulmonia:
guarisce mal, che tisicuzza resta;
da pinzochera alfin caccia una vesta.
1
Della mia penna d’oca, alme annoiate,
questo è l’ultimo corso e del mio inchiostro.
È Marfisa al suo fin, non dubitate;
non mi chiudete il caro udito vostro.
So che in picciol drappello siete state,
che lo stíl mio non è pel secol nostro,
ma un rancidume italian che offese,
non essendo condito col francese.
2
Soccorri, o Febo, i sezzi versi miei.
O Febo, o Febo, non sei g^á piú il sole.
Ciechi siam tutti, e ben esser vorrei
scrittor, piú che di cose, di parole.
Né tu se* un dio, né gli altri dèi son dèi;
sono squagliate omai le antiche fole;
ma perch’io tengo ancor di muffa un poco,
scandalezzando ognun, te, Febo, invoco.
3
Difendi almen la povera mia pelle
dall’ugne di seimila e piú Marfise,
che son rimaste vecchiette e donzelle,
perché non han le bizzarrie recise.
Tutte vorran di brigata esser quelle
in quella che Turpino un tempo mise;
e non varran proteste o apologie
con queste imbestialite anime mie.
4
Da’ Nami avari, dagli Astolfi vani,
da’ Terigi grossier, dagli Olivieri,
da’ Rinaldi ebbri, da’ divoti Gani,
Avini, Avoli, Ottoni, Berlinghieri,
e Guottibuossi e Gualtier cappellani, ,
e tante dame e tanti cavalieri
che a quelli di Turpino han somiglianza,
mi salva: io non ho colpa né arroganza.
5
Solo i Marchi e i Mattei da San Michele
hanno alcune cagion d’irritamento,
che furo un di molesti alle mie vele,
ma dicono: — Mea culpa e me ne pento. —
Spegner non posso piú le lor candele,
che stan come memoria e monumento;
ma g^uro a Dio che, se al mio sen verranno,
cordiali baci ed amicizia avranno.
6
Al secolo torniam di Carlo Mano,
alle dolenti note di Turpino,
a Filinoro fatto ciarlatano,
alla bizzarra ed al fratel meschino,
a Dodon sciolto, al danese cristiano,
ad Orlando, ad ogni altro paladino,
perocché incominciando s’ha intenzione
di dare all’opra alfín conclusione.
7
Il vecchio Uggero in traccia di Marfisa
non andò molto lunge dalle mura.
Cavalcò poche miglia alla ricisa,
con gran molestia d’una sua rottura,
dicendo: — Io sono il soccorso di Pisa;
il zelo v’è, ma stanca è la natura. —
Chiese notizie a parecchi villani,
la fece dire in chiesa a tre piovani.
8
Ma finalmente, stanco e appassionato
d’aver abbandonata Galerana,
che aveva innanzi agli occhi in ogni lato
per lui dolente e vecchia e poco sana,
la rottura e l’amor l’han consigliato:
è la speranza per Marfisa vana;
sicché tornò a Parigi di portante,
lasso come venisse da Levante.
9
Giunto a Parigi, Galerana attenta
volle gli fosser poste le coppette,
sei sopra i lombi, e grida: — Ch’ei le senta, —
ed una in sulla nuca, che fúr sette;
né mai fu lieta né mai fu contenta
se anche un servizial non se gli mette,
dicendo: — So ben io che un serviziale
a un riscaldato è la man celestiale. —
10
Dodone aveva scorsa l’Inghilterra,
invano di Marfisa ricercando.
Qui d’un suo portafogli, che disserra,
ben mille commession venne cavando,
che al partir di Parigi un serra serra
aveva avuto di «vi raccomando» ,
sentendo ch’ei di Londra va a’ confini,
da cavalieri e dame e paladini.
11
Spiegando i bullettin, che avea riposti
per la gran fretta senza fare esame,
legge che astucci e oriuoli avean posti,
catene, tabacchiere e vasellame,
mille lavor fantastici e supposti,
e tutto d’oro e niente di rame;
indi guaine o vuoi stivali o guanti
per certe dita de’ moderni amanti.
12
Certe manteche stimolanti ed atte
a risvegliar la snervata lussuria;
certi spiriti ed acque ad arte fatte,
che metton nelle reni della furia;
e cento libri osceni e cose stratte
contro al del, contro la romana curia,
e insegnamenti a creder solamente
nel vin, ne’ cibi e al coito allegramente.
13
Il bello era a veder ne’ bullettini,
massime in que’ che i libri ricercavano,
le scritte commession da’ paladini,
di spropositi piene, che fummavano.
Parean note dell’arte de’ facchini
a tal che appena si raccapezzavano;
pur volean libri usciti sul Tamigi,
per fare i letterati per Parigi.
14
Fu per scoppiar di rabbia Dodon santo;
ma finalmente si metteva a ridere.
gridando: — O paladini, o secol, quanto
cercate il mal dal ben scérre e dividere!
Beata etá, se tanto mi dá tanto,
chi retto può dell’avvenir decidere?
Felici tutti i secol che verranno
dietro la traccia di costor che sanno. —
15
Arsi ha i viglietti delle ordinazioni
Dodone e verso Francia via galoppa,
dicendo: — O vili, o porci, o mascalzoni!
Rotta ogni chiave ornai, rotta ogni toppa.
Astucci d’oro, e d’or repetizioni!
Color mi pagherieno alfin di stoj^pa.
Guaine, unguenti, libri da puttane!
M’hanno posto nel ruol delle ruffiane. —
16
Cosi ridendo ed ora bestemmiando,
sprona il destriere e spaccia la campagna.
Ora troviamo un poco il conte Orlando,
che cerca invan Marfisa in Alemagna.
In una piazza a Vienna capitando,
gente vide che s’urta e si scalcagna,
che usciva fuor d’un grand ’uscio ed entrava
al quale un carantano si pagava.
17
Sopra quell’uscio grande una gran tela
era appiccata, e un uom dipinto in questa:
parca formato il quadro d’una vela,
tanto è l’uom di statura disonesta.
Fuori è un che trangoscia e si querela
con voce roca, e sopra al quadro pesta
con una verga, e grida, e ognun consiglia
ad appagarsi della maraviglia.
18
Orlando guarda la trista pittura
del gigante ivi esposto, e crede certo
che ignota non gli sia quella figura;
pure il ritratto non conosce aperto.
La curiositá della natura
lo spinge all’uscio; il carantano ha offerto;
entra ed iscopre con stupor davante
spettacol del casotto il gran Morgante.
19
Il Pulci in modo arcano lasciò scritto
che pel morso d’un granchio egli era morto;
ma per allegoria s’intenda il vitto
d’un casotto, e il suo fine un tristo porto.
Orlando fuor di sé, dal duol trafitto,
gridò: — Fortuna, è troppo grave il torto!
Com’hai ridotto in si misero stato
un che con le mie mani ho battezzato?
20
Caro figlioccio mio, gigante degno,
chi ti condusse a tanta estremitade?
tu che meco domasti piú d’un regno,
spargendo il sangue per cristianitade? —
Morgante a questa voce, ad ogni segno,
conobbe Orlando suo, pien di bontade,
e si coperse con le mani il viso,
a un pianto abbandonandosi improvviso.
21
Il conte l’abbracciò teneramente,
e in una stanza trasse il suo gigante,
dov’è un gran pagliariccio puzzolente,
su cui dormiva il povero Morgante.
Quivi cresce di lagrime il torrente:
fu per morir d’angoscia il sir d’Anglante,
e chiede al catecumeno suo monte:
— Chi t’ha uguagliato ad un rinoceronte? —
22
Rispose quel: — Poiché mi battezzasti,
e ch’ebbi per Gesú tante ferite,
e tanti turchi col battaglio ho guasti,
vinte cittá, rotte schiere infinite;
giudicai d’aver fatto quanto basti
a meritarmi il pan per mille vite;
ma Carlo in pace, grasso e rimbambito,
ebbe nel dua chi l’aveva servito.
23
Tu sai del memorial ch’ho presentato:
ch’ei mi facesse almeno alfier si chiese;
ed egli alfier mi fece riformato
con que’ meschin cinque ducati il mese.
Giá conosci il mio ventre dilatato
e s’eran sufficienti per le spese:
ebbi tant’ira, caro paladino,
ch’io fui per farmi ancora Saracino.
24
Molte donne cristiane parigine,
innamorate della mia grandezza,
m’avrien soccorso con un certo fine;
ma non vo’ dirti la lor sfrenatezza.
Oh quai costumi! oh che buone farine!
perché la chiesa vostra ancor battezza?
Irato, stomacato, sbalordito,
ospite insalutato son fuggito.
25
Non volli abbandonar la nuova fede,
perché l’ho ancora in buona opinione.
Tu dicesti: — Esser cieco de’ chi crede,
de’ sperar, abbia o non abbia ragione. —
Sperando, sono andato sempre a piede;
servii, sperando, di guardaportone;
ma, perch’io mangio assai, mi dièro il bando:
partii cieco credendo e ognor sperando.
26
Pelle ed ossa, una mummia era ridotto,
sembrava la figura d’un sudario.
Videmi un cavaliere, industre e dotto
de’ teatri e dell’opere impressario;
mi disse che, s’entrassi in un casotto
per lui, meco saria Cesare e Dario.
Risposi si, che vedeva la fame
e da tre di vivea di fieno e strame.
27
Mi fece por sopra un gran carro chiuso
questo caritatevol ortodosso,
perché nessuno mi vedesse il muso,
per non aver pregiudizio d’un grosso.
Di cittade in cittá di me fece uso;
tu vedi il modo, ch’io tacer ti posso,
e servo per le spese come il miccio,
la notte dormo in su quel pagliericcio. —
28
Morgante qui le lagrime rinnova,
che ognuna avrebbe empiuta una scodella;
i suoi merti rammenta e il duol che prova
per la prostituzione e si martella;
qualch’eresia gigantesca ritrova,
che la disperazion lo dicervella,
e dice della fede e la speranza
cose contro gli arcani e la costanza.
29
Orlando molto lo rimproverava,
col viso brusco, sussiegato e fiero,
dicendo: — Anche nell’onde s’affogava,
perché mancò di fede, un di san Piero.
Colle tribolazion Dio ti provava,
per veder s’eri buon Cristian da vero. —
Disse il gigante lagrimoso e chiotto:
— È ver, ma risparmiar potea il casotto.
30
— No — grida il conte, — vessazion piú fiera
dell’esporti al casotto potea darti;
la berlina, la frusta e la galera
potean giugnere ancora a tribolarti.
Vedi che inaspettato questa sera
a Vienna m’ha spedito a sollevarti. —
Grato Morgante allora è al ciel rivolto,
che frusta né galea non l’abbia còlto.
31
Coir impressario il roman senatore
ebbe molte parole e molta pena
per liberar Morgante, che il signore
ha una scritta peggior d’una catena.
II conte è pien dell’antico furore;
colui non par che lo badasse appena,
e disse: — Piú non s’usano i bestiali;
cantan le carte e sonvi i tribunali. —
32
Dal suo procurator corre volando.
Ecco un messo togato viene ansante,
che intima una gran pena al conte Orlando
e nel casotto sequestra il gigante;
poi cita il senator, per non so quando,
a non so quale tribunal davante.
Quest’ordin, questo messo, queste carte
fecero smemorare il nostro Marte.
33
E cominciava gli occhi a stralunare,
dicendo: — O Dio del ciel, che cosa è questa!
può la giustizia un furbo spalleggiare?
qual è la triste azion, qual è l’onesta? —
E volea lo staggito via menare.
Morgante ride e crollava la testa,
dicendo: — Ecco per me, caro campione,
della galera la tribolazione. —
34
Molti tedeschi Orlando han consigliato
a non commetter criminal per certo,
perocché avrebbe in tutto rovinato
nel vero punto la question del merto.
— Voi avete avversario un avvocato
— dicean — ch’è ben inteso e molto esperto,
e saprá cor vantaggio in sui trapassi:
bisogna misurar l’ordine e i passi. —
35
— Qual ordine? quai passi? — il conte grida
quanto spender dovrò? quanto piatire? —
Diceano quei: — Se avrete buona guida,
basteran tre o quattr’anni a diffinire.
Chi volete del spender che decida?
non si misuran ne’ litigi lire. —
Morgante ride e dice: — Conte mio,
tribolazioni che ti manda Dio! —
36
Non potè Orlando trattener le risa,
pensando al vecchio ed al nuovo costume.
— Questa spada tal causa avria decisa
a’ giorni miei — dicea — senz’arte o acume.
Mille pupille e vedove in tal guisa
da tirannia levai, da mendícume.
A non poter trar fuori, or son ridotto
un da me battezzato, d’un casotto.
37
Giudici miei, non siate addormentati;
delle leggi si fanno iniqui abusi
da una caterva d’uomin scellerati:
dch! non sedete sonnolenti e ottusi.
Certi procurator, certi avvocati
fan mille oppression, mille soprusi,
temerari affidando alcuna volta
in chi dorme sedendo o male ascolta.
38
O siate vigilanti ad impedire
i lacci occulti, i forensi veleni,
o lasciate l’un l’altro ogni uom ferire
per le proprie ragioni e i propri beni.
Questo è un voler far tisici morire
mezzi i soggetti vostri d’amor pieni,
ed un voler che chi non ha danari
sia pasto de’ piú furbi e de’ piú avari.
39
Dov’è quel mascalzon dell’impressario?
Non vo* consigli o fòro o citazione,
né star tre anni in mano col lunario
a legger ferie e di di riduzione.
Non so di merto o d’ordine o divario,
non voglio prima istanza o appellazione:
piú non conosco la ragion qual sia;
voglio pagar la sua bricconeria. —
40
Or qui in maneggio quella lite andava
tra il conte Orlando e l’avverso avvocato,
il qual di cerimonie il caricava,
vantandosi sincero ed onorato.
Il conte d’un sudor freddo sudava
e chiude gli occhi e chiede esser spacciato.
Dunque per il real lucro cessante
cento zecchin fúr chiesti pel gigante.
41
Orlando gli pagò subitamente,
piú del solito guercio ma scherzevole,
dicendo: — Ella è un signor conveniente:
la richiesta è discreta e ragionevole.
La prego a riverirmi il suo cliente,
al qual parto obbligato ed amorevole.
Il cielo a lei mandi sempre lavoro
e quanto le desidero nel fòro. —
42
Il sir d’Anglante gli volse le schiene,
chiama il gigante e mettonsi in viaggio
verso Parigi. — Meco al male e al bene
starai — diceva Orlando, — ma sie saggio. —
Morgante rispondeva: — Io non so bene
se i saggi o i matti trovin piú vantaggio;
vedo nel mondo certe stramberie,
che saran chiare al novissimo die. —
43
Rispose Orlando: — Questo avvien, mi credi,
perché gli uomin si scostan dal Vangelo.
Contan le man, la bocca, il ventre, i piedi,
e dicono: — Un sipario azzurro è il cielo,
e togli quel che puoi e quel che vedi;
e se vuoi pace, altrui tien l’arma al pelo,
e stupra e strippa e procura dovizia,
che dorme e si delude la giustizia. —
44
Tosto che fu trattato l’eroismo
da certi libriccini geniali
col titol di pazzia, di fanatismo
ne’ martiri, ne’ forti e ne’ leali,
fu una conseguenza l’ateismo
e il far la societade d’animali,
ma d’animai tanto peggior de’ bruti,
quanto di questi gli uomin son piú acuti.
45
Non sarien tanti astuti tra le genti,
se tra le genti non vi fosser sciocchi,
fra quai si denno porre anche i prudenti,
che offesi son dai furbi e chiudon gli occhi;
poiché son oggi gli astuti insistenti,
e la prudenza abborrisce gli stocchi,
donde i prudenti sopraffatti e oppressi
nel numer degl’ignocchi vengon messi.
46
Se la massima «Fa’ quel che tu possa»
prevale alla «Non far quel che non devi»,
il povero di spirto è nella fossa
e non trova nessun che lo sollevi;
che se alcun’alma a sollevarti è mossa,
benefízio non è quel che ricevi.
Nel tuo impressario fa’ che tu discema
un’alma generosa alla moderna.
47
Tu vedi in che consiste ogg^i la gloria,
che un di coH’eroismo s’acquistava.
Fosse pur fanatismo: alla memoria
ho che in util del popolo tornava.
Or un tuppè, un vestito è una vittoria
a’ nostri stolti paladin di fava;
e l’oriuol co’ dondoli e la dama
e un bel convito lor dá pregio e fama.
48
Certa ignoranza, certa nebbia folta,
cert’ozio, certa voluttá brutale
occupa tutti, fa ogni mente stolta;
e una certa ingordigia universale,
che han tutti a voler tutto in una volta,
per satollarsi, vada bene o male.
Debito 1 amor, inganno e mal francese
fa pien di disperati ogni paese.
49
Rilieva il segno de’ gran disperati
dalle campagne, d’assassin covili,
da que’ tanti da lor stessi impiccati,
da que’ che balzan giú da’ campanili.
Forse i Scevole e i Curzi son tornati?
Cerca i moventi e saran lordi e vili,
che il troncar la credenza sopra il tetto
ha sempre cagionato un tristo effetto.
50
Tant’è, Morgante; stiam costanti e fissi,
trapassiam della vita l’ultim’ore;
e morendo co’ nostri ’crocifissi,
speriam trovar di lá vita migliore.
Io dirò sempre: — Ciò che scrissi, scrissi. —
E qui piangeva il roman senatore.
Anche il gigante gli occhi imbambolava,
seguendolo alla staffa, e singhiozzava.
51
Lasciamgli andar verso Parigi. Il testo
ritorna a Filinoro saltimbanco,
che, fuggendo il palchetto si molesto,
trova la moglie, travagliato e stanco,
e fece fare i suoi fardelli presto,
che pargli aver qualche sicario al fianco;
poi, caricata una sua gran carrozza,
quella notte parti di Saragozza.
52
Di cittade in citta, di fiera in fiera
espose gli stagnoni e i bossoletti,
ma il suo commercio scarseggia in maniera
da non poter comperar sei panetti.
Anche all’uccellagion della mogliera
venieno pochi tordi e magheretti,
perocché i capitali erano mezzi
e v’è stagione in cui son schifi i vezzi.
53
L’arte del ciurmadore Filinoro
lascia in una cittá che noi conosce,
e torna cavalier posto in decoro
per cercar via di riparar le angosce.
Si mette al petto un bell’ordine d’oro
e cammina diritto in su le cosce;
nelle ricreazion si producea;
le dame d’esso gelose facea,
54
D’una tra l’altre, vedova opulente,
a Filinor molto garbava il core,
e giá le avea rubata si la mente,
ch’ella sposato l’avria per amore.
Ma v’era il nodo fatto anteriormente,
ostacolo importuno a córre il fiore.
Filinor, dotto nei nuovi sistemi,
né ammaina vele né ritira i remi.
55
Studiato avea quella bella lezione,
che il mal occulto mal non era certo,
e che sol era mal d’opinione
quando venia nel pubblico scoperto;
donde una sua scientifica intenzione
va mulinando, d’uom di vero merto:
Turpin la scrisse e d’aver pianto accenna;
ed a me nelle man triema la penna.
56
Trovo memorie di certo veleno,
di certi ordin secreti scellerati,
che ammorzan quasi il plettro nel mio seno;
pur i miei fogli esser denno imbrattati
di relazion da fare il gozzo pieno
a’ mascalzoni affamati e assetati,
che con lor voci chiocce van gridando,
seguita la sentenza o dato il bando.
57
E deggio dir che vedovo è rimasto
il guascon della sposa cantatrice;
ma che il dotto pensiere gli fu guasto
che non sia male il mal dalla radice;
perché l’idea d’occultazione è un pasto
nell’empio malfattor molto infelice.
Le azioni proibite han troppe cose
che restar non le lasciano nascose.
58
Nota che senza violenti brame
l’uom non si mette della vita a rischio.
Avarizia, vendetta, amore o fame
lo sbalordisce e fa calare al fischio;
e chi è fuor di sé, tutte le trame
non sa evitar né vede tutto il vischio;
cieco trasporto è guida e cieche desta
d’occultazion lusinghe in cieca testa.
59
Il non aver al fatto testimoni,
il colorir col pianto un gran dolore,
il far di mali scorsi narrazioni,
di predizion d’alcun bravo dottore,
ed un torrente d’acute invenzioni
non giovano al guascon buon dicitore,
che sostien solo superfizialmente
quel «Non v’è mal, se occulto è fra la gente».
60
Un frate vi direbbe che il peccato
accieca l’empio per voler di Dio.
A questa opinione, umiliato
e pieno di credenza, assento anch’io;
ma posso dir senz’esser condannato,
fuor dal mirabil anche, il parer mio:
l’empio, sciente d’esser in periglio,
ha dipinto l’interno sopra al ciglio.
61
Nelle dimostrazion giusta misura
prender non può, sicch’egli affetta alfine,
perch’altera il cervello la paura,
e passa il vero naturai confine.
L’iniquo Filinor tutto proccura,
ma troppe son le smanie e le moine,
troppi i discorsi, le proteste, i pianti
per chi lo conosceva per lo avanti.
62
Aggiungi che la povera ammalata
aveva detto al medico all’orecchio:
— Temo d’esser, dottore, avvelenata;
il mio marito è un vii traditor vecchio. —
L’Ippocrate l’avea molto osservata
ne* sintomi e nel vano suo apparecchio,
e finalmente in se stesso è d’avviso
che un velen l’abbia spinta in paradiso.
63
Consegna a’ tribunali i suoi sospetti
e della morta i secreti timori.
Sparasi occultamente; ecco gli effetti
d’un funesto velen negl’interiori.
Non dimandar se adopran gl’intelletti
i cancellier, magnifici signori.
La fame è un dio cerusico oculista
per aguzzare a’ cancellier la vista.
64
Secreti esami, tracce, costituti
vanno guastando la filosofía;
a parecchi stranier, che son venuti,
del guascon nota è la fisonomia;
sui popolar bisbigli non son muti;
va razzolando la cancelleria,
trova che fu bandito, ciarlatano,
abate, baro e marito e ruffiano.
65
Vedi quante gran cose inaspettate
e non previste, o forse non temute,
al filosofo nostro son pur nate,
le sue cautele a far zoppe e scrignute!
Le fogne invan si tengono turate:
dove stanno si sa che intorno pute.
Chi le malizie de’ scrittor comprende,
da’ lusinghier sofismi si difende.
66
Gli amori colla ricca vedovetta,
le brame del guascone ed i pensieri,
tutto si scrive e va per istaffetta.
Piangean per l’allegrezza i cancellieri.
L’industre criminale formichetta
pel fil della sinopia ha i lumi interi,
ed al sistema che il mal non sia male,
fu spennacchiato il culo e rotte l’ale.
67
Non bisogna sprezzar l’esperienza
de* secoli trascorsi ed il sapere,
e credi che l’antica sapienza
mestier non ha di moderno brachiere.
Togli per infallibile sentenza
la favola di Mida e del barbiere,
che al bucolin degli orecchioni grida,
donde nacquer le canne dalle strída.
68
Filinor ode il sordo mormorio:
per le botteghe faceva il leprone,
gli occhi ha incantati e pavidi, e pur brio
tenta mostrar, che ha in cor la sua lezione.
Timor di morte alfín piú che di Dio,
scorgendo bieco il guardan le persone,
lo fece diffidar del suo sistema:
volle fuggir per sua miseria estrema.
69
Fermato vien dalla sbirraglia: allora
la fuga alla condanna fu sigillo.
Lo scellerato, d’ogni speme fuora,
in modo s’avvili ch’io non so dillo.
Giá data è la sentenza ch’egli mora,
con quel timo condita e quel serpillo,
ch’essendo uscito di nobil casato,
fosse per somma grazia dicoUato.
70
Cosi la filosofica alta idea,
che resiste a’ martelli e alle tenaglie,
men valse della opinion plebea
ridicola, che parlin le muraglie;
e Filinor, che il ciel sprezzar solea,
or fra due cappuccini e le gramaglie,
pallido, sbigottito e tutto fede,
avemarie dimanda a chi lo vede.
71
«Oh maledetti ingegni traditori
— è di Turpin l’invettiva zelante, —
filosofi del mal coltivatori,
maestri a far la societá forfante,
de’ patiboli infami protettori,
certo voi siete a parte del contante
del carnefice, a voi sozio e compagno;
e ben vi si conviene un tal guadagno».
72
Segua il guascon gli oscuri suoi destini:
fuggfiam, lettor, dalla malinconia.
Vada dove lo inviano i cappuccini
o dove il suo carnefice l’invia:
torniamo a’ nostri snelli parigini,
perocch’è giunta la bizzarra mia.
Rugger di notte in Parigi entrar volle,
come prudente, per fuggir le folle.
73
Bradamante, ch’è a letto, fuori balza;
si mette una vestaglia e va a incontrallo,
corre giú per la scala cosí scalza;
le poppe vizze ha fuor, che fanno un ballo.
Strilla da lunge con la voce, ch’alza:
— La borsa, la mia borsa senza fallo. —
Rugger per rabbia, stracchezza e vergogna
fece un trapasso e le disse: — Carogna!
74
andatevi a ripor tra le lenzuola;
di vostre borse non è il tempo questo. —
Bradamante, politica e spagnuola,
fé* la mortificata e pianse presto,
mostrando un gran dolor della parola;
sforza se stessa e con visino mesto
cambia i discorsi e bacia suo marito,
tanto che vinse e lo vide pentito.
75
Ma bisognava pensare a Marfisa,
che per la stizza e pe’ casi accaduti
era oppressa e ammalata d’una guisa
che non sa dove sia né di saluti.
Mette paura a chi la guarda fisa,
ha tutti i segni di morte compiuti.
Fu tratta dal calesse e posta a letto:
si fé’palese un mal grave di petto.
76
I medici alla cura sono molti
e la danno sfidata della vita;
alcuni però d’essi stan raccolti
con speranza in arcano ermafrodita,
perché in error non voglion esser còlti,
sia o non sia per la dama finita.
S’ella morrá, l’avran pronosticato;
e se vivrá, l’avranno indovinato.
77
Le dame di Parigi e i cavalieri
dicean: — Beato Rugger s’ella muore! —
Pur si spediscon lacchè giornalieri
di Ruggero a palagio a gran furore,
a chieder dello stato; e i dispiaceri
sono infiniti e infinito è il dolore,
perché serbar doveasi in apparenza
l’urban costume della convenienza.
78
L’oppression del male all’infelice
lieva la consueta bizzarria,
e rantacosa chiama protettrice
particolar la Vergine Maria.
Fa tutto ciò che il parroco le dice,
riceve umil la santa Eucaristia;
indi va peggiorando tanto e tanto,
che alfin se le minaccia l’olio santo.
79
Ermellina, la moglie del danese,
ch’era sua amica e buona dama assai,
è veramente afflitta pel paese:
fa divozioni e non dispera mai.
Un giorno un certo prete esservi intese,
che facea malattie sparire e guai,
benedicendo per tutto Parigi
con le scarpe che fúr di san Dionigi.
80
Volle introdotto il buon prete all’amica,
e grida fede, e piange e mai rifína;
fa con le scarpe che la benedica,
e poi la lascia cheta e via cammina.
Ciò che scrive Turpin, convien ch’io dica:
l’inferma quella notte molto orina.
Grida Ipalca per casa, che par matta:
— Oh scarpe del mio Dio! la crisi è fatta. —
81
Bradamante mostrava esser allegra
di fuor, ma dentro non so come stesse.
Va migliorando molto la nostr’eg^a.
Non è da dir s’Ermellina godesse:
a tutti vuol narrar la storia integra.
Dio guardi qualchedun contraddicesse
delle scarpe il miracolo: la dama
chiude le orecchie ed ateo lo chiama.
82
I medici dicean: — Nostre ricette
non lascian ir Marfisa in sepoltura. —
Fra paladini alcun non si rimette
e vuol la crisi effetto di natura.
Ermellina, la chiesa e le donnette
sostengono le scarpe a quella cura;
basta, natura, scarpa o medic’arte,
Marfisa piú verso il cielo non parte.
83
Vero è ch’ella rimase estenuata
con una lunga febbre lenta lenta,
e certa tossa asciutta ed ostinata,
sicché del stato suo non è contenta.
Lieva dal letto, l’aere ha cambiata:
di risvegliar la bizzarria ritenta;
gli uomini ancor non le increscevan molto;
s’aiuta col belletto e i nei sul volto.
84
Immagina, lettor, questa signora,
giá per etá presso ai quaranta giunta,
con un fil di febbretta che lavora,
con la tossa, residuo d’una punta,
con la passata vita che la onora,
pallida, pelle ed ossa, arsa e consunta,
che con nei, con belletto e bizzarria
cerca d’aver amanti tuttavia.
85
Esplicabil non son le sue fatiche
e la dottrina ch’usa nello specchio,
il gran lavoro intorno a due vesciche,
per far che sien pur enti in apparecchio;
del spruzzarsi di odor, delle rubriche,
de’ fiori al seno e a’ fianchi del capecchio,
delle scamoffie e del sbilerciar gli occhi:
ma a’ suoi boccon non s’attaccan ranocchi.
86
Saltato avrebbe ogni fossa, ogni sbarra
per appiccare il filo con Terigi,
quantunque ei fosse, come Turpin narra,
fallito, al verde e l’odio di Parigi.
Prima nel fòro ha perduta la sciarra
co’ suoi parenti da’ gabbani grigi,
poscia è diserto dal suo cappellano
e da’ contrabbandier di Montalbano.
87
Lasciam per poco la bizzarra in pena
d’esser come un cadavere abborrita.
Giunto è Dodone, Orlando, ognuno è in scena;
seg^o che la commedia è omai finita.
Rinvigorisca alquanto la mia vena
a riassumer netta ogni partita,
onde alcun non apponga al buon Turpino
né a me di negligenza un bruscolino.
83
Padre del ciel, la mia barchetta triema,
piú che nell’alto mare, al vicin porto.
Carlo è giá vecchio e presso all’ora estrema,
e deggio dir, pria che sia in tutto morto,
a che ridotto fosse e in qual sistema
lo Stato nell’inerzia e l’ozio assorto,
e del popolo il vero e del monarca:
Dio mio, ti raccomando la mia barca.
89
L’anno ottocentoventi a mano a mano
correva dell’arcana incarnazione
del divin Verbo, nostro pellicano,
al qual son tanto ingrate le persone.
Si leggea nel lunario da Bassano
sull’anno in generale un gran sermone,
minacciante vendetta e storpio e guerra:
nessun gli dava retta per la terra.
90
Credeva Carlo rimbambito e grasso
d’esser imperator d’un vasto impero,
per aver una veste da Caifasso,
la corona gemmata oltre al pensiero,
e per veder, allor che andava a spasso,
chinar le genti per ogni sentiero,
e per sentir, se dal palagio uscia,
timpani, comi, trombe e sinfonia.
91
Mille e piú gabellier con mille trame,
mostrandogli che il nero era turchino,
e computi furbeschi e falso esame,
esibendo un tributo piccolino,
gli avevano usurpato il suo reame.
Alle borse galluzza il bambolino:
crede imperar nel regno, e l’ha venduto
a mille re per un meschin tributo.
92
Non dimandar se i mille re birboni,
per pagar il tributo lievemente,
e dare a certi mezzi certi doni,
perché ridotto han Carlo alla lor mente,
sanno accrescer gabelle ed estorsioni,
e dilatar lo stato iniquamente
del lor palliato regno e farsi ricchi,
e far ch’ogni contrario lor s’impicchi.
93
Il quondam Gano empiuto avea i suoi scrigni
nel stabilir cotesti re genia,
ed agl’incolleriti, a’ visi arcigni
era stato flagello, epidemia.
Ricordi a Carlo avea dati maligni
col Credo in bocca e coW Avemaria,
massime che si den tenere oppressi
i sudditi inquieti per se stessi,
94
e che si denno piluccare e mugnere,
che l’uom senza danari è mansueto.
Tal massima è ben saggia nel suo giugnere,
usata in modo oculato e discreto;
ma la sua ruota non si vuol sempre ugnere
con gli occhi chiusi a questo bel secreto,
perocch’ella fa poi troppo viaggio,
e toma pazzo chi prima era saggio.
95
Si de* tener sempre il saggiuolo in mano
in sulle circostanze e conseguenze.
Sospendi le pozion quando è l’uom sano,
o sotterra anderá per le scorrenze.
Infin dall’avol del re Carlo Mano
fúr poste in uso le prime avvertenze,
Pipino il padre l’avea seguitate,
ma Carlo a briglia sciolta l’ha cacciate.
96
Ed aspettando le borse in poltrona
dai mille re del suo impero tiranni,
fa elogi al cuoco se la zuppa è buona,
non prevedendo i suoi futuri affanni.
Frattanto a doppio in sul regno si suona,
traggonsi i cuoi poiché son tratti i panni,
e Carlo Magno è imperatore esoso
d’un popolo avvilito e pidocchioso.
97
La gola, il lusso, la poltronería
gli aggravi ogni anno accresciuti in contanti,
il non pagar per truffa o carestia,
facea fallire ogni giorno mercanti;
sicché il commercio era una sodomia,
un capital in ciarle di birbanti,
ed accigliato ognun rammmemorava
l’antico ben, la fede, e sospirava.
98
Molti grídavan con gli agricoltori:
— Piantate, lavorate, seminate. —
Rispondeano i villan: — Cari signori,
abbiam le carni in sui terrèn lasciate.
Dio vede i nostri affanni ed i sudori;
son le vostre campagne migliorate:
ma abbiam aggravi molti e pochi aiuti,
e i buoi per i gran debiti venduti.
99
Era un di il nostro pane di frumento,
ed or che ne facciam piú d’una volta,
l’abbiamo nero di saggina a stento,
che il diavol se ne porta la ricolta.
Non abbiam piú né forza né talento,
ogni nostra speranza è ornai sepolta;
guardate pelli secche e abbrustolite,
e giudicate poi di nostre vite.
100
È ver che andiam talora alla taverna,
perocché il vin sopisce col vapore
quella disperazion che abbiamo interna
del stato nostro, stato di dolore;
che la miseria spegne ogni lucerna
e degenera in vizio traditore. —
Cosi diceano i villan disperati,
che anch’essi eran filosofi svegliati.
101
Il requiescat conte di Maganza
vide i sudditi oppressi per le vie,
e aveva detto: — Un util d’importanza
puossi anche trar dalle malinconie,
che molta forza ha nell’uom la speranza,
e a Carlo fece aprir le lottane;
che certo egli era un uom da gabinetto
ed un filosofaccio maledetto.
102
Or, s’era Carlo re de’ pidocchiosi,
con questa maganzese malizietta
lo fu di scalzi, rognosi, tignosi,
di mummie, d’una gente affatto inetta;
perocché i bisognosi ed i viziosi
venduti aveano insino alla berretta,
a quel cento per un, che dalle chiese
passato è alla lusinga maganzese.
103
Dico cosi, perché le chiese allora
eran quasi del tutto abbandonate.
Di prediche facevano una gora,
che non eran temute né ascoltate.
Erano giunte alla sezza malora
le faccende del prete o vuoi del frate;
gente ridotta quasi a un sorpassare,
per non perdere il ius del confessare.
104
Sappiasi che con lunghe insidie ed arti,
gl’indefessi ecclesiastici mascagni,
colle idee delle immense eterne parti,
sui prischi ricchi, troppo buon compagni,
avevan fatto cosí bene i sarti,
e tanti e tanti sacri e pii guadagni,
che piú di mezzi i beni temporali
erano permutati in celestiali.
105
Alcuni maganzesi consiglieri,
che credean nella salsa e nel cappone,
avevan consigliato l’imperieri
a dare il sacco alla religione.
Non eran falsi in tutto i lor pareri,
ma perigliosi nella esecuzione,
che un popolo commosso in tal materia
è da temersi, ed una bestia seria.
106
Tenner quei di Maganza un gran consiglio,
e stabilir che fogli pubblicati
de’ popoli mettesser sotto al ciglio
le magagne de’ cherici e de’ frati,
e dipignesser l’antico naviglio
in confronto alle navi de’ prelati,
e usurpi e vizi e gran taccagnerie
de’ direttori delle sacristie.
107
Quest’argomento, fontana perenne,
anzi pur fiume, anzi pur vasto mare,
e questa libertá data alle penne
aveva fatto un bel dilucidare.
J Introito, il Deo gratias e l’amenne
e le indulgenze e gl’inni sull’altare
erano fole, spaventacchi e abusi
per empier sacre pance ed ugner musi.
108
Molti preton, molti fratoni accorti
sosteneano i partiti secolari,
come color che tengon da’ piú forti
per l’amor delle zuppe e de’ danari.
Non lasciavan però di vista i morti,
per beccar anche l’oboi degli altari;
cosi sendo or filosofi ed or santi,
erano onesti e facili e forfanti.
109
Ebbero il loro intento i maganzesi:
fúr presto gli ecclesiastici abborriti,
ma in conseguenza anche i plebei francesi
furon zibibbi e datteri canditi.
Erano di ladron boschi i paesi,
si avean per sogni gli eterni conviti;
e per menar di qua la vita amena,
scannavasi un fratel per una cena.
110
I filosofi tristi il lor partito
traean dall’adottar la passione,
e dal provar ch’ogni umano prurito
doveva aver la sua soddisfazione,
Ridean del stabilito e proibito
dai re, dai papi e da religione,
e insin commiseravan gli assassini
come oppressi e infelici pellegrini.
111
Dicean che al mondo tutti aprivan gli occhi
per caritá, per zelo e per bontade.
Creder possiam che i sudditi pitocchi
di Carlo non facean difficoltade:
furon tutti filosofi agli scrocchi,
agli adultèri, all’assaltar le strade,
e fi-anchi a’ piú funesti oscuri casi,
delle nuove dottrine persuasi.
112
Sicché tra il fi-en spiritual giá rotto,
ed il poter dei re dipinto brutto,
non v’era pei cervelli piú cerotto:
l’umanitá credea poter far tutto.
Altro non si vedea che un cacciar sotto
ed una sbrigliatezza di mal frutto:
era un sciocco l’uom giusto, il savio matto;
non era ben parlar, ma lo star quatto.
"3
Pur nondimeno il secolo era quello
detto universalmente «illuminato»;
ma il male antico era anche mal novello,
ed accresciuto ad esser smisurato.
Era il bene evangelico ancor bello,
ma soppresso, deriso e conculcato;
che i dotti, i quai danno ragione al vizio,
hanno assai concorrenti al loro uffizio.
114
Non eran di Parigi i bei talenti
dall’util filosofica scrittura,
perché a Parigi in quel tempo studenti
non si premiava né letteratura.
In Francia esser potean quindici o venti,
che viveano a giornata d’impostura,
stampando fogli settimanalmente,
rubati da altri libri malamente.
115
Aveano in questi i poltron paladini
storia, commerzio e gran filosofia,
tutto per dieci o quindici carlini,
semi, piante, scoperte, geografia,
manifatture, macchine, mulini,
novelle, agricoltura, chirurgia,
mediche controversie e prò e contrario,
e carta da fregarsi il taffanario.
116
Marco e Matteo non eran piú scrittori,
che di seccar le coglie erano rei.
Scrive Turpin che i loro successori
eran peggior de’ Marchi e de’ Mattei,
audaci, sciupator, sussurratori,
anticristi, messia, cure, cristei,
senza eloquenza, senza raziocinio,
guasto d’ogni intelletto ed esterminio.
117
Se v’era qualche buon cervello a caso
che pubblicasse una colta scrittura,
i dotti bagascioni, senza naso,
ne’ dizionari, pinzi di pastura,
la dicean pisciarel da nessun caso,
picciola idea, fanciullesca fattura;
e crocidando e senza produr nulla,
i buoni ingegni sommergeano in culla.
118
Un’altra setta d’uomini arroganti,
per comparir comete di dottrina
e geni di quel secolo giganti
di testa originale arcidivina,
si posono a vagliar che per lo avanti
i dotti erano cosa assai meschina,
che i lor sistemi, i libri, i precettori
erano nebbie, pregiudizi, errori.
119
Incominciando dalle auguste carte,
dalle legislazioni stabilite,
da’ padri santi, e va’ di parte in parte,
tutte fúr opre false e scimunite.
Senza sublimita, fredde, senz’arte
furon le poesie prima gradite;
e gli orator defunti ed i politici
e i filosofi ciechi, inetti e stilici.
120
Gridar che i giovinetti assassinati
erano nelle loro educazioni
da pedantacci sciocchi addormentati
sulle pagine antiche e sui marroni.
Alla moral de’ preti o vuoi de’ frati,
e alla moral de’ dotti, retti e buoni,
dissero spaventacchi, inezie e un nulla,
indegno d’una balia ad una culla.
121
Che riedificare si dovea
de’ nuovi piani di letteratura;
che a ciò che si dicea, che si scrivea
mancava il comun senso e la natura;
ch’era un balordo quel che si perdea
in sullo studio della lingua pura;
che all’uom d’ingegno e pensator bastava
scriver con quel gergon che si parlava.
122
Fu agevol cosa suader le genti,
che studian sempre poco volentieri,
a ributtare antichi sapienti,
vocabolari e metodi severi.
E perché ognor di novitá e portenti
lu vago l’uman genere e leggeri,
dagl’impostor miracoli attendendo,
ei fu ignorante, dir possiam, dormendo.
123
Avvenne allor che i sussurroni arditi
furon considerati originali,
con certe lor scritture fuori usciti
piene d’idee fantastiche e bestiali,
credute da’ cervelli stupiditi
scoperte nuove e lumi celestiali,
quanto piú strane e meno intelligibili,
piú rispettate e dette inopponibili.
124
Con un gergon formato non so dove
di venti lingue e formole scorrette,
quasi faceti fulmini di Giove,
ridicean cose dagli antichi dette,
che all’ignoranza comparivan nuove,
e le faceano por nelle gazzette,
perocché i giornalisti e i gazzettieri
eran degl’impostori i candellieri.
125
I riflessi prudenti e regolari
chiamò «fredda ragion» questa genia,
e € novelle scoperte salutari»
chiamò i vapori della fantasia;
onde i commiserevoli scolari
appreser che «ragion» vuol dir «pazzia»,
e appreser che «pazzia» vuol dir «ragione»,
ed Arlecchin divenne Salomone.
126
Donde il pensar fu presto un vaneggiare
ed un sognare da febbricitante;
lo scrivere, i concetti e il fraseggiare
furon maccheronee col guardinfante.
Lo stil fu una vescica singolare
in tutte le materie somigliante:
vorticoso, rigonfio, snaturato;
filosofico, energico chiamato.
127
E gridando di dir delle gran cose,
e promettendo de’ volumi assai,
ed insultando l’opre giudiziose
de’ colti, da lor detti «parolai»,
colle dissertazion stolte ampollose,
senza dare un buon libro al mondo mai,
sbalordendo fanciul, donne e merlotti,
fúr per supposizione i matti dotti.
128
A questa epidemia degl’intelletti,
ch’era ridotta un guasto universale,
sei o sette scrittor sani e corretti,
e non entrati ancora all’ospedale,
andavano a Dodone, poveretti,
dicendo: — Poniam freno a tanto male. Dodon
rideva sgangheratamente
del zelo inopportuno e inconcludente,
129
e rispondeva lor: — Cari fratelli,
il mondo letterario s’è ammalato,
vaneggia; i capí sono Mongibelli.
Io son di que’ dottor che l’han sfidato.
Questa è una crisi degli uman cervelli;
l’impedire una crisi è un gran peccato;
lasciatela sfogar — Dodon dicea, —
che forse avrá buon fine. — E poi ridea
130
e soggiungeva: — Il secolo a me pare
pregno di quelle strane gravidanze,
che fanno a donne gravide bramare
cibi sognati e mille stravaganze.
Conviene il suo gran ventre rispettare
ne’ cambiamenti delle circostanze:
rimettiamo alle nostre discendenze
il ripurgar le fetide influenze.
131
Son ben altro che Marchi e che Mattei
questi archimiati audaci innovatori;
son maganzesi astuti gabbadei,
c’han per lo naso principi e signori.
Se vi opponete lor, fratelli miei,
sarete giudicati traditori,
e fien sospesi i vostri scritti e oppressi
come perturbator de’ dèi progressi.
132
Feci per lo passato il mio possibile
per sostener la veritá e la regola:
la barca è rotta, la procella è orribile;
dal canto mio non ho piú stoppa e pegola.
Cosi dicea Dodon sempre risibile,
chiamando Carlo Man bestia pettegola,
ed adducendo il detto vero ancora:
che dalla testa il pesce puzza ognora.
133
Deggio tacervi molte circostanze
che in cifera Turpino lasciò scritte,
e non s’intendon piú le antiche usanze
di quelle cifre dal tempo sconfitte.
Dal piú al meno avete le sembianze
di Carlo Man cosí in abbozzo pitte;
lo stato del suo regno e della chiesa
e la letteratura avete intesa;
134
la gola, il sonno e l’oziose piume,
i cambiati caratteri, il pensare;
chiaro de’ paladini v’è il costume,
delle dame e del popolo volgare:
tutto è confusion, buio, bitume,
cecitá, boria, lussuria, usurpare,
debito, inganno e fervido maneggio
per far le cose andar di male in peggio.
135
Marsilio, re di Spagna Saracino,
teneva chiuse in cor le sue vendette,
che l’esercito antico parigino
gli aveva date gran sconfitte e strette.
Cheto era stato il diavol tentennino;
a’ cambiamenti gran riflessi mette,
e un giorno disse: — È questo il tempo nostro
di porre a Carlo un servizial d’inchiostro. —
136
E le sue truppe vigilanti e destre
chiama a rassegna e inalbera stendardi.
È l’armata a cavallo e la pedestre
di dugento migliaia, uomin gagliardi,
per dare a Carlo di amare minestre
e i paladini a pettinar co’ cardi.
La fama è in Francia, e suona colla tromba,
che il re Marsilio coli ’armata piomba.
137
Or chi vedesse i paladin puliti,
co’ cappellin sotto al sinistro braccio,
far lor passini ed atti sbalorditi
perché al Consiglio suona il campanaccio!
Dodon rideva ai ceffi impalliditi;
Orlando sembra l’ira nel mostaccio,
e grida: — Ah porci! or peserá la lancia;
è giunto il fin della gloria di Francia. —
138
Si mandan messi al papa, alla Romagna,
nella Borgogna, in Scozia, in Inghilterra,
per la Francia, l’Irlanda, l’Alemagna,
per og^ buco a dir di questa guerra.
I signor parean uomin di lasagna.
I soldati vivean per ogni terra
facendo i sgherri, i bari ed i ruffiani:
mangia van le lor paghe i capitani.
139
I maganzesi mostravan costanza,
e zelo grande per l’imperatore,
dicean di far eserciti in Maganza,
ed era un tradimento il lor fervore.
Giuravano a Marsilio un’alleanza
per via d’un lor secreto ambasciatore,
traendo in premio, i menzogner felloni,
le sacca di crociati e di dobloni.
140
Da Montalbano era venuta nuova
che pel gran ber Rinaldo in agonia
e col parroco al letto si ritrova
per un colpo di forte apoplesia.
Rugger, Dodon ed Orlando non cova;
quanto può va facendo tuttavia.
Dodon ridendo dicea: — Su, Nembrotto! —
a Morgante, residuo del casotto.
141
Sopra un soffá Carlo grasso piangea,
dicendo al cuoco suo: — Ti raccomando
que’ beccafichi, — e ad Orlando dicea:
— Metti novelle imposte, caro Orlando. —
Dodon ardito per lui rispondea:
— Che vuoi tu de’ coglion venir cavando?
I tuoi sudditi mangian pastinache,
e mostrano cui magri senza brache.
142
Gli antichi di provincia tuoi fedeli
son quasi tutti fuggiti alle ville,
in castellacci discoperti a’ cieli,
con figli e figlie e nipoti e pupille,
ripieni di pensieri acri e crudeli,
allor che suonan mezzodi le squille.
Educazion non han, mangiar né bere:
pensa se daran nerbo alle tue schiere.
143
Non son nelle cittá minor gli affanni.
Pili non han dote per le figlie i padri;
o le maritan con lacci ed inganni,
o fan nuziali inventati leggiadri.
Hanno in dote la mensa per tre anni
gli sposi, che procreano de’ ladri,
ferché, saldato il conto, vanno al sole
gli sposi, i figli e la futura prole.
144
I tuoi gabellier, tristi, sciagurati,
co’ tuoi governatori in alleanza,
hanno tutti scannati, scorticati:
non aver piú ne’ sudditi speranza.
Una gran parte andaron turchi o frati,
per fuggir le influenze e la possanza. —
Carlo cresce al suo pianto un’appendice,
con una bocca poco imperatrice
145
dicendo: — Adunque pon’mano all’erario;
resterò miserabil senza cena. —
Ecco i ministri ch’alzano il sipario,
e son piú di duemila giunti in scena;
con un milion di conteggi in summario
e numeri minuti come arena
provano, co’ lor visi ilari e rossi,
che nell’erario v’eran pochi grossi.
146
Mostran che gli stravizzi giornalieri
e del palagio i mobili moderni,
il lusso, il fasto, gli agi ed i piaceri
l’erario avean mandato sui quaderni;
che duemila salari all’anno interi
alle Lor Signorie, del Stato perni,
per tener il registro e la scrittura,
la dispensa rendeano chiara e pura.
147
Era a Parigi lo scompiglio grande,
Piangeano i paladin con le ragazze:
pur cercan l’arme da tutte le bande;
son rugginose, verdi e pavonazze,
con i prosciutti e simili vivande.
Sbucano i topi fuor dalle corazze,
che le nidiate avevan fatte drento,
tanto che a’ paladin mettean spavento.
148
Trovaron elmi assai da* ferravecchi,
venduti a peso da’ staffier bevagni;
da* finestrai ne trovaron parecchi,
foconi a’ stagnatoi per dare i stagni.
I famosi spadon, pesanti e vecchi,
eran ridotti a moderni guadagni,
in fili per tener le cuffie dure,
spille e forchette per le acconciature.
149
Alcun de* paladin si prova l’armi
in faccia alla sua dama afflitta e mesta,
che dice: — Voi volete tormentarmi;
mi sembrate un tincone in una cesta.
Se m’amate, un favor dovete farmi:
scansatevi di abate con la vesta. —
A corte il paladin fedi ha mandate
ch’ei s’era messo il collarin da abate.
150
Orlando irato fa gobbe le spalle,
e me’ che può rattaccona le cose.
Fu questo il tempo delle gote gialle,
ed argomento al Pulci che compose
quella rotta funesta in Roncisvalle,
ma in altro modo le faccende pose.
Di questa guerra io non vi dico nulla,
e tomo alla bizzarra mia fanciulla.
151
Condur la deggio in porto, ch’ella è stata
l’oggetto principal dell’opra mia.
Ogni arte, ogni scamoffia aveva usata
per far di matrimonio mercanzia;
ma ognun la fugge come spiritata
e come la beffana od un’arpia.
La favola s’è resa della piazza:
non v’è piú caso ch’ella faccia razza.
152
La tossa è insuperabil, la febbretta
era una lima sorda quotidiana;
tal ch’ella finalmente si rassetta
ad una santitá bizzarra e strana.
Toglie di fare una vita negletta,
declama sopra la miseria umana;
sí vesta da pinzochera, scegliendo
per direttore un padre reverendo.
153
Vuol una stanza picciola e dimessa
con poche sedie, semplice e sfornita.
Ogni giorno per patto si confessa,
ogni tre di va al pane della vita.
Tien la di vota Ipalca sol con essa.
Per cibo una panata ha stabilito,
e in una sua scodella la volea,
che il nome di Gesú nel fondo avea.
154
Destava compunzione e riverenza
questa vergine mia pinzòcherona,
quando uscia col suo velo da Fiorenza,
che la copriva, e in man colla corona.
Avea di poverelli concorrenza
dove passava, e un soldo a tutti dona;
le baciavan le vesti, ed ella umile
dicea: — Non fate; io sono un vermo vile, —
155
Tal fin la bizzarria di Marfisa ebbe,
vivendo con la tossa ben trent’anni;
e il fine a Bradamante molto increbbe
piú dei bizzarri oltrepassati danni,
perché la santa in casa era un giulebbe,
una lingua da dar di molti affanni,
che col labbro divoto e il cor zelante
trattava da bagascia Bradamante.
156
E nota il tempo ch’ella si confessa,
se cambia confessore, e s’egli è bello,
se ragiona con uomini alla messa:
sempre è scandal ezzata d’un bordello.
Con ironia la chiama padronessa;
eran le fanti mezzane a pennello;
per le finestre spia le sue vicine,
e fa che son zambracche e concubine.
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Lettor, giacché Marfisa è fatta santa,
io non ho cor d’ucciderla altrimenti,
che il buon esempio è una bella pianta
da non tagliar, s’è specchio a malviventi;
e perché eternamente non si canta
per non seccar le natiche alle genti,
e perché pur sgonfiata ho la zampogna,
fo punto e attendo il plauso o la vergogna.
fine del canto duodecimo ed ultimo
APPENDICE