La Germania/La Germania

La Germania

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Prefazione Note a «La Germania»

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LA GERMANIA




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I

I fiumi Reno e Danubio separano l’intera Germania dai Galli dai Reti e dai Pannoni; la reciproca paura e i monti la separano dai Sarmati e dai Daci. L’Oceano cinge le altre parti, riempiendo vasti golfi e abbracciando immense estensioni d’isole; se ne conobbero recentemente alcuni popoli e alcuni re rivelatici dalla guerra.

Il Reno scaturito da una inaccessibile e ripida vetta delle Alpi Retiche, con moderata curva si volge ad Occidente e si mescola all’Oceano settentrionale.

Il Danubio effuso da un alto giogo del monte Abnoba, giù pel suo molle pendio visita molti popoli finchè rompe fuori da sei foci nel Mare Pontico; la sua settima bocca bava nelle paludi.


II

Sono propenso a considerare i Germani una razza indigena menomamente mista d’altre genti sopravvenute o ospitate; poichè coloro che cercavano di mutare sede una volta non partivano per ter[p. 29 modifica]ra ma su flotte armate e l’immenso Oceano, direi agl’antipodi del paese nostro, è raramente percorso da navi. D’altra parte, senza parlare del pericolo di un mare orrido e sconosciuto, chi mai, lasciata l’Asia o l’Africa o l’Italia, sarebbe andato in Germania, squallida terra sotto rigido cielo, triste a coltivarsi e a guardarsi, se non fosse la sua patria?

Celebrano nei carmi antichi, unico loro modo di ricordare e fare la storia, il Dio Tuistone, nato dalla Terra e suo figlio Manno, capostipiti e fondatori di quella gente. Assegnano a Manno tre figli dai cui nomi i prossimi all’Oceano sono chiamati Ingevoni, i centrali Erminoni e gli altri Istevoni. Alcuni affermano colla libertà degli storici del passato, che da quel Dio siano nati più figli e più nomi di popoli, Marsi, Gambrivi, Suebi, Vandali, e che tali siano i veri e antichi nomi. Secondo questi storici, il vocabolo Germania è recente e da poco tempo aggiunto; i primi che passato il Reno, ne scacciarono i Galli e ora sono detti Tungri, si chiamavano una volta Germani. Così insensibilmente prevalse il nome della nazione sul nome della gente, e tutti si fecero chiamare Germani dal vincitore per intimorirlo, poi adottarono il nome che avevano inventato.


III

Si racconta che visse fra di loro Ercole, e nel[p. 31 modifica]l’andare alla battaglia lo cantano come il primo e il più forte degli eroi. Hanno pure inni di guerra che, mediante una modulazione da loro chiamata bardito, accendono gli animi e pronosticano l’esito della battaglia: essi terrorizzano o tremano secondo il suono della mischia, e quel loro canto è una fusione di coraggi piuttosto che un coro di voci. Si ricerca specialmente l’asperità del suono e il fragore spezzato, appoggiando gli scudi alle bocche perchè la voce ripercossa si gonfi più piena e più grave.

Alcuni pensano che anche Ulisse, nel suo lungo e favoloso errare in quei paraggi dell’Oceano, abbia toccato le terra della Germania, e Ascimburgio sulla riva del Reno tuttora abitata sia stata da lui fondata e nominata ΑCΚΠΥΡΓΙΟΝ. Anzi vi è un’ara consacrata a Ulisse con l’aggiunta del nome di suo padre Laerte, ed alcuni monumenti e sepolcri con inscrizioni greche esistono sul confine della Germania e della Rezia. Non intendo confermare nè confutare tutto ciò: ciascuno lo neghi o lo accetti a suo talento.


IV

Da parte mia, convengo con quelli che considerano i popoli della Germania non guasti da connubi con altre nazioni, gente pura e schietta soltanto simile a se stessa. Donde, tutti, benchè numerosis[p. 33 modifica]simi, hanno anche lo stesso aspetto fisico: occhi arroganti e azzurri, chiome fulve, corpi alti e muscolosi atti soltanto all’assalto; non egualmente pazienti e resistenti ai lavori faticosi, incapaci di sopportare la sete e il caldo. Ma dall’inclemenza del cielo e della terra loro, abituati a tollerare il freddo e la fame.

V

La terra, benchè di varia specie, e quasi tutta paurosamente irta di selve o piagata di paludi, più umida dove guarda le Gallie, più ventosa dove guarda il Norico e la Pannonia; sufficientemente fertile, inadatta agli alberi fruttiferi, ricca di bestiame ma per lo più piccolo. Neppure gli armenti hanno la loro tipica bellezza e la loro gloria frontale; i Germani si compiaciono della quantità, e questa costituisce la sola e più gradita delle ricchezze.

Dubito che gli Dèi favorevoli o irati abbiano loro negato l’argento e l’oro. Tuttavia non oserei affermare che nessuna miniera della Germania produca argento od oro; chi mai la scrutò? Li posseggono ed usano come noi. Si possono vedere nelle loro abitazioni vasi d’argento donati ai loro messi e principi, considerati collo stesso disprezzo che quelli formati di terra; tuttavia i più vicini a noi per l’uso dei commerci pregiano l’oro e l’argento, conoscono e prediligono alcune forme del nostro [p. 35 modifica]denaro; gli abitanti dell’interno usano il semplice e antico scambio delle merci. Gradiscono il denaro vecchio e da tempo conosciuto, serrati e bigati. Preferiscono l’argento all’oro non per una simpatia speciale, ma perchè il numero delle monete d’argento è d’uso più facile ai compratori di cose comuni ed umili.

VI

Neppure il ferro abbonda, come si rileva dal genere delle loro armi. Raramente si servono di spade o lance lunghe; portano aste o framee per usare il loro vocabolo, con punta stretta e corta, ma così acute e maneggevoli da poterle usare da vicino e da lontano secondo le esigenze del combattimento. Anche il cavaliere si contenta dello scudo e della framea; i fanti lanciano proiettili, ciascuno in gran copia, e li scagliano a distanza immensa. Sono nudi o coperti di un leggero saio. Nessun sfarzo di ornamenti; soltanto gli scudi vengono distinti coi più scelti colori. Pochi hanno corazze e uno o due soltanto elmi di metallo o di cuoio. I cavalli non spiccano per le forme o per la velocità, e neppure sono ammaestrati a variare evoluzioni com’è costume nostro; li guidano in linea retta o li fanno girare a destra, in fila così serrata da non lasciare nessuno indietro. Stimano più forti i fanti; e com[p. 37 modifica]battono a piedi mischiati coi cavalieri ben essendo la loro velocità adatta e armonizzata al combattimento equestre, perchè sono scelti fra tutti i giovani ed elevati all’onore della prima fila. Ne è fissato anche il numero: cento per ogni villaggio, cento si chiamano fra di loro, e ciò che da principio fu un numero, diventa poi un nome onorifico.

L’esercito si dispone per cunei. Cedere il terreno per riconquistarlo è considerato tattica sapiente piuttosto che viltà. I cadaveri dei compagni, anche nei combattimenti incerti, vengono portati indietro. L’aver abbandonato lo scudo è la massima vergogna, il colpito d’infamia è escluso dalle cerimonie sacre e non può partecipare ai consigli; tanto che molti superstiti finirono il loro disonore militare con un laccio al collo.


VII

Assumono i re per la loro nobiltà, i generali per il loro coraggio. I re non hanno un potere assoluto e infinito, e i generali traggono l’autorità del comando dal loro valore esemplare piuttosto che dal grado, sono ammirati da tutti, perchè pronti, brillanti e sempre in prima fila.

Soltanto ai sacerdoti è permesso punire, incatenare, sferzare, e ciò non come pena nè per ordine del generale ma per l’impero della divinità che essi [p. 39 modifica]credono vigili sempre i combattenti. Immagini e simboli tolti dai loro boschi sacri vengono portati nella battaglia; ciò che più stimola l’eroismo, stringe non casualmente la torma e ne appuntisce il cuneo e la famiglia coi parenti; vicino stanno i loro pegni, possono udire gli ululati delle donne e i vagiti dei bimbi. Sono questi per ciascuno i più santi testimoni ed i più ambiti lodatori; alle madri e alle spose mostrano le loro ferite, quelle non paventano di contare, esigere le piaghe e portano ai combattenti cibi ed esortazioni.


VIII

Si ricorda che delle schiere in battaglia, già piegate e crollanti furono rinsaldate dalle donne con le loro preghiere accanite, il loro petto offerto al nemico e la visione terrorizzante della prossima schiavitù. Gli uomini temono questo più per le donne che per essi stessi, tanto che sono più vincolate quelle città alle quali vengono imposte fra gli ostaggi alcune ragazze nobili. Credono anzi che vi sia in esse qualche cosa di santo e di antiveggente; non ne disprezzano i consigli, non ne trascurano i responsi. Vedemmo sotto il divo Vespasiano Veleda considerata da molti come una divinità; anche in altri tempi venerarono Albruna e parecchie altre non per cortigianerla nè per farne delle dee. [p. 41 modifica]


IX

Fra gli Dèi adorano maggiormente Mercurio al quale credono lecito fare in certi giorni anche sacrifici umani. Placano Ercole e Marte con gli animali concessi. Una parte dei Suebi sacrifica pure ad Iside. Circa la causa e l’origine di questo culto straniero, ho trovato soltanto il simbolo stesso foggiato come la nave Liburna che denuncia una religione importata. Non credono saggio il rinchiudere fra pareti gli Dèi e avvilire con una forma umana la grandezza dei celesti. Boschi sacri e selve sono religiosamente dedicati a loro, e chiamano col nome di Dio quella divinità segreta che soltanto il loro sentimento vede.


X

Osservano enormemente gli auspici e i sortilegi. Questi sono semplici. Tagliano un ramo staccato da un albero fruttifero in pezzetti distinti mediante segni conosciuti, e gettano questi a caso e all’impazzata sopra una veste candida. Dopo di che, se si tratta della sorte pubblica, il sacerdote della città, se si tratta della sorte privata, lo stesso capo della famiglia, pregando gli Dèi colla faccia rivolta al cielo, li prende tre volte uno per uno e l’inter[p. 43 modifica]preta secondo il segno impresso. Se i segni sono contrari, nulla sopra quella cosa in quel giorno viene deciso; se invece i segni sono favorevoli si esige inoltre l’approvazione degli auspici.

Vi è pure qui l’abitudine d’interrogare il canto e il volo degli uccelli; specialità di quella gente e l’obbedire ai presagi e ai vaticini dei cavalli. A spese pubbliche, se ne nutrono alcuni nelle selve e nei boschi sacri, candidi e non deformati dalle fatiche; questi stretti al carro sacro sono accompagnati dal sacerdote dal re o dal principe della città, che osservano i nitriti ed i fremiti equini.

Nessun auspicio trova maggior fede di questo, non soltanto nella plebe, ma anche nella aristocrazia; poichè tutti considerano i sacerdoti ministri degli Dèi ed i cavalli loro alleati. Vi è un altro modo di studiare gli auspici col quale esplorano l’esito delle guerre pericolose. Un prigioniero catturato in qualsiasi maniera alla gente nemica viene posto di fronte ad un campione scelto nel popolo, perchè combattano, ciascuno colle armi patrie. La vittoria dell’uno o dell’altro diventa pronostico.


XI

I principi deliberano sulle faccende minori, tutti sulle maggiori, ma anche quelle la cui decisione dipende dalla plebe, sono trattate davanti ai principi. [p. 45 modifica]Se non accade qualche fatto imprevisto e repentino, si riuniscono in giorni stabiliti, alla luna nuova o alla luna piena, perchè credono sia questo il più felice momento per operare. Non computano, come noi, il numero dei giorni, ma quello delle notti; così stabiliscono e così si mettono d’accordo: sembra loro che la notte conduca il giorno. Questo errore proviene dalla libertà, poichè non si riuniscono nello stesso tempo, obbedendo ad un comando, ma consumano due o tre giorni in esitazioni prima di raccogliersi. Quando la folla appare sufficiente, si siedono armati. Il silenzio è imposto dai sacerdoti che hanno anche il diritto di frenare l’assemblea. Dopo sono ascoltati il re o il principe e gli altri in ordine di età, nobiltà, gloria guerriera, facondia; l’autorità persuasiva prevale sul potere del comando. Se la sentenza spiace, manifestano il loro disprezzo col mormorio; se piace scuotono le framee: essendo fra tutti i modi di approvare il più onorevole quello di lodare colle armi.


XII

È lecito accusare nell’assemblea e intentare un processo capitale. La differenza delle pene dipende dal delitto. I traditori e i disertori sono impiccati agli alberi, i vili gli imbelli e coloro che hanno disonorato il proprio corpo vengono sommersi nel[p. 47 modifica]la melma delle paludi, coperta da graticci. La diversità delle pene tende allo scopo utile di mostrare i delitti e nascondere gli atti turpi. Ma le colpe più leggere sono pure punite, adeguatamente, con doni forzati di cavalli e bestiame. Una parte della multa va al re o alla città, una parte all’offeso o ai parenti di lui. Eleggono nelle stesse assemblee anche i principi che amministrano la giustizia dei villaggi grandi e piccoli, e cento compagni scelti nella plebe assistono ciascuno di essi, dando loro insieme consiglio e autorità.


XIII

Non fanno alcuna cosa pubblica o privata se non armati. Ma è una loro abitudine che nessuno prenda le armi prima che la città lo abbia provato e giudicato idoneo. Allora nella stessa assemblea o uno dei principi o il padre o i parenti ornano il giovane dello scudo e della framea: ciò è per loro la toga, è l’onore della giovinezza; prima essi sono una parte della casa, poi, una parte dello stato. L’insigne nobiltà o i grandi meriti dei padri procurano agli adolescenti la stima del principe; gli altri si aggregano ai più forti già da tempo provati, e non è una vergogna farsi vedere nel loro seguito. Anzi lo stesso seguito ha dei gradi secondo il giudizio del suo capo; e vi è una grande emulazione [p. 49 modifica]per conquistare il primo posto presso il capo, come pure fra i capi per avere il seguito più numeroso e guerriero. Costituisce dignità e forza l’essere circondato da una moltitudine di giovani scelti, gloria in pace e difesa in guerra. Non soltanto nel proprio popolo, ma anche nelle città vicine corre la fama gloriosa di coloro che si distinguono per il numero e il coraggio del loro seguito: sono infatti ricercati mediante ambascerie ed onorati con doni e la loro fama basta spesso ad abbreviare le guerre.


XIV

In guerra è vergognoso per il capo essere superato in coraggio, vergognoso per il seguito non eguagliare in coraggio il capo. Di più, si macchia per tutta la vita d’una infamia ignominiosa, chi abbandona la battaglia, vivo, dopo la morte del proprio capo: il giuramento impone principalmente di difenderlo, salvarlo e attribuire alla gloria di lui anche i propri atti di valore; i capi combattono per la vittoria, i seguaci per il capo. Se la città nativa intorpidisce in una lunga pace e nell’ozio, la maggioranza degli adolescenti nobili va verso quelle nazioni che stanno facendo la guerra, poichè, odiando la quiete, essi sono convinti di coprirsi di gloria tra i pericoli, e di conservare un grande seguito soltanto in una vita forte e nella guerra. Esigono in [p. 51 modifica]fatti dalla liberalità del capo il cavallo di battaglia e la framea vittoriosa avida di sangue: le vivande e i banchetti rozzi ma copiosi sono contati come soldo militare. I mezzi della munificenza sono la guerra e la rapina.

Li persuedereste meno ad arare la terra e aspettare il raccolto che a provocare il nemico e guadagnarsi ferite gloriose. Anzi l’acquistare col sudore ciò che si può ottenere col sangue è considerato incapacità e vergognosa pigrizia.


XV

Quando non fanno la guerra, danno meno tempo alle cacce che all’ozio, tutti dediti al sonno e al cibo; il più forte e più bellicoso di loro, ben lungi da lavorare, abbandona la cura della casa, dei penati e dei campi alle femmine, ai vecchi e ai più deboli: della famiglia; rimangono inerti e, per una meravigliosa contraddizione della natura, tanto amano l’ozio quanto odiano la pace. È una abitudine di quelle città il portare ciascuno separatamente bestiame o biade ai capi per onorarli e alleviarne i bisogni. Si compiaciono particolarmente dei doni dei popoli vicini, mandati dai privati o dallo stato, cavalli scelti, grandi armi, ornamenti e collane; ormai noi abbiamo loro insegnato ad accettare anche il denaro. [p. 53 modifica]


XVI

È abbastanza noto che i popoli della Germania non abitano in città, nè amano le case unite fra loro. Vivono, separati qua e là, dove una sorgente, un campo, una selva li attrasse. Non costruiscono villaggi con edifici connessi e aderenti a modo nostro; ognuno circonda la sua casa di spazio libero, sia per difesa contro gli incendi eventuali, sia per incapacità di costruire. Non vi è fra loro neppure l’uso delle pietre e delle tegole; per tutti i bisogni usano il legname greggio senza bellezza nè piacevolezza. Diligentemente ricoprono alcuni luoghi di una terra così fine e splendida da imitare pitture e disegni colorati. Usano anche scavare spelonche sotterranee, e sopra vi accumulano il fango, creando così rifugi e granai invernali, poichè in questo modo il rigore del freddo è attutito. Il nemico, sopravvenendo, saccheggia i luoghi scoperti mentre quelli nascosti gli restano sconosciuti e gli sfuggono perchè dovrebbe cercarli.


XVII

Il vestito comune è il saio chiuso da una fibbia o, in mancanza di questa, da una spina; col resto del corpo nudo passano tutto il giorno presso il [p. 55 modifica]focolare acceso. I ricchissimi si distinguono per una sottoveste non svolazzante come quella dei Sarmati e dei Parti, ma attillata e rivelante tutte le membra. Portano anche pelli di fiere, con negligenza i più vicini alla riva, e con la massima cura i più interni, poichè ignorano le altre ricercatezze derivate dai commerci. Scelgono le fiere e ne decorano il cuoio con macchie e liste di pelle d’altre belve prodotte dal lontanissimo Oceano e dal mare sconosciuto. Il modo di vestire delle donne non è diverso da quello degli uomini, se non che le donne spesso si coprono con mantelli di lino ornati qua e là di porpora, non prolungati in alto da maniche, nude il braccio l’avambraccio e la parte superiore del petto.


XVIII

Là i matrimoni sono severi, nè potresti lodare maggiormente nessun altro loro costume. Infatti, quasi soli fra i barbari, si contentano di un’unica moglie, salvo pochissimi, che non per libidine ma per gloria nobiliare, vengono ricercati per più nozze. Non la moglie offre la dote al marito, ma il marito alla moglie. Vi partecipano i genitori e i parenti, i quali esaminano i doni, doni non scelti per le delicatezze femminili e per la capigliatura della sposa novella, ma buoi, un cavallo col freno, [p. 57 modifica]uno scudo, una framea e una spada. Con questi doni la moglie è accettata, e, da parte sua, offre qualche arma allo sposo: ciò considerano il massimo vincolo, il rito misterioso, la divinità protettrice del matrimonio. Affinchè la donna non si creda estranea al pensiero del valore militare e ai casi incerti della guerra, fino dai primi auspici del matrimonio, le viene insegnato ad essere la socia delle fatiche e dei pericoli, destinata a soffrire e osare in pace e in guerra; ciò simboleggiano i buoi aggiogati, il cavallo bardato e le armi donate. Così vivrà e morrà; ella accetta pegni che dovrà consegnare incontaminati e degni ai figli, e, che raccolti dalle nuore, saranno trasmessi ai nipoti.


XIX

Passano la vita custodendo il loro pudore, non corrotte dall’esaltazione degli spettacoli e dall’eccitamento dei banchetti. Gli uomini e le donne ignorano egualmente i carteggi segreti. Benchè molto numeroso, quel popolo ha rarissimi adulteri, e la loro punizione immediata è permessa al marito: questi, alla presenza dei parenti, scaccia dalla casa l’adultera nuda coi capelli tagliati, e la spinge davanti a sè a frustate, per tutto il villaggio; non vi è perdono per il pudore distrutto; nè la bellezza nè la gioventù nè le ricchezze possono servirle a [p. 59 modifica]trovare marito. Nessuno ride dei vizi e li scusa attribuendoli al secolo corruttore. Operano meglio quelle popolazioni, ove soltanto le vergini si sposano e la speranza d’essere moglie si esaurisce una volta per sempre.

Così ricevono un solo marito come ebbero un solo corpo, e una sola anima, perchè non duri un desiderio al di là del marito amato non come uomo, ma come simbolo del matrimonio. È grave colpa limitare il numero dei figli o ucciderne uno dopo il primogenito e così là imperano i buoni costumi più che altrove le buone leggi.


XX

In ogni casa crescono, nude e sporche, le membra di questi corpi che ammiriamo. La madre nutre colle sue mammelle tutti i suoi figli e non li affida ad ancelle o nutrici.

Non potresti distinguere il padrone e lo schiavo dall’eleganza dell’educazione; vivono in mezzo allo stesso bestiame, sulla stessa terra, finchè l’età separa i nati liberi e il coraggio li fa notare.

Tardo è l’amore nei giovani, e per questo la loro virilità è inesauribile. Neppure le vergini si affrettano: armonizzano l’età collo sviluppo fisico: giovani e vergini uniscono le loro energie eguali, e la prole rinnova la forza dei genitori. I figli delle [p. 61 modifica]sorelle ricevono la stessa cura presso lo zio che presso il padre.

Alcuni pensano che questo vincolo del sangue sia più santo e più forte d’ogni altro, e, nell’accettare ostaggi, lo esigono perchè lega solidamente alla famiglia e alla casa. Però d’ogni uomo sono eredi e successori i figli, e non vi è testamento.

Se non vi sono figli, nel possesso ereditario, i gradi più vicini sono i fratelli, gli zii paterni e quelli materni. Quanto più grande è il numero dei parenti, quanto più grande il numero degli affini, tanto più e amata la vecchiaia; il non avere figli non dà vantaggi.


XXI

L’assumere insieme le amicizie e le inimicizie del padre e dei parenti è una necessità; nè queste durano implacabili; si sconta anche l’omicidio con un certo numero di buoi e di pecore, e ne riceve soddisfazione tutta la casa, con utilità pubblica perchè sono più pericolose le inimicizie fra uomini liberi. Nessun altro popolo è più largo di banchetti e di ospitalità. Considerano illecito allontanare un mortale dal proprio tetto: secondo i propri mezzi ciascuno lo accoglie colle migliori vivande. Se queste mancano, chi prima lo aveva ospitato, gli mostra un’altra casa e ve lo accompagna; entra[p. 63 modifica]no nella casa vicina non invitati. Ciò non crea differenza; sono ricevuti con eguale umanità. La persona conosciuta e l’ignota, davanti al diritto di ospitalità, non sono distinte. Quando parte, se chiede qualche cosa, è abitudine concedergliela; vi è la stessa facilità nel chiederla. Godono dei doni, ma non contano i già fatti, nè si sentono obbligati da quelli ricevuti. La maniera di vivere cogli ospiti è affabile.


XXII

Appena usciti dal sonno, che essi prolungano comunemente anche nel giorno, si lavano, spesso con acqua calda, poichè l’inverno occupa quasi tutto il loro anno. Lavati mangiano, in posto separato, ciascuno alla sua mensa. Dopo vanno agli affari tutti armati, e spesso così ai banchetti. Il passare il giorno e la notte bevendo, non disonora nessuno. Le frequenti risse, come avvengono tra violenti, finiscono raramente con insulti, spesso con omicidi e ferite. Abitualmente, la riconciliazione dei nemici, la creazione di nuove parentele e la scelta dei capi, in pace e in guerra, sono decise nei banchetti, come se in nessun altro momento, l’animo fosse più aperto ai pensieri semplici e più infiammabile ai grandi pensieri. Gente senza astuzia nè scaltrezza che apre i segreti del cuore nella libertà dell’alle[p. 65 modifica]gria: allora il pensiero di tutti appare scoperto e nudo. Il giorno dopo si ricredono, e rimane salva l’utilizzazione razionale dei due momenti; argomentano mentre non sanno fingere, concludono quando non possono errare.


XXIII

Bevono un liquido fermentato d’orzo e frumento che rassomiglia al vino; quelli più vicini alla riva comprano anche il vino. Cibi semplici, frutta selvatiche, selvaggina fresca e latte rappreso; si liberano dalla fame senza raffinatezze nè eccitanti. Contro la sete non hanno la stessa temperanza. Se asseconderai la loro ubbriachezza, offrendo quanto desiderano, li vincerai più facilmente col vizio che con le armi.


XXIV

Il genere degli spettacoli è unico e identico in tutte le riunioni. I giovani nudi si divertono a saltare fra le spade e le framee brandite.

Questo esercizio che li rende agili e belli non è pagato; il piacere degli spettatori costituisce l’unico premio della loro audacia. Benchè mirabilmente moderati nelle occupazioni serie, essi giocano a dadi con tale furore di vincere o perdere, che, fallito ogni tentativo, con un colpo disperato punta[p. 67 modifica]no la loro libertà e il loro corpo. Il vinto accetta questa schiavitù volontaria; quantunque più giovane e più forte, si fa legare e mettere in vendita. Tale è la loro pervicacia nel vizio che essi chiamano buona fede.

Vendono subito gli schiavi acquistati in questo modo, per assolverli da una vittoria indecorosa.


XXV

Non utilizzano gli altri schiavi come noi, distribuendo fra loro le opere casalinghe; ciascuno governa la propria casa e i propri penati. Il padrone impone al colono una quantità di frumento, di bestiame o di tessuto, ed entro questo limite, lo schiavo obbedisce; la moglie e i figli eseguiscono le altre faccende della casa. Frustare lo schiavo imprigionarlo o condannarlo al lavoro sono fatti eccezionali; sogliono ucciderli non per disciplina e severità, ma nell’impeto dell’ira; se non che ciò resta impunito.

I liberti non sono molto al di sopra degli schiavi; raramente hanno importanza nella casa, mai nella vita pubblica, fatta eccezione per quei popoli che sono sotto il dominio di un re.

Ivi salgono non soltanto sopra gli uomini liberi ma anche sopra i nobili; presso gli altri popoli la condizione d’inferiorità dei liberti prova la libertà del regime. [p. 69 modifica]


XXVI

Il prestar denaro con interesse o usura è per loro cosa sconosciuta, che non si fa, come se fosse vietata. I terreni sono occupati da interi villaggi, in ragione del numero dei braccianti agricoli, e questi poi li dividono fra loro secondo la stima che godono; la divisione dei campi e facilitata dalle loro grandi estensioni. Mutano ogni anno i campi e pure avanza della terra. La fecondità e l’ampiezza del suolo non li spinge a gareggiare nella coltivazione dei frutteti, nella delimitazione dei confini e nell’irrigazione; si esige dalla terra soltanto il grano. Perciò non dividono neppure l’anno in tante stagioni: l’inverno, la primavera e l’estate sono conosciute ed hanno un nome ma il nome e i vantaggi dell’autunno sono ignorati.


XXVII

Non pongono nessuna ambizione nei funerali; si osserva soltanto che i cadaveri degli uomini celebri siano bruciati con legni speciali. Non gettano sulla catasta del rogo nè vesti nè profumi; generalmente si aggiungono nel fuoco le armi, e di alcuni anche il cavallo. Il sepolcro viene eretto con zolle; disprezzano il faticoso e arduo onore dei monumenti che pesano sui morti. Lasciano pre[p. 71 modifica]sto i lamenti e le lagrime, tardi il dolore e la tristezza. Per le donne è onesto piangere, per gli uomini ricordare.

Queste sono le notizie che abbiamo appreso in generale sull’origine e sui costumi dei Germani: ora esporrò le istituzioni e i riti dei singoli popoli, in che differiscano e quali genti siano immigrate dalla Germania nelle Gallie.


XXVIII

Il divo Giulio, il più alto degli storici, racconta che la potenza dei Galli fu più grande nei tempi remoti, è perciò credibile che i Galli siano passati in Germania.

Quanto infatti poteva mai un fiume vietare ai popoli via via che diventavano più forti, di occupare e mutare sedi promiscue non divise in regni potenti?

Dunque gli Elvezi si stabilirono tra la selva Ercinia e i fiumi Reno e Meno, più in là i Boi, tutte e due popoli Gallici. Dura ancora il nome di Boiemo che significa l’antica storia del luogo, benchè siano mutati gli abitanti. Ma è incerto se gli Avarici, separatisi dagli Osi, abbiano emigrato in Pannonia, o gli Osi separatasi dagli Avarici, abbiano emigrato in Germania, colla medesima lingua, le medesime istituzioni e abitudini, perchè essendo [p. 73 modifica]eguali la povertà e la libertà delle due rive vi regnavano gli stessi beni e gli stessi mali.

I Treveri e i Nervi sono troppo ambiziosi nel loro desiderio di essere oriundi della Germania, poichè questo orgoglio di sangue non impedisce loro di rassomigliare agli indolenti Galli. La riva del Reno è indubbiamente abitata da popoli Germanici, i Vanzioni, i Triboci e i Nemeti. Neppure gli Ubi, benchè abbiano meritato di essere una colonia romana e si compiacciano di farsi chiamare Agrippinensi dal nome della loro fondatrice, arrossiscono della propria origine. Passati in quel luogo una volta, furono per la loro fedeltà sperimentata collocati sulla riva del Reno, perchè respingessero il nemico, non perchè fossero custoditi.


XXIX

I Batavi, i più valorosi di questi popoli, non abitano un lungo tratto della riva bensì l’isola del Reno.

Questi antichi Catti, passati poi in quella sede dopo una rivolta intestina, divennero così una parte dell’Impero Romano.

Resta però l’onorifico segno della primitiva alleanza, perchè non vengono disprezzati mediante tributi nè divorati dagli appaltatori; esenti da imposte e da contribuzioni, utilizzati soltanto in battaglia, come soldati d’attacco e di difesa, essi ven[p. 75 modifica]gono riservati per le guerre. In una identica soggezione sono i Mattiaci: poichè la grandezza del popolo romano estese la riverenza all’Impero oltre il Reno e gli antichi confini. Così vivono per sede e limiti territoriali sulla propria riva, ma colla mente e il cuore in mezzo a noi; nel resto simili ai Batavi, se non che, padroni nella propria terra e nel proprio clima, hanno un carattere più fiero. Non conterei tra i popoli della Germania quantunque insediati al di là del Reno e del Danubio, quelli che coltivano i campi soggetti a decima.

I più vili dei Galli resi audaci dalla miseria occuparono il suolo di dubbio possesso; poi fissatone il limite e trasportativi i corpi di guardia si considerano ormai come un golfo del vasto Impero e parte della nostra provincia.


XXX

Al di là di questi incomincia la sede dei Catti, cioè dopo la selva Ercinia, in luoghi meno spaziosi e paludosi di quelli che ampiamente occupa la Germania; continuano le colline, ma a poco a poco si diradano, e la selva Ercinia accompagna per un lungo tratto i suoi Catti, poi li abbandona. Quel popolo ha corpi solidissimi, musculatura compatta, minaccioso il volto e maggiore il vigore dell’animo. Come i Germani, manifestano molta intelligen[p. 77 modifica]za e attività: dare il comando ai migliori, ascoltare i capi, interpretare gli ordini, cogliere le occasioni, differire gli assalti, disporre la giornata, trincerare la propria notte, considerare incerta la fortuna, certo il coraggio, e, qualità rarissima che caratterizza la disciplina romana, confidare nel generale più che nell’esercito. Tutta la loro forza è nella fanteria che essi caricano oltre delle armi anche degli ordigni di ferro e dei viveri; vedreste gli altri andare al combattimento, i Catti alla guerra. Fanno raramente scorrerie e scaramucce casuali. È infatti proprio della forza equestre acquistare presto la vittoria o presto ritirarsi: la velocità porta con sè la paura, la lentezza meditata porta con sè la costanza.


XXXI

Il lasciarsi crescere i capelli e la barba per voto e come pegno di coraggio e il tagliarli soltanto dopo l’uccisione del nemico, è un uso raramente seguito da altri popoli germanici, ma nato dall’audacia individuale fu trasformato in costume dai Catti. Sopra il sangue e la preda di guerra, essi mostrano la fronte, dichiarano di avere guadagnato il prezzo della vita e di essere degni della patria e dei genitori; ai vili e agli imbelli rimane lo squallore sul viso. I più valorosi portano inoltre un anello di ferro al braccio, finchè se ne liberano assolven[p. 79 modifica]dosi coll’uccisione del nemico. A molti dei Catti piace questa usanza, e incanutiscono così riconoscibili e mostrati a dito dai nemici e dagli amici.

Il segnale di tutte le battaglie deve partire da essi: questa è la prima linea d’assalto, sempre nuova d’aspetto; e neppure in pace addolciscono il loro modo di vivere. Non curano la casa nè i campi nè l’altre faccende: sono nutriti da coloro che visitano, prodighi delle cose altrui, dispregiatori delle proprie finchè l’esangue vecchiaia li rende impari a così dura virtù guerriera.


XXXII

Vicini ai Catti gli Usipi e i Tenteri abitano sul Reno là dove rientrato nel suo alveo, forma un sufficiente confine. I Tenteri, oltre la solita gloria della guerra, eccellono nell’arte di domare i cavalli; nè presso i Catti è maggiore il prestigio dei fanti che presso i Tenteri quello dei cavalieri. Così stabilirono gli antenati e i posteri li imitano. Questo è il gioco dei fanciulli, questa l’emulazione dei giovani e la perseverante cura dei vecchi. Con gli schiavi, i penati e i diritti di successione vengono tramandati i cavalli: ereditati col resto non dal figlio maggiore ma dal più feroce e più abile in guerra. [p. 81 modifica]


XXXIII

Accanto ai Tenteri una volta s’incontravano i Brutteri. Ora si narra che i Camavi e gli Angrivari vi sono immigrati dopo che i Butteri furono espulsi e distrutti dalla coalizione delle nazioni limitrofe, sia per l’odio che la loro prepotenza suscitava, sia per depredarli, sia per uno squisito favore degli Dèi verso di noi: poichè non ci privarono neppure dello spettacolo della battaglia. Più di sessantamila furono uccisi, non per le spade e i dardi romani, ma, ciò che è prodigiosamente magnifico, per la voluttà dei nostri occhi. Prego gli Dèi perchè duri in quei popoli se non l’amore per noi, almeno l’odio reciproco fra loro, la fortuna non potendo ormai offrire ai fati urgenti dell’Impero nulla di meglio che la discordia dei nemici.


XXXIV

I Dulgubni, i Casuari ed altri popoli non egualmente nominati confinano a tergo cogli Angrivari e i Camavi; di fronte hanno i Frisi, che sono chiamati maggiori e minori secondo le loro forze militari. I due popoli sono limitati dal Reno, e circondano immensi laghi navigati dalle flotte romane. Noi tentammo perfino l’Oceano; e la fama divulgò che ci rimanevano le colonne di Ercole da [p. 83 modifica]esplorare, ciò perchè Ercole si è spinto là, o perchè ci accordiamo nell’attribuire alla sua gloria tutte le cose splendide.

Non mancò l’audacia a Druso Germanico, ma l’Oceano vietò ulteriori indagini su di sè e su Ercole. Dopo nessuno tentò altro, e sembrò più santo e più riverente credere che scrutare gli atti degli Dèi.


XXXV

Fino a questo punto abbiamo conosciuto la Germania occidentale; conosceremo ora la grande curva della Germania settentrionale. Primo ci appare il popolo dei Cauci che incomincia nel paese dei Frisi, occupa una parte del litorale, si stende sui fianchi di tutte le genti da me descritte, e poi si piega per giungere ai Catti. I Cauci non soltanto posseggono un immenso spazio di terre, ma anche lo riempiono bene, popolo nobilissimo fra i Germani e che preferisce difendere la propria grandezza colla giustizia. Senza cupidigia e senza prepotenza, quieti e appartati, non provocano guerre, ignorano i saccheggi e le rapine. Ciò che prova principalmente il loro coraggio e la loro forza è la loro abitudine di non dominare mediante ingiustizie; pronte nondimeno sono le loro armi, e, se gli avvenimenti lo esigono, pronto un esercito con una [p. 85 modifica]massa di guerrieri e cavalli; anche in pace hanno la stessa fama.


XXXVI

A fianco dei Cauci e dei Catti, i Cherusci, non provocati, conservarono una lunga pace che marciva; ma ciò fu più gradevole che sicuro poichè si sbaglia chi creda di riposare tranquillo in mezzo ai prepotenti e ai forti; quando, si viene alle mani i titoli di moderato e di retto toccano al vincitore. Così i Cherusci erano una volta giudicati buoni e giusti, oggi inerti e stolti; le fortunate vittorie dei Catti vennero trasformate in saggezza. Furono travolti nella rovina dei Cherusci anche i Fosi, popolo limitrofo; eguali nell’avversità benchè fossero stati inferiori nella fortuna.


XXXVII

I Cimbri, popolo piccolo ma glorioso, più vicini all’Oceano, occupano lo stesso golfo della Germania. Della gloria antica rimangono larghi vestigi, sulle due rive si stende un vasto campo trincerato, dal cui giro calcoleresti facilmente la massa e la quantità di mani di quel popolo e ti convinceresti di una così grande emigrazione. La nostra città aveva 640 anni quando per la prima volta risuonarono le armi dei Cimbri sotto i consoli Cecilio Me[p. 87 modifica]tello e Papiro Carbone. Se contiamo da quell’anno al secondo consolato dell’imperatore Traiano sono 210 anni: tanto stentammo a vincere la Germania. In un così vasto spazio di tempo i danni furono scambievoli. Non il Sannio, non i Cartaginesi, non le Spagne nè le Gallie, neppure i Parti ci preoccuparono più spesso, poichè la libertà dei Germani è più ostinata del regno di Arsace. Che altro ci potrebbe rimproverare l’Oriente stravinto da un Ventidio se non il massacro di Crasso, ma dopo la morte di Pacoro? I Germani dopo avere sbaragliati e catturati Carbone e Cassio e Scauro Aurelio e Servilio Cepione e Gneo Manlio, strapparono al popolo romano cinque eserciti consolari e a Cesare tre legioni e Varo. Non impunemente Caio Mario li sconfisse in Italia, il divo Giulio nella Gallia, Druso Nerone e Germanico nelle loro sedi; dopo, le grandi minacce di Gaio Cesare si mutarono in scherzo. Quindi la pace, che durò finchè approfittando della nostra discordia e delle nostre lotte civili, i Germani espugnarono i quartieri invernali delle legioni e assalirono pure le Gallie.

Furono in questi ultimi tempi, nuovamente scacciati di là, e trionfammo sopra di loro più che non li vincemmo. [p. 89 modifica]


XXXVIII

Ora devo parlare dei Suebi che non sono un popolo unico, come i Catti e i Tenteri: essi tengono la maggiore parte della Germania, divisi finora in varie genti con nomi distinti, benchè si chiamino comunemente Suebi. Caratteristica loro è il ravviare all’insù i capelli e stringerli con un nodo; così si distinguono i Suebi dagli altri Germani e così presso i Suebi gli uomini liberi si distinguono dagli schiavi.

Fra gli altri popoli, sia per qualche parentela coi Suebi, sia per imitazione, come avviene spesso, quest’uso appare raramente ed è riservato ai giovani; i Suebi invece, fino alla canizie torcono all’insù i capelli e li legano in spaventoso ciuffo sul cocuzzolo; talvolta i principi li adornano. Questa cura di bellezza non ha lo scopo di piacere: si perfezionano non per amare nè per sedurre, ma per sembrare più alti e incutere più terrore agli occhi dei nemici.


XXXIX

Si dice che i più antichi e i più nobili dei Suebi siano i Semnoni; l’antichità della loro origine è confermata dalla religione. Al tempo fissato, in un bosco consacrato dalle cerimonie augurali dei loro padri e dal terrore primitivo, si raccolgono tutti [p. 91 modifica]i popoli dello stesso sangue rappresentati da legazioni, e uccidono a nome del popolo un uomo, celebrando così il loro orrendo rito primordiale. Vi è nel bosco sacro un altro obbligo religioso: nessuno vi entra se non legato da una corda, per manifestare la sua inferiorità e il potere sovrano che il nume ha sopra di lui. Se per caso cade, non ha la libertà di alzarsi e rimettersi in piedi; avanzerà rotolando per terra. E questa superstizione vuole dimostrare che in questo bosco sacro nacque il loro popolo e regna il Dio che domina tutto e tutti, a lui inferiori e soggetti.

La fortuna dei Semnoni aggiunge autorità a questa religione; popolano cento villaggi e per la loro quantità si credono il primo ramo dei Suebi.


XL

All’opposto, lo scarso numero nobilita i Longobardi; benchè siano circondati da molti e valorosissimi popoli, vivono sicuri, non per l’ossequio di questi, ma per la propria audacia guerriera. I Reudigni, gli Avioni, gli Angli, i Varini, gli Eudosi, i Suardoni e i Nuitoni sono difesi dai fiumi e dalle selve. Nulla di notevole in ciascuno di essi se non che adorano Nerto, cioè la Terra madre, e pensano che essa s’interessi delle cose degli uomini, e venga fra di loro trasportata in un carro. Esiste [p. 93 modifica]in un’isola dell’Oceano un intatto bosco sacro, e in esso un carro dedicato alla Dea coperto da un drappo; soltanto al sacerdote è concesso toccarlo. Questi capisce che la Dea è discesa, e con molta venerazione la segue quando vi penetra trascinata da due vacche. Sono giorni di letizia e luoghi di festa quelli ove ella si degna di venire come ospite. Non si fanno guerre, non si impugnano armi; ogni ferro è rinchiuso; la pace e la quiete soltanto sono note e amate finchè lo stesso sacerdote restituisce al tempio la Dea sazia di conversare coi mortali. Dopo, il carro, il drappo e, se vuoi crederlo, la Dea stessa si lavano in un lago segreto.

Gli schiavi che la servono vengono inghiottiti dallo stesso lago. Perciò un arcano terrore e una religiosa ignoranza circondano questa Dea veduta soltanto da morituri.


XLI

Questa parte della Suebia si sprofonda nella Germania lontana; più vicino a noi, seguendo ora il Danubio come prima il Reno, vive il popolo degli Ermunduri fedele ai Romani; e per questo, soli fra i Germani, non commerciano sulla riva ma nell’interno, cioè nella splendidissima colonia romana della provincia Retica. Si spostano qua e là senza essere custoditi; e mentre agli altri popoli noi mostriamo soltanto le nostre armi e i nostri [p. 95 modifica]campi trincerati, a questi abbiamo aperto le case e le ville che essi non desiderano. Nell’Ermunduria nasce l’Elba, fiume noto e celebre una volta, ora appena nominato.


XLII

Vicino agli Ermunduri vi sono i Naristi poi i Marcomani e i Quadi. Grandi sono la gloria e la forza dei Marcomani e anche la loro sede, dopo che ne furono espulsi i Boi.

Neppure i Naristi e i Quadi degenerarono. Quella è la frontiera della Germania fin là d’ovè cinta dal Danubio. I Marcomani e i Quadi sino ai nostri tempi ebbero re della loro razza, del nobile sangue di Moroboduo e di Tudro: ora tollerano anche re forestieri; ma ai re la forza e la potenza sono dati dall’autorità Romana. Raramente si giovano delle armi nostre, più spesso del nostro denaro; ma non valgono meno per questo.


XLIII

I Marsigni, i Cotini, gli Osi e i Buri chiudono le spalle dei Marcomani e dei Quadi. Di questi i Marsigni e i Buri per la lingua e il modo di vivere, rassomigliano ai Suebi; l’idioma gallico dei Cotini, l’idioma pannonico degli Osi e i tributi che subiscono dimostrano che non sono Germani. Una [p. 97 modifica]parte dei tributi viene loro imposta dai Sarmati, e una parte dai Quadi come a stranieri; i Cotini hanno inoltre la vergogna di possedere delle miniere di ferro inutilizzate. Tutti questi popoli occuparono poche pianure e molti boschi cime e gioghi di montagne. Una catena ininterrotta di montagne divide in due parti, con precisione la Suebia, e al di là di essa vivono molti popoli, fra questi si stende ampiamente quello dei Lugi, che comprende parecchie orde. Basta nominare le più valorose, gli Ari, gli Elveconi, i Manimi, gli Elisi, e i Naanarvali. I Naanarvali mostrano tuttora un loro bosco sacro d’antica religione, presieduto da un sacerdote lussuosamente vestito da donna; ma secondo noi venerano in realtà gli Dèi Castore e Polluce. Il nume ha questo carattere e si chiama Alci. Nessun simulacro, nessun vestigio di superstizione straniera; non di meno li venerano come fratelli e come giovani. Ma gli Ari, oltre le forze che fanno prevalere i popoli già enumerati, hanno un terrificante aspetto, aumentano la loro naturale ferocia coll’arte e il tempismo; scudi neri, corpi tinti; per dare battaglia scelgono le notti più tenebrose, e con la sola ombra marciante del loro esercito ferale spandono intorno lo spavento; nessun nemico sostiene questa visione sorprendente e quasi infernale; poichè i primi ad essere vinti nel combattimento sono gli occhi. [p. 99 modifica]


XLIV

Al di là dei Lugi, i Gotoni sono governati da re, un poco più severamente degli altri popoli germani, senza però schiacciare la libertà. Subito dopo, verso l’Oceano, stanno i Rugi e i Lemovi; tutti questi popoli sono caratterizzati dagli scudi rotondi, le spade corte e l’ossequio ai re.

Proprio in mezzo all’Oceano, le orde dei Suioni valgono oltre che per i guerrieri e le armi, anche per le loro flotte. La forma delle loro navi differisce per la doppia prua che le predispone sempre all’approdo. Non le governano con le vele, nè aggiungono ai fianchi le fila ordinate dei remi; si rema liberamente, come su alcuni fiumi, di qua e di là secondo che la necessità lo domanda. Vale presso di loro la ricchezza, per questo uno solo vi comanda, senza eccezioni nè precaria obbedienza. Le armi non sono come presso gli altri Germani, a disposizione del primo venuto, ma chiuse e custodite da un guardiano schiavo, perchè l’Oceano vieta le incursioni fulminee dei nemici, e inoltre perchè nell’ozio le mani degli uomini armati facilmente si abbandonano ad eccessi; d’altra parte, dare in consegna le armi a un nobile a un uomo libero o a un liberto non può essere utile ai re. [p. 101 modifica]


XLV

Al di là dei Suioni, appare un altro mare pigro e quasi immobile colla relativa credenza che da esso sia circondata e chiusa la terra, l’estremo fulgore del sole al tramonto vi dura fino all’alba tanto chiaro da far impallidire le stelle; l’opinione comune aggiunge che si ode anche il suono del sole emergente dal mare e si vedono le forme dei suoi cavalli e la sua capigliatura di raggi. Fin là si stende la natura secondo la fama che non erra.

Dunque sul litorale destro, vivono lavati dal mare Suebico, i popoli degli Esti, che hanno i riti e i costumi dei Suebi e la lingua della Britannia. Adorano la madre Terra. Portano teste e pelli di cinghiali come amuleti religiosi che tengono luogo d’armi e di ogni altra difesa per i devoti della Dea, anche in mezzo ai nemici. Raro è l’uso del ferro, frequente quello dei bastoni. Coltivano il frumento e tutti i frutti con maggiore pazienza che non conceda la solita inerzia dei Germani. Ma scrutano anche il mare, e, soli fra tutti, raccolgono sulla spiaggia a marea bassa l’ambra che essi chiamano gleso. Da veri barbari, non si sono domandato nè hanno scoperto quale ne sia la formazione naturale; da molto tempo giaceva fra gli altri ri[p. 103 modifica]fiuti del mare, fino al giorno in cui la nostra manìa del lusso le diede un nome prezioso.

Essi non l’usano; la raccolgono greggia, la trasportano informe e si meravigliano di riceverne il prezzo. Pure è facile comprendere che è un succo d’alberi perchè vi giacciono in mezzo insetti della terra e dell’aria, che, invischiati nel liquido, vi rimangono rinchiusi quando questi si solidifica. Sono inclinato a credere che, come vi sono nelle parti remote dell’Oriente selve e boschi sacri esuberanti che trasudano incensi e balsami, così vi siano nelle isole e nelle terre dell’Occidente materie che spremute fuori dagli alberi e liquefatte dai raggi del sole vicino, galleggino sul mare e siano poi gettate dalla forza delle tempeste contro il litorale opposto.

Se tenti col fuoco la natura dell’ambra, come una fiaccola si accende nutrendo una fiamma grassa e odorosa che poi va spegnendosi in pece o resina. Il popolo dei Sitoni continuando diventa il confine dei Suioni. In tutto simili, differiscono soltanto in ciò, che vi regna una donna: tanto sono degenerati dalla libertà e dalla stessa schiavitù.


XLVI

Questo è il confine della Suebia. Esito nel mettere il popolo dei Peucini dei Venedi e dei Fenni tra i Germani o tra i Sarmati, benchè i Peucini, chia[p. 105 modifica]mati da alcuni Bastarni, somigliano ai Germani per la lingua, il modo di vivere, gli accampamenti e le abitazioni. La sudiceria e la pigrizia sono comuni a tutti; i matrimoni che contraggono i capi danno gradualmente alla razza la bruttezza dei Sarmati.

I costumi di questi furono imitati dai Venedi che vanno saccheggiando tutte le selve e tutti i monti eretti tra i Peucini e i Fenni. Non di meno bisogna catalogarli piuttosto fra i Germani, perchè hanno case con fondamenta, portano lo scudo, amano la marcia e la velocità; abitudini diverse da quelle dei Sarmati che vivono sui carri o a cavallo. Stupefacente è la barbarie dei Fenni, lurida la loro povertà: non hanno armi nè cavalli nè penati; il loro cibo è l’erba, vestito le pelli, letto la terra nuda; unica ricchezza le frecce che, per mancanza di ferro, costruiscono con ossa aguzzate. La caccia nutre egualmente uomini e donne; queste li accompagnano qua e là, esigendo una parte della preda. Altro refugio non hanno i bambini contro le belve e le pioggie che una capanna di rami intrecciati; qui tornano i giovani e si ricoverano i vecchi. Ma pensano che sia questo un modo di vivere più felice che gemere nel faticoso lavoro dei campi, costruire case o commerciare le proprie e altrui ricchezze, tra speranza e timore. Sicuri contro gli uomini, sicuri contro gli Dèi, essi hanno ottenuto [p. 107 modifica]la cosa più difficile cioè l’assenza di ogni desiderio.

Il resto è favoloso: si dice che gli Ellusi e gli Ossioni abbiano una faccia d’uomo e il corpo e le membra di belva: ma io lascio questa notizia come non verificata.