L'umorismo/Parte prima/6
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - 5 | Parte seconda | ► |
VI
Umoristi italiani
Non è mia intenzione tracciare neppure per sommi capi la storia dell’umorismo presso le genti latine e segnatamente in Italia. Ho voluto soltanto, in questa prima parte del mio lavoro, oppormi a quanti han voluto sostenere che esso sia un fenomeno esclusivamente moderno e quasi una prerogativa delle genti anglo-germaniche, in base a certi preconcetti, a certe divisioni e considerazioni, arbitrarie le une, sommarie le altre, come mi sembra di aver dimostrato.
La discussione intorno a queste divisioni arbitrarie e considerazioni sommarie, se forse mi ha fatto ritardare alquanto il cammino, che mi ero proposto più spedito, trattenendomi a osservar da presso certi particolari aspetti, certe particolari condizioni nella storia della nostra letteratura; tuttavia non mi ha disviato mai dall’argomento principale, che del resto vuol essere trattato con sottile penetrazione e minuta analisi. Vi ho girato attorno, ma per circuirlo sempre più e penetrarlo meglio da ogni parte.
A qualcuno che forse avrà creduto di trovare una contradizione tra il mio assunto e gli esempii finora recati di scrittori italiani, nei quali non ho riconosciuto la nota del vero umorismo, ricorderò che io ho parlato in principio di due maniere d’intenderlo, e ho detto che il vero nodo della questione è appunto qui: cioè, se l’umorismo debba essere inteso nel senso largo con cui comunemente si suole intendere, e non in Italia soltanto; o in un senso più stretto e particolare, con peculiari caratteri ben definiti, che è per me il giusto modo d’intenderlo. Inteso in quel senso largo — ho detto — se ne può trovare in gran copia nella letteratura così antica come moderna d’ogni paese; inteso in questo senso stretto e per me proprio, se ne troverà parimenti, ma in molto minor copia, anzi in pochissime espressioni eccezionali, così presso gli antichi come presso i moderni d’ogni paese, non essendo prerogativa di questa o di quella razza, di questo o di quel tempo, ma frutto d’una specialissima disposizione naturale, d’un intimo processo psicologico, che può avvenire tanto in un savio dell’antica Grecia, come Socrate, quanto in poeta dell’Italia moderna, come Alessandro Manzoni.
Non è lecito però assumere a capriccio questo o quel modo d’intendere e applicar l’uno a una letteratura, per concludere che essa non ha umorismo, e applicar l’altro a un’altra per dimostrare che l’umorismo vi sta di casa. Non è lecito sentir soltanto negli stranieri, a causa della lingua diversa, quel particolar sapore, che per la familiarità dello stesso strumento espressivo non si avverte più nei nostri, ma nei quali intanto gli stranieri a lor volta lo avvertono. Così facendo, noi saremo i soli a non riconoscer traccia d’umorismo nella nostra letteratura, mentre vedremo gl’Inglesi, ad esempio, porre a capo della loro un umorista, il Chaucer, il quale, se mai, può esser considerato per tale, ove si assuma l’umorismo sul senso più largo, in quel senso cioè per cui può esser considerato quale umorista anche il Boccaccio e tanti altri scrittori nostri con lui.
Nessuna contradizione, dunque, da parte nostra. La contradizione invece è in coloro che, dopo aver affermato che l’umorismo è un fenomeno nordico e una prerogativa delle genti anglo-germaniche, quando poi vogliono recare due esempii mirabili del più schietto e compiuto umorismo, citano Rabelais e Cervantes, un francese e uno spagnuolo; oppure il Rabelais e il Montaigne; e citando il Rabelais non hanno occhi per vedere in casa loro il Pulci, il Folengo, il Berni; e, citando il Montaigne, che è il tipo dello scetticismo sereno, non avido di lotte, sorridente, senza impeti, senza ideali da difendere, senza virtù da seguire, lo scettico che tollera tutto senza aver fede in nulla, che non ha nè entusiasmi nè aspirazioni, che si serve del dubbio per giustificare l’inerzia con la tolleranza, che dimostra una percezione della vita serena, ma sterile, indice di egoismo e di decadenza di razza, giacchè il libero esame che non spinge all’azione può meglio che salvare dalla schiavitù, accettare, o rendersi complice del dispotismo, non s’accorgono che le ragioni per cui han negato a tanti scrittori italiani non solo la nota umoristica, ma anche la possibilità d’averla, sono appunto queste che dicono d’aver prodotto l’umorismo del Montaigne.
Un peso, come si vede, e due misure.
Noi vedremo che, in realtà, l’avere una fede profonda, un ideale innanzi a sè, l’aspirare a qualche cosa e il lottare per raggiungerla, lungi dall’essere condizioni necessarie all’umorismo, sono anzi opposte; e che tuttavia può benissimo essere umorista anche chi abbia una fede, un ideale innanzi a sè, un’aspirazione e lotti a suo modo per raggiungerla. Un ideale qualsiasi, in somma, per sè stesso, non dispone affatto all’umorismo, anzi ostacola questa disposizione. Ma l’ideale può ben esserci; e se c’è, l’umorismo, che deriva da altre cause, certamente prenderà qualità da esso, come del resto da tutti gli altri elementi costitutivi dello spirito di questo o di quell’umorista. In altre parole: l’umorismo non ha affatto bisogno d’un fondo etico, può averlo o non averlo: questo dipende dalla personalità, dall’indole dello scrittore; ma, naturalmente, dall’esserci o dal non esserci, l’umorismo prende qualità e muta d’effetto, riesce cioè più o meno amaro, più o meno aspro, pende più o meno o verso il tragico o verso il comico, o verso la satira, o verso la burla, ecc.
Chi crede che sia tutto un giuoco di contrasto tra l’ideale del poeta e la realtà, e dice che si ha l’invettiva, l’ironia, la satira, se l’ideale del poeta resta offeso acerbamente e sdegnato dalla realtà; la commedia, la farsa, la beffa, la caricatura, il grottesco, se poco se ne sdegna e delle apparenze della realtà in contrasto con sè è piuttosto indotto a ridere più o meno fortemente; e che infine si ha l’umorismo, se l’ideale del poeta non resta offeso e non si sdegna, ma transige bonariamente, con indulgenza un po’ dolente, mostra d’avere dell’umorismo una veduta troppo unilaterale e anche un po’ superficiale. Certo molto dipende dalla disposizione d’animo del poeta; certo l’ideale di questo in contrasto con la realtà può o sdegnarsi o ridere o transigere; ma un ideale che transige non dimostra in verità d’esser molto sicuro di sè e profondamente radicato. E consisterà l’umorismo in questa limitazione dell’ideale? No. La limitazione dell’ideale sarà, se mai, non causa, ma conseguenza di quel particolar processo psicologico che si chiama umorismo.
Lasciamo star dunque una buona volta gl’ideali, la fede, le aspirazioni e via dicendo: lo scetticismo, la tolleranza, il carattere realistico, che le nostre lettere assunsero fin quasi dal loro inizio, furon bene disposizioni e condizioni favorevoli all’umorismo; l’ostacolo maggiore fu la retorica imperante, che impose leggi e norme astratte di composizione, una letteratura di testa, quasi meccanicamente costruita, in cui gli elementi soggettivi dello spirito eran soffocati. Infranto il giogo, abbiamo detto, di questa poetica intellettualistica dalla ribellione appunto degli elementi soggettivi dello spirito, che caratterizza il movimento romantico, l’umorismo si affermò liberamente, massime in Lombardia, che del romanticismo italiano fu il campo. Ma questo così detto romanticismo fu l’ultima e clamorosa levata di scudi della volontà e del sentimento ribelli all’intelletto; in tanti altri periodi, in tanti altri momenti della storia letteraria d’ogni nazione avvennero di tali ribellioni, e ci furon sempre solitarie anime ribelli, e ci fu sempre il popolo che si espresse nei varii dialetti senza imparare a scuola regole e leggi.
Fra questi scrittori solitarii ribelli alla retorica, fra i dialettali bisogna cercar gli umoristi e, in senso largo, ne troveremo in gran copia, fin dagli inizii della nostra letteratura, segnatamente in Toscana; nel senso vero e proprio pochi ne troveremo, ma non se ne trovano di più certo nelle letterature degli altri paesi, nè questi pochi nostri son da meno dei pochi stranieri, che a confusione nostra ci son messi innanzi di continuo, e son sempre quelli, se ben s’avverte, da contarli su le dita d’una mano. Solo che il valore e il sapor dei nostri, noi non lo abbiamo saputo mai nè metter bene in rilievo e pregiare, nè avvertire e distinguere a dovere, perchè alle loro singole e specialissime individualità la critica, guidata nella maggior parte delle nostre storie letterarie da pregiudizii che non hanno nulla che vedere con l’estetica o, comunque, da criterii generali, non ha saputo a volta a volta adattarsi e piegarsi, e ha giudicato come errori, eccessi o difetti quelli che eran caratteri peculiari. Dico questo soltanto: Chi sa che giudizio troveremmo nelle nostre storie letterarie d’un libro come la Vita e opinioni di Tristram Shandy, se scritto in italiano, da uno scrittore italiano, chi sa che capolavoro d’umorismo sarebbero, ad esempio, la Circe o I capricci di Giusto Bottajo, se scritti in inglese, da uno scrittore inglese, o magari la stessa Vita di Cicerone di Gian Carlo Passeroni!
Discorrevo, qualche anno fa, appunto di questo, con un cultissimo signore inglese, conoscitore profondo della letteratura italiana.
— Neanche nel Machiavelli? — mi domandava egli con meraviglia quasi incredula. — I vostri critici non riconoscono umorismo neanche nel Machiavelli? neanche nella novella di Belfegor?
Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro, che non andò mai a vestirsi nel guardaroba della retorica; che come pochi comprese la forza delle cose; a cui la logica venne sempre dai fatti; che contro ogni sintesi confusa reagì con l’analisi più arguta e più sottile; che ogni macchina ideale smontò coi due strumenti dell’esperienza e del discorso; che ogni esagerazione di forma distrusse col riso; pensavo che nessuno ebbe maggiore intimità di stile di lui e più acuto spirito d’osservazione; che poche anime furono come la sua disposte all’apprensione dei contrasti, a ricevere più profondamente l’impressione delle incongruenze della vita; pensavo che, parendo a molti un carattere dell’umorismo quella certa cura delle minuzie e una — come dice il D’Ancona — «a giudicarla astrattamente e a prima vista, trivialità e volgarità», anche egli, il Machiavelli, alla moltitudine talvolta si mescolò fino alla volgarità, tanto che scrisse: «Così involto tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per questa via per vedere se la se ne vergognassi»; ma anche:
Però se alcuna volta io rido o canto
Facciol perchè non ho se non quest’una
Via da sfogare il mi’ angoscioso pianto;
pensavo anche a un’acuta osservazione del De Sanctis, che cioè: «il Machiavelli adopera la tolleranza che comprende e assolse: non già la tolleranza indifferente dello scettico, dell’ebete, dello sciocco; ma la tolleranza dello scienziato, che non sente odio contro la materia ch’egli analizza e studia, e la tratta coll’ironia dell’uomo superiore alle passioni e dice: — ti tollero, non perchè ti approvi, ma perchè ti comprendo» — pensavo a tutti questi elementi che, a farlo apposta, se li mettiamo in fila, son proprio quelli che gl’intenditori delle letterature straniere riconoscono proprii dei veri e più celebrati umoristi (s’intende, inglesi o tedeschi), e — Dio me lo perdoni — non sapevo più se piangere o ridere di tutte le meraviglie che questi intenditori han sempre detto... che so? delle Lettere d’un drappiere e degli altri scritti politici del decano Gionata Swift!
A questi intenditori, che delle letterature straniere ci pongono innanzi i soliti cinque o sei scrittori umoristi, basta dare della letteratura nostra un giudizio così fatto: «L’opera d’arte è scherzo geniale di fantasia, è riso fugace d’impressione destato dalle immagini, non dalle cose, gajezza accademica di ricordi, erudita ilarità; manca il sentimento profondo della famiglia (e ne aveva tanto lo Swift, difatti!), della natura, della patria; o meglio manca in quella forma gaja e ne assume un’altra, acre e violenta (e che miele, difatti, nello Swift!), che ricorda Persio e Giovenale. Non fo nomi; basti accennare che le tradizioni classiche, lo spirito d’imitazione, la lingua ristretta nel vocabolario, schiva del popolo, impedirono nell’arte la libertà di atteggiamenti, di forma, di stile indispensabile all’humour: come altri ostacoli, il Papato, la dominazione straniera, le discordie intestine, la boria regionale e le accademie e le scuole impedirono la libertà politica, religiosa, scientifica. Ne affligge antico male; in scienza pedanti, in arte retori, nella vita attori, solenni sempre o gravi, insofferenti di analisi, corrivi alle grandi idee, sdegnosi delle modeste e lente esperienze, cercatori di tesi e di antitesi, vaporosi o empirici, atei o mistici, manierati o barbari. La nostra coltura è a strati, e non sempre nazionale; lo straniero persiste dentro a noi; le forme letterarie hanno tipi fissi; una generazione fa il testo, altre parecchie fanno le note; così si pensa e sente per riflesso, per reminiscenza o per fantasia; così ne sfugge il senso reale della vita, si ottunde quella libertà di percezione e di attitudini che crea l’umorismo; e si riproduce il circolo vizioso: gli scrittori umoristi non sorgono perchè mancano le condizioni adatte, e queste non mutano perchè mancano gli scrittori. Il difetto è alla radice; poco sviluppato lo spirito di curiosità; fioca la nota intima. L’humour vuole l’uno e l’altra; vuole il pensatore e l’artista; ma l’arte e la scienza presso noi son divise tra loro e divise dalla vita».1
Ho citato il Machiavelli. Citerò, a questo proposito, un altro piccolo nostro che non ebbe quella «libertà di atteggiamenti, di forma, di stile, indispensabile all’humour», a cui «il Papato... le accademie e le scuole impedirono la libertà politica, religiosa e scientifica», un insofferente d’analisi, pedante in iscienza e retore in arte, uno che ebbe poco sviluppato lo spirito di curiosità, ecc.: Giordano Bruno, se permettete, academico di nulla academia, autore, tra l’altro, dello Spaccio de la Bestia trionfante, della Cabala del Cavallo Pegaseo, dell’Asino Cillenico e del Candelajo; colui che ebbe per motto, come tutti sanno: In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, che pare il motto dello stesso umorismo.
E la candela di quel suo candelaio «potrà chiarir alquanto certe ombre dell’idee, le quali invero spaventano le bestie», — dice egli stesso; e dice anche: — «Considerate chi va, chi viene, che si fa, che si dice, come s’intende, come si può intendere; chè certo, contemplando quest’azioni e discorsi umani col senso d’Eraclito, o di Democrito, avrete occasion di molto o ridere o piangere».
Per conto suo, l’autore le ha contemplate col senso di Eraclito e di Democrito a un tempo.
«Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non copre quel ch’ella mostra aperto, chiama il pane pane, il vino vino, il piede piede, et altre parti di proprio nome; dice il mangiare mangiare, il dormire dormire, il bere bere, e così gli altri atti naturali significa con proprio titolo».
Questo, nella Epistola esplicatoria che precede lo Spaccio della Bestia trionfante. Apriamo un po’ questo Spaccio e sentiamo che cosa Mercurio dice di Giove. Ecco qua: «Ha ordinato che oggi a mezzogiorno doi meloni tra gli altri, nel melonajo di Fronzino, sieno perfettamente maturi; ma che non sieno colti se non tre giorni a presso, quando non saran giudicati buoni a mangiare. Vuole che al medesimo tempo de la iviuma che sta a le radici del monte di Cicala, in casa di Gioan Bruno, trenta iviomi sieno perfetti colti, e diece sette cadano scalmati in terra, quindici siano rosi da’ vermi; che Nasta, moglie d’Albenzio, mentre si vuole increspar li capegli de le tempie, vegna, per aver troppo scaldato il ferro, a brugiarsene cinquantasette, ma che non si scotte la testa, e per questa volta non biastemi quando sentirà il puzzo, ma con pazienza la passe; che dal sterco del suo bove nascano dugento cinquanta doi scarafoni, de’ quali quattordici sieno calpestati e uccisi per il pie’ di Albenzio, vinti sei muojano di rinversato, vinti doi vivano in caverna, ottanta vadano in peregrinaggio per il cortile, quaranta doi si retirino a vivere sotto quel ceppo vicino a la porta, sedici vadano isvoltando le pallotte per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la fortuna... Che Ambrogio ne la centesima e duodecima spinta abbia spaccio et ispedito il negozio con la mogliera, e che non la ingravide per questa volta, ma ne l’altra volta, con quel seme in cui si convertisce quel porro cotto che mangia al presente con sapa e pane miglio».
E questo per dimostrare a Sofia che s’inganna se pensa che ai celesti non sieno a cura così le cose minime, come le più grandi.
Come si chiama questo?
Dice di sè Giordano nell’Antiprologo del Candelajo: «L’autore, se voi lo conoscete, direste ch’have una fisionomia smarrita; par che sempre sia in contemplazione de le pene de l’inferno; par sia stato a la pressa, come le barrette; un che ride, sol per far come fan gli altri. Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico come un cane». E Dedalo si chiama «circa gli abiti dell’intelletto» nella proemiale epistola al Dell’infinito Universo e Mondi, e come Momo, dio del riso, s’introduce nello Spaccio.
«Lo stile del Bruno, — osserva nel suo studio mirabile su Tre commedie italiane nel Cinquecento il Graf2 — lo stile del Bruno è l’immagine viva della mente onde muove. Ad un’amplissima varietà di forme, di figurazioni e di processi, s’accoppia in esso un’efficacia impareggiabile. Pien di vitale fervore esso non si adagia ne’ simmetrici spartimenti retorici, nè si compone secondo schemi architettonici, ma si devolve per effluente, organica funzione. Di natura proteiforme, con pari agevolezza s’adegua al più arduo pensiero della mente disquisitiva, e al più volgar sentimento di un’anima abjetta. Le parole vi si affrontano in riscontri impensati, e dal cozzar loro erompe sfavillando nuova luce d’idee. Esso è un vivo fermento di peregrini concetti, d’immagini epifaniche, di clausole feconde. La lingua copiosa, proporzionata alla varietà e al numero delle cose che per essa si debbono significare, non conosce, o disprezza, i ritegni e le leggi dell’accademica purità, e s’impingua di elementi tratti così da’ ripositorii più augusti dell’eloquenza classica, come dagli ultimi fondi della parlata vernacola. Un istrumento sì fatto era necessario ad un ingegno che, senza smarrire mai l’equilibrio, trascorre tutti i gradi dell’essere, dagli imi termini del reale ai superni dell’ideale. Sia che raffronti, e associi o sceveri i termini del pensiero, sia che narri o descriva, la virtù sua rimane sempre uguale a sè stessa».3
Le contraddizioni innegabili che il Graf in questo suo studio scopre nella mente del filosofo panteista, per cui confessa di non intendere «come si generi in essa il momento del riso» si spiegano, secondo me, perfettamente con quell’intimo e particolar processo psicologico in cui consiste appunto l’umorismo e che implica per sè stesso queste e tant’altre contraddizioni. Del resto, il Graf stesso soggiunge: «Può darsi che la contraddizione tragga la origine da una certa disformità preesistente fra l’intelletto e l’indole da una parte, e fra la virtù apprensiva e la raziocinativa da un’altra».
Ma io non posso indugiarmi a discorrere su ogni scrittore che mi avvenga di nominare in questa rapida corsa. Debbo limitarmi a fuggevoli accenni, rimandando a miglior tempo uno studio compiuto e un’antologia degli umoristi italiani, che qui, dato il mio còmpito, sarebbe fuor di luogo. Basterà porre in vista alcuni pochi nomi; e due ne abbiamo già citati di sommi, e un terzo di più modesto scrittore, che fu di popolo e artigiano, uso, come disse egli stesso «tutto il giorno a combattere con la forbice e con l’ago: cose che se bene sono strumenti da donne, e le muse son donne, non si legge però ch’elle fussino mai adoperate da loro»: Giambattista Gelli, voglio dire, che nei giardini del Ruccellai si pascolò di filosofia e diede fuori quella Circe e quei Capricci di Giusto Bottajo, che — ripeto — chi sa che capolavori d’umorismo sembrerebbero, se scritti in inglese, da scrittore inglese.
Ma sul serio, se son considerati umoristi in Inghilterra il Congreve, lo Steele, il Prior, il Gay, non troveremo noi nella letteratura nostra da contrapporre a quel mediocrissimo commediografo, il cui teatro — a dirla col Thackeray — fa l’effetto d’un triclinio o d’un cubicolo di Pompei, dove non restino più se non i cocci dell’antico banchetto o i detriti del mondo muliebre scomparso, e a quei tre altri buoni compagnoni, non troveremo, dicevo da contrapporre altri nomi di scrittori, che noi, per conto nostro, non ci siamo mai sognati di chiamare umoristi, anche del settecento, e anche di due e di tre secoli innanzi? Ma quanti bizzarri e gaj ingegni tra quei bajoni nostri del Cinquecento! E il Cellini? Sul serio, se ci vediamo porre innanzi The Dunciade del Pope, non abbiamo da prendere a piene mani, per seppellirla, tutta una letteratura, di cui sogliamo vergognarci, a cominciar dai Mattaccini del Caro? Mancassero guerre d’inchiostro tra i letterati nostri d’ogni tempo, giù giù dai sonetti di Cecco Angiolieri contro Dante, all’Atlantide di Mario Rapisardi! Riso anche questo, sicuro, gajezza mala, umore, cioè fiele, collera fredda e secca, come la chiama Brunetto Latini, o malinconia nel senso originario della parola: la malinconia appunto dello Swift libellista. Penso al Franco, all’Aretino e, più qua, a quel terribile monsignor Lodovico Sergardi. A questi soltanto? Ma a ben più d’uno
è forza ch’io riguardi, |
vedendo con quanta larghezza gli altri imbarchino scrittori in questo Narrenschiff dell’umorismo! Ma sì, perchè no? anche tu, Ortensio Lando, se pur volontariamente non pazzeggi come Bruto per aver diritto di vivere e di parlare con libertà, come disse Carlo Tenca; monta anche tu, autore dei Paradossi e del Commentario delle cose mostruose d’Italia e d’altri luoghi, tu che, non foss’altro, avesti il coraggio di dare ai tuoi dì dell’animalaccio ad Aristotile. Io, per me, ti lascerei a terra con tutti gli altri, a terra col Doni, a terra col Boccalini, Tacito proconsolo nell’isola di Lesbo, a terra col Dotti, a terra con tanti prima e dopo di te, il Caporali e il Lippi e il Passeroni; ma non vorrei essere io solo così rigoroso, massime quando vedo dalla barca uno che ha il diritto di starvi, incontestabile, Lorenzo Sterne, far cenni e invitar quell’ultimo dei nostri che ho nominati, a montarvi.
E Alessandro Tassoni? si deve lasciare a terra anche lui? Nelle recenti feste in suo onore, parecchi han voluto veder stoffa d’umorista vero in questo acuto e acerbo derisore, anzi disprezzatore del suo tempo. Se fosse inglese o tedesco, sarebbe già da un pezzo nella barca anche lui e degno di starvi
Siamo sempre lì: in che senso si deve intendere l’umorismo?
L’Arcoleo, su la fine della sua seconda conferenza, dichiara di non essere incline a quella critica che, rispetto a forme letterarie, dispensa facilmente scomuniche e ostracismi; e dice che sono molto complesse le ragioni per le quali in Italia ebbe poca vita la forma umoristica, e che egli non vuol profanare quest’argomento che merita studio speciale. Quali sieno queste ragioni molto complesse, che al lume degli stessi esempii recati dall’Arcoleo appajono qua e là contraddittorie, abbiamo già veduto: da noi non c’è spirito d’osservazione nè intimità di stile, siamo pedanti e accademici, siamo scettici e indifferenti, non aspiriamo a nulla. Contro queste accuse, noi abbiamo citato parecchi nomi, che mai, neppure in un lampo, sono sorti in mente all’Arcoleo. Una sola volta, parlando del Heine in fin di vita, che ride del suo dolore, pensa, per combinazione, al Leopardi che si sentiva anche lui «un tronco che pena e vive» e al Brighenti scriveva: «Io sto qui deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, di maniera che se vi penso mi fa raccapricciare. Tuttavia mi avvezzo a ridere e ci riesco». Sì, ma «restò lirico», osserva, «l’educazione classica non gli permise di essere umorista»! Ma scrisse anche certi dialoghi, se non c’inganniamo, e certe altre prosette... Restò lirico anche lì? L’educazione classica... Ma almeno la tendenza romantica avrà permesso al Manzoni di essere umorista? Che! Il suo don Abbondio «non aspira a nulla, litiga tra il dovere e la paura; è ridicolo senz’altro». Non è questo un modo abbastanza spiccio di giudicare e mandare? Ma questo modo, veramente, tiene l’Arcoleo dal principio alla fine delle due conferenze: l’argomento è trattato così, a sprazzi, per sentenze inappellabili. Umorismo: fuoco d’artifizio di scoppiettanti definizioni; poi, prima fase: dubbio e scetticismo — «ridere del proprio pensiero» — Amleto; seconda fase, lotta e adattamento — «ridere del proprio dolore» — Don Giovanni. E tra gli umoristi della prima fase son citati due francesi, Rabelais e Montaigne, e due inglesi, Swift e Sterne; tra gli umoristi della seconda, due tedeschi, Richter e Heine, e tre inglesi, Carlyle, Dickens, Thackeray e poi... Marco Twain. Come si vede, nessun italiano. E dire che arriviamo fino a Marco Twain!
L’Arcoleo conclude così: «Lo spirito comico rimase avviluppato nell’embrione della commedia dell’arte o nella poesia dialettale; e molto e ricco sviluppo ebbero invece e in poesia e in prosa, in poemi, novelle, romanzi e saggi, l’ironia e la satira. Basta confondere con queste forme l’humour, perchè n’esca giudizio opposto al mio, o perchè io sembri esagerato e ingiusto. Non intendo parlare di tentativi o abbozzi; si trovano facilmente in ogni storia artistica e di ogni forma: ma io non so vedere fra noi una letteratura umoristica e all’uopo non avrei che a fare un paragone tra l’Ariosto e Cervantes».
Questo paragone l’abbiamo fatto noi, e con un giudizio non opposto a quello ch’egli avrebbe dato, se avesse fatto il paragone. Tra parentesi però, Cervantes — come Rabelais, come Montaigne — è un latino; e non crediamo che la Riforma propriamente in Spagna... Lasciamo andare! Veniamo in Italia. Noi non vogliamo affatto confondere lo spirito comico, l’ironia, la satira con l’umorismo: tutt’altro! Ma non si deve neanche confondere l’umorismo vero e proprio con l’humour inglese, cioè con quel tipico modo di ridere o umore che, come tutti gli altri popoli, hanno anche gl’Inglesi. Non si pretenderà, che gl’Italiani o i Francesi abbiano l’humour inglese; come non si può pretendere che gl’Inglesi ridano a modo nostro o facciano dello spirito come i Francesi. L’avranno magari fatto, qualche volta; ma ciò non vuol dire. L’umorismo vero e proprio è un’altra cosa, ed è anche per gl’Inglesi un’eccentricità di stile. Basta confondere l’una cosa e l’altra — diciamo anche noi a nostra volta — perchè si venga a riconoscere una letteratura umoristica a un popolo e a negarla a un altro. Ma una letteratura umoristica si può avere a questo solo patto, cioè di far questa confusione; e allora ogni popolo avrà la sua, assommando tutte le opere in cui questo tipico umore si esprime nei più bizzarri modi; e noi potremmo cominciar la nostra, ad esempio, con Cecco Angiolieri, come gl’Inglesi la cominciano col Chaucer, e non direi che la comincino bene, non per il valore del poeta, ma perchè egli mostra di aver mescolato alla bevanda nazionale un po’ del vino che si vendemmia nel paese del sole. Altrimenti, una letteratura umoristica vera e propria non è possibile, presso nessun popolo: si possono avere umoristi, cioè pochi e rari scrittori in cui per natural disposizione avviene quel complicato e speciosissimo processo psicologico che si chiama umorismo. Quanti ne cita l’Arcoleo?
Certamente, l’umorismo nasce da uno speciale stato d’animo, che può, più o meno, diffondersi. Quando un’espressione d’arte riesce a conquistare l’attenzione del pubblico, questo si dà subito a pensare e a parlare e a scrivere secondo le impressioni che ne ha ricevuto; di modo che quella espressione, sorta dapprima dalla particolare intuizione d’uno scrittore, penetrata rapidamente nel pubblico, è poi da questo variamente trasformata e diretta. Così avvenne per il romanticismo, così per il naturalismo: diventarono le idee del tempo, quasi un’atmosfera ideale; e molti fecero per moda i romantici o i naturalisti, come molti per moda fecero gli umoristi in Inghilterra nel sec. XVIII, e molti furon degli umidi nel Cinquecento in Italia, e degli arcadi nel settecento. Uno stato d’animo si può creare in noi e divenir coerente o rimaner fittizio, secondo che risponda o no alla speciale fisionomia dell’organismo psichico. Ma poi le idee del tempo mutano, cangia la moda, i pòmpili seguaci si mettono appresso ad altre navi. Chi resta? Restano quei pochi, da contar su le dita, quei pochi che ebbero, primi, l’intuizione straordinaria, o in cui quello speciale stato d’animo divenne così coerente, che poteron creare un’opera organica, resistente al tempo e alla moda.
Sul serio crede poi l’Arcoleo che nella nostra letteratura dialettale non ci sia altro che spirito comico? Egli è siciliano, e certamente ha letto il Meli, e sa quanto sia ingiusto il giudizio di arcadia superiore dato della poesia di lui, che non fu sonata soltanto su la zampogna pastorale, ma ebbe anche tutte le corde della lira e si espresse in tutte le forme. Non c’è vero e proprio umorismo in tanta parte della poesia del Meli? Ma basterebbe citar soltanto La cutuliata per dimostrarlo!
E non c’è umorismo, vero e proprio umorismo, in tanti e tanti sonetti del Belli? E senza parlare delle figure del Maggi, il Giovannin Bongè, il Marchionn di gamb avert di Carlo Porta non son due capolavori d’umorismo? E, poichè si parla di tipi rimasti imperituri, il Monsù Travet del Bersezio, Il Nobilomo Vidal del Gallina? E un altro scrittore dialettale abbiamo, finora quasi del tutto ignoto, grandissimo: umorista vero, se mai ce ne fu, e — a farlo apposta — meridionalissimo, di Reggio Calabria: Giovanni Merlino, rivelato or sono circa dieci anni, in una conferenza4 da Giuseppe Mantica, suo conterraneo, che sarebbe stato anche lui un forte scrittore umorista se, nel breve corso della sua esistenza, la politica non lo avesse troppo presto distratto dalle lettere. Scrisse il Merlino i suoi libri per 55 lettori, che nomina uno per uno e divide in quattro categorie, imponendo a ciascuna di esse alcuni speciali obblighi in ricompensa del piacere loro procurato. Uno de’ suoi volumi, ancora tutti inediti, è detto: Miscellanea di varie cose sconnesse e piacevoli, «fatta per coloro che, avendo poco cervello, vogliono istruirsi sul modo più acconcio per perderlo interamente»; gli altri sono Memorie utili ed inutili ai posteri, ossia la vita di Giovanni Merlino del quondam Antonino di Reggio, principiata a 27 decembre 1789 e proseguita fino al 1850, composta di sette volumi. Vorrei poter citare per disteso il lungo Dialogo alla calabrese tra Domine Dio e Giovanni Merlino o il Conto con Domine Dio per dimostrare che umorista fosse il Merlino. Nell’attesa che gli eredi lo rendano a tutti noto pubblicando i volumi, rimando alla pubblicazione che il Mantica ha fatto di questi due impareggiabili Dialoghi, con la traduzione a fronte.
Questo, per la letteratura dialettale. Non scopre poi sul serio altro che ironia e satira l’Arcoleo negli scrittori italiani? Io penso a un certo Socrate immaginario d’un certo abbate del settecento; penso al Didimo chierico del Foscolo: ad alcune volate in prosa del Baretti; penso ai Promessi Sposi del Manzoni, tutto infuso di genuino umorismo;5 penso al Sant’Ambrogio del Giusti, vera poesia umoristica, unica forse tra le tante satiriche o sentimentali; penso a quei certi dialoghi e a quelle certe prosette del Leopardi; penso all’Asino e al Buco nel muro del Guerrazzi; penso al Fanfulla del D’Azeglio; penso a Carlo Bini; penso a quella tal cucina nel castello di Fratta delle Memorie d’un ottuagenario del Nievo; penso a Camillo De Meis, al Revere; e, poichè l’Arcoleo arriva fino a Marco Twain, penso al Re umorista, al Demonio dello stile, all’Altalena delle Antipatie, al Pietro e Paola, a Scaricalasino, all’Illustrissimo del Cantoni; al Demetrio Pianelli del De Marchi; penso ai poeti della scapigliatura lombarda e a tante note di schietto e profondo umorismo nelle liriche del Carducci e del Graf; penso ai tanti personaggi umoristici che popolano i romanzi e le novelle del Fogazzaro, del Farina, del Capuana, del Fucini, e anche ad alcune opere di più giovani scrittori, da Luigi Antonio Villari all’Albertazzi, al Panzini... ed ecco, la Lanterna di Diogene di quest’ultimo vorrei porre in una mano all’Arcoleo e nell’altra la candela del Candelajo del Bruno: son sicuro che parecchi scrittori umoristi scoprirebbe nella letteratura italiana antica e nuova.
Note
- ↑ Vedi Arcoleo; op. cit., pag. 94-95.
- ↑ Vedi in Studii drammatici (Torino, Loescher, 1878). Le tre commedie sono La Calandria, La Mandragola, il Candelajo.
- ↑ Certe tropologie del Bruno sono di un’efficacia senza pari; così, quando di un inetto ragionatore dice che è venuto armato di parole e scommi che si muojono di fame e di freddo. Certe comparazioni scolpiscono, come là dove di due prosuntuosi sapienti dice che l’uno parea il conestabile de la gigantessa dell’orco, l’altro l’amostante de la dea riputazione. Nella Cabala del Cavallo pegaseo così è descritto Don Cocchiarone, mistiriarca filosofo: «Don Cocchiarone pien d’infinita e nobil maraviglia sen va per il largo de la sua sala, dove rimosso dal rude ed ignobil volgo, se la spasseggia, e rimenando or quinci or quindi de la litteraria sua toga le fimbrie, rimenando or questo or quell’altro piede, rigettando or verso il destro or verso il sinistro fianco il petto, con il testo commento sotto l’ascella, e con gesto di voler buttar quel pulce ch’ha tra le due prime dita, in terra, con la rugata fronte cogitabondo, con erte ciglia et occhi arrotondati, in gesto d’un uomo fortemente maravigliato, conchiudendola con un grave et enfatico sospiro, farà pervenir a l’orecchio de’ circostanti questa sentenza: Hucusque alii Philosophi non pervenerunt.
- ↑ Vedi Giovanni Merlino, umorista, Napoli, Pierro, 1898.
- ↑ Vedi nella seconda parte la dimostrazione dell’umorismo di don Abbondio, che all’Arcoleo sembra una figura ridicola o comica senz’altro.