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126 | parte prima |
uno scrittore inglese, o magari la stessa Vita di Cicerone di Gian Carlo Passeroni!
Discorrevo, qualche anno fa, appunto di questo, con un cultissimo signore inglese, conoscitore profondo della letteratura italiana.
— Neanche nel Machiavelli? — mi domandava egli con meraviglia quasi incredula. — I vostri critici non riconoscono umorismo neanche nel Machiavelli? neanche nella novella di Belfegor?
Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro, che non andò mai a vestirsi nel guardaroba della retorica; che come pochi comprese la forza delle cose; a cui la logica venne sempre dai fatti; che contro ogni sintesi confusa reagì con l’analisi più arguta e più sottile; che ogni macchina ideale smontò coi due strumenti dell’esperienza e del discorso; che ogni esagerazione di forma distrusse col riso; pensavo che nessuno ebbe maggiore intimità di stile di lui e più acuto spirito d’osservazione; che poche anime furono come la sua disposte all’apprensione dei contrasti, a ricevere più profondamente l’impressione delle incongruenze della vita; pensavo che, parendo a molti un carattere dell’umorismo quella certa cura delle minuzie e una — come dice il D’Ancona — «a giudicarla astrattamente e a prima vista, trivialità e volgarità», anche egli, il Machiavelli, alla moltitudine talvolta si mescolò fino alla volgarità, tanto che scrisse: «Così involto tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per questa via per vedere se la se ne vergognassi»; ma anche:
Però se alcuna volta io rido o canto
Facciol perchè non ho se non quest’una
Via da sfogare il mi’ angoscioso pianto;
pensavo anche a un’acuta osservazione del De Sanctis, che cioè: «il Machiavelli adopera la tolleranza che