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122 parte prima

ho detto che il vero nodo della questione è appunto qui: cioè, se l’umorismo debba essere inteso nel senso largo con cui comunemente si suole intendere, e non in Italia soltanto; o in un senso più stretto e particolare, con peculiari caratteri ben definiti, che è per me il giusto modo d’intenderlo. Inteso in quel senso largo — ho detto — se ne può trovare in gran copia nella letteratura così antica come moderna d’ogni paese; inteso in questo senso stretto e per me proprio, se ne troverà parimenti, ma in molto minor copia, anzi in pochissime espressioni eccezionali, così presso gli antichi come presso i moderni d’ogni paese, non essendo prerogativa di questa o di quella razza, di questo o di quel tempo, ma frutto d’una specialissima disposizione naturale, d’un intimo processo psicologico, che può avvenire tanto in un savio dell’antica Grecia, come Socrate, quanto in poeta dell’Italia moderna, come Alessandro Manzoni.

Non è lecito però assumere a capriccio questo o quel modo d’intendere e applicar l’uno a una letteratura, per concludere che essa non ha umorismo, e applicar l’altro a un’altra per dimostrare che l’umorismo vi sta di casa. Non è lecito sentir soltanto negli stranieri, a causa della lingua diversa, quel particolar sapore, che per la familiarità dello stesso strumento espressivo non si avverte più nei nostri, ma nei quali intanto gli stranieri a lor volta lo avvertono. Così facendo, noi saremo i soli a non riconoscer traccia d’umorismo nella nostra letteratura, mentre vedremo gl’Inglesi, ad esempio, porre a capo della loro un umorista, il Chaucer, il quale, se mai, può esser considerato per tale, ove si assuma l’umorismo sul senso più largo, in quel senso cioè per cui può esser considerato quale umorista anche il Boccaccio e tanti altri scrittori nostri con lui.

Nessuna contradizione, dunque, da parte nostra. La contradizione invece è in coloro che, dopo aver affer-