L'umorismo/Parte seconda
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Essenza, caratteri e materia dell’umorismo
I
Che cosa è l’umorismo?
Se volessimo tener conto di tutte le risposte che si son date a questa domanda, di tutte le definizioni che autori e critici han tentato, potremmo riempire parecchie e parecchie pagine, e probabilmente alla fine, confusi tra tanti pareri e dispareri, non riusciremmo ad altro che a ripetere la domanda: — Ma, in somma, che cos’è l’umorismo?
Abbiamo già detto che tutti coloro, i quali, o di proposito o per incidenza, ne han parlato, in una cosa sola si accordano, nel dichiarare che è difficilissimo dire che cosa sia veramente, perchè esso ha infinite varietà e tante caratteristiche che, a volerlo descrivere in generale, si rischia sempre di dimenticarne qualcuna.
Questo è vero; ma è vero altresì che da un pezzo ormai avrebbe dovuto capirsi che partire da queste caratteristiche non è la via migliore per arrivare a intendere la vera essenza dell’umorismo, poichè sempre avviene che una se ne assuma per fondamentale, quella che si è riscontrata comune a parecchie opere o a parecchi scrittori studiati con predilezione; di modo che tante definizioni si vengono infine ad avere dell’umorismo, quante sono le caratteristiche riscontrate, e tutte naturalmente hanno una parte di vero, e nessuna è la vera.
Certamente, dalla somma di tutte queste varie caratteristiche e delle conseguenti definizioni si può arrivare a comprendere, così, in generale, che cosa sia l’umorismo; ma se ne avrà sempre una conoscenza sommaria ed esteriore, appunto perchè fondata su queste sommarie ed esteriori determinazioni incomplete.
La caratteristica, ad esempio, di quella tale peculiar bonarietà o benevola indulgenza che scoprono alcuni nell’umorismo, già definito dal Richter «malinconia d’un animo superiore che giunge a divertirsi finanche di ciò che lo rattrista»,1 quel «tranquillo, giocondo e riflesso sguardo su le cose», quel «modo d’accogliere gli spettacoli divertenti, che sembra, nella sua moderazione, soddisfare il senso del ridicolo e domandar perdono di ciò che v’è di poco delicato in tal compiacimento», quella tale «espansione degli spiriti dall’interno all’esterno incontrata e ritardata dalla corrente contraria d’una specie di benevolenza pensosa», di cui parla il Sully nel suo Essai sur le rire,2 non si trovano in tutti gli umoristi. Alcuni di questi tratti, che al critico francese, e non a lui soltanto, pajono principali dell’umorismo, si troveranno in alcuni, in altri no; e in certuni anzi si troverà il contrario, come ad esempio nello Swift, che è malinconico nel senso originario della parola, cioè pieno di fiele; e del resto noi vedremo un po’ più innanzi, parlando del don Abbondio del Manzoni, a che cosa in fondo si riduca quella peculiar bonarietà o simpatica indulgenza.
Al contrario, quella «acre disposizione a scoprire ed esprimere il ridicolo del serio e il serio del ridicolo umano», di cui parla il Bonghi, calzerà allo Swift e ad umoristi al pari di lui beffardi e mordaci; non calzerà ad altri; nè del resto, come osserva il Lipps, opponendosi alla teoria del Lazzarus, che considera anch’esso l’umorismo soltanto come una disposizione d’animo, questo modo di considerarlo è completo. Nè completo sarà quello del Hegel che lo dice «attitudine speciale d’intelletto e di animo onde l’artista si pone lui stesso al posto delle cose», definizione che, a non porsi bene a guardare da quel solo lato da cui l’Hegel lo guarda, ha tutta l’aria d’un rebus.
Caratteristiche più comuni, e però più generalmente osservate, sono la «contradizione» fondamentale, a cui si suol dare per causa principale il disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono o fra la vita reale e l’ideale umano o fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie, e per principale effetto quella tal perplessità tra il pianto e il riso; poi lo scetticismo, di cui si colora ogni osservazione, ogni pittura umoristica, e in fine il suo procedere minuziosamente e anche maliziosamente analitico.
Dalla somma, ripeto, di tutte queste caratteristiche e conseguenti definizioni si può arrivare a comprendere, così, in generale, che cosa sia l’umorismo, ma nessuno negherà che non ne risulti una conoscenza troppo sommaria. Che se accanto ad alcune determinazioni affatto incomplete, come abbiamo veduto, altre ve ne sono indubbiamente più comuni, l’intima ragione di esse non è poi veduta affatto con precisione nè spiegata.
Rinunzieremo noi a vederla con precisione e a spiegarla, accettando l’opinione di Benedetto Croce che nel Journal of comparative Literature (fasc. III, 1903) dichiarò indefinibile l’umorismo come tutti gli stati psicologici, e nel libro dell’Estetica lo annoverò tra i tanti concetti dell’estetica del simpatico? «L’indagine dei filosofi — egli dice — si è a lungo travagliata intorno a questi fatti, e specialmente intorno ad alcuni di essi, come, in prima linea, il comico, e poi il sublime, il tragico, l’umoristico e il grazioso. Ma bisogna evitar l’errore di considerarli come sentimenti speciali, note del sentimento, ammettendo così delle distinzioni e classi di sentimenti, laddove il sentimento organico per sè stesso non può dar luogo a classi; e bisogna chiarire in che senso possano dirsi fatti misti. Essi dan luogo a concetti complessi, ossia di complessi di fatti, nei quali entrano sentimenti organici di piacere e dispiacere (o anche sentimenti spirituali-organici), e date circostanze esterne che forniscono a quei sentimenti meramente organici o spirituali-organici un determinato contenuto. Il modo di definizione di questi concetti è il genetico: Posto l’organismo nella situazione a, sopravvenendo la circostanza b, si ha il fatto c. Questo e simili processi non hanno col fatto estetico nessun contatto: salvo quello generale che tutti essi, in quanto costituiscono la materia o la realtà, possono essere rappresentati dall’arte; e l’altro, accidentale, che in questi processi entrino talvolta dei fatti estetici, come nel caso dell’impressione di sublime che può produrre l’opera di un artista titano, di un Dante o di uno Shakespeare, o di quella comica del conato di un imbrattatele o di un imbrattacarte. Anche in questi casi il processo è estrinseco al fatto estetico: al quale non si lega se non il sentimento del piacere e dispiacere, del valore e disvalore estetico, del bello e del brutto».
Innanzi tutto, perchè sono indefinibili gli stati psicologici? E se l’umorismo è un processo o un fatto che dà luogo a concetti complessi, ossia di complessi di fatti, come diventa poi esso un concetto? Concetto sarà quello a cui l’umorismo dà luogo, non l’umorismo. Certamente se per fatto estetico deve intendersi quel che intende il Croce, tutto diviene estrinseco ad esso, non che questo processo. Ma noi abbiamo dimostrato altrove e anche nel corso di questo lavoro, che il fatto estetico non è nè può essere quel che il Croce intende. E, del resto, che significa la concessione che «questo e simili processi non hanno col fatto estetico nessun contatto, salvo quello generale che tutti essi, in quanto costituiscono la materia o la realtà, possono essere rappresentati dall’arte?» L’arte può rappresentare questo processo che dà luogo al concetto di umorismo. Ora, come potrò io, critico, rendermi conto di questa rappresentazione artistica, se non mi rendo conto del processo da cui risulta? E in che consisterebbe allora la critica estetica? «Se un’opera d’arte, — osserva il Cesareo nel suo saggio su La critica estetica appunto, — ha da provocare uno stato di animo, appar manifesto che tanto più pieno sarà l’effetto finale, quanto più intense e concordi vi coopereranno tutte le singole determinazioni. Anche in estetica la somma è in ragion delle poste. L’esame di tutte a una a una le particolari espressioni ci darà la misura dell’espressione totale. Or come la perfetta riproduzione d’uno stato d’animo, in cui per l’appunto consiste la bellezza estetica, è un fatto emozionale che può risultare soltanto dalla somma d’alcune rappresentazioni sentimentali, così l’analisi psicologica d’un’opera di poesia è il necessario fondamento di qualsiasi valutazione estetica».
Vediamo dunque, senz’altro, qual’è il processo da cui risulta quella particolar rappresentazione che si suol chiamare umoristica; se questa ha peculiari caratteri che la distinguono, e da che derivano: se vi è un particolar modo di considerare il mondo, che costituisce appunto la materia e la ragione dell’umorismo.
II
Ordinariamente, — ho già detto altrove,3 e qui m’è forza ripetere — l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le imagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea-madre che le coordina. La riflessione, durante la concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamente inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i varii elementi, li coordina, li compara. La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnatamente per l’artista, essa non è un lume distinto dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere in lei come in un tesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, in somma, non è una potenza creatrice; ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa sia il pensiero che vede sè stesso, assistendo a quello che esso fa spontaneamente. E, d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercè l’impressione che ne riceve.
Questo, ordinariamente. Vediamo adesso se, per la natural disposizione d’animo di quegli scrittori che si chiamano umoristi e per il particolar modo che essi hanno di intuire e di considerar gli uomini e la vita, questo stesso procedimento avviene nella concezione delle loro opere; se cioè la riflessione vi tenga la parte che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto una speciale attività. Ebbene, nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’imagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.
Ecco subito un esempio, che per la sua lampante chiarezza, si potrebbe dir tipico. Un poeta, il Giusti, entra un giorno nella chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, e vi trova un pieno di soldati,
Di que’ soldati settentrionali,
Come sarebbe boemi e croati,
Messi qui nella vigna a far da pali...
Il suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e duri son lì a ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono dell’organo: poi quel cantico tedesco lento lento,
D’un suono grave, flebile, solenne
che è preghiera e pare lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una disposizione insolita nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira politica e civile: determina in lui la disposizione propriamente umoristica: cioè, lo dispone a quella particolar riflessione che, spassionandosi del primo sentimento, dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno
la dolcezza amara
Dei canti uditi da fanciullo: il core
Che da voce domestica gl’impara,
Ce li ripete i giorni del dolore.
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e d’amore,
Uno sgomento di lontano esilio...
E riflette che quei soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,
A dura vita, a dura disciplina
Muti, derisi, solitari stanno,
Strumenti ciechi d’occhiuta rapina
Che lor non tocca e che forse non sanno.
Ed ecco il contrario dell’odio di prima:
Povera gente! lontana da’ suoi
In un paese qui che le vuol male...
Il poeta è costretto a fuggir dalla chiesa perchè
Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,
Colla su’ brava mazza di nocciuolo
Duro e piantato lì come un piuolo.
Notando questo, avvertendo cioè questo sentimento del contrario che nasce da una speciale attività della riflessione, io non esco affatto dal campo della critica estetica e psicologica. L’analisi psicologica di questa poesia è il necessario fondamento della valutazione estetica di essa. Io non posso intenderne la bellezza, se io non intendo il processo psicologico da cui risulta la perfetta riproduzione di quello stato d’animo che il poeta voleva suscitare, nella quale consiste appunto la bellezza estetica.
Vediamo ora un esempio più complesso, nel quale la speciale attività della riflessione non si scopra così a prima giunta; prendiamo un libro di cui abbiamo già discorso: il Don Quijote del Cervantes. Vogliamo giudicarne il valore estetico. Che faremo? Dopo la prima lettura e la prima impressione che ne avremo ricevuto, terremo conto anche qui dello stato d’animo che l’autore ha voluto suscitare. Qual’è questo stato d’animo? Noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato che maschera della sua follia sè stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l’ostacola: è un senso di commiserazione, di pena e anche d’ammirazione, sì, perchè se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico. Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da questa un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata; ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso, abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L’autore l’ha destato in noi perchè s’è destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le ragioni. Ebbene, perchè non si scopre qui la speciale attività della riflessione? Ma perchè essa — frutto della tristissima esperienza della vita, esperienza che ha determinato la disposizione umoristica nel poeta — si era già esercitata sul sentimento di lui, su quel sentimento che lo aveva armato cavaliere della fede a Lepanto. Spassionandosi di questo sentimento e ponendovisi contro, da giudice, nella oscura carcere della Mancha, ed analizzandolo con amara freddezza, la riflessione aveva già destato nel poeta il sentimento del contrario, e frutto di esso è appunto il Don Quijote: è questo sentimento del contrario oggettivato. Il poeta non ha rappresentato la causa del processo — come il Giusti nella sua poesia — ne ha rappresentato soltanto l’effetto, e però il sentimento del contrario spira attraverso la comicità della rappresentazione; questa comicità è frutto del sentimento del contrario generato nel poeta dalla speciale attività della riflessione sul primo sentimento tenuto nascosto.
Ora, che bisogno ho io d’assegnare un qualsiasi valore etico a questo sentimento del contrario, come fa Theodor Lipps nel suo libro Komik und Humor?
Cioè — intendiamoci bene — al Lipps veramente non si affaccia mai questo sentimento del contrario. Egli, da un canto, non vede che una specie di meccanismo così del comico come dell’umore: quello stesso che il Croce nella sua Estetica cita come un esempio di spiegazione accettabile di siffatti «concetti»: — «Posto l’organismo nella situazione a, sopravvenendo la circostanza b, si ha il fatto c.» — E, dall’altro canto, s’impaccia di continuo di valori etici, poichè per lui ogni godimento artistico ed estetico in genere è godimento di qualcosa che ha valore etico: non già come elemento di un complesso, ma come oggetto dell’intuizione estetica. E tira continuamente in ballo il valore etico della personalità umana, e parla di positivo umano e di negazione di esso. Egli dice: «Dass durch die Negation, die am positiv Menschlichen geschieht, dies positiv Menschliche uns näher gebracht, in seinen Wert offenbarer und fühlbarer gemacht wird, darin besteht, wie wir sahen, das allgemeinste Wesen der Tragik. Ebendarin besteht auch das allgemeinste Wesen des Humors. Nur dass hier die Negation anderer Art ist als dort, nämlich komische Negation. Ich sagte vom Naivkomischen, dass es auf dem Wege liege von der Komik zum Humor. Dies heisst nicht: die naive Komik ist Humor. Vielmehr ist auch hier die Komik als solche das Gegenteil des Humors. Die naive Komik entsteht, indem das vom Standpunkte der naiven Persönlichkeit aus Berechtigte, Gute, Kluge, von unserem Standpunkte aus im gegenteiligen Lichte erscheint. Der Humor entsteht umgekehrt, indem jenes relativ Berechtigte, Gute, Kluge aus dem Prozess der komischen Vernichtung wiederum emportaucht, und nun erst recht in seinem Werte einleuchtet und genossen wird». E poco più oltre: «Der eigentliche Grund und Kern des Humors ist überal und jederzeit das relativ Gute, Schöne, Vernünftige, das auch da sich findet, wo es nach unserem gewönlichen Begriffen nicht vorhanden, ja geflissentlich negiert erscheint». Dice anche: «in der Komik nicht nur das Komische in nichts zergeht, sondern auch wir in gewisser Weise, mit unserer Erwartung, unserem Glauben an eine Erhabenheit oder Grösse, den Regeln oder Gewohnheiten unseres Denkens u. s. w. «zu nichte» werden. Über dieses eigene Zunichtewerden erhebt sich der Humor. Dieser Humor, der Humor, den wir angesichts des Komischen haben, besteht schliesslich ebenso wie derjenige, den der Träger des bewusst humoristischen Geschehens hat, in der Geistesfreiheit, der Gewissheit des eigenen Selbst und des Vernünftigen, Guten und Erhabenen in der Welt, die bei aller objektiven und eigenen Nichtigkeit bestehen bleit, oder eben darin zur Geltung kommt». Ma è poi costretto a riconoscere egli stesso che «nicht jeder Humor diese höchste Stufe erreicht» e che vi ha «neben dem versöhnten, einen entzweiten Humor».
Ma che bisogno ho io, ripeto, di dare un qualsiasi valore etico a quello che ho chiamato il sentimento del contrario, o di determinarlo a priori in alcun modo? Esso si determinerà da sè, volta per volta, secondo la personalità del poeta o l’oggetto della rappresentazione. Che importa a me, critico estetico, di sapere in chi o dove stia la ragion relativa e il giusto e il bene? Io non voglio nè debbo uscire dal campo della fantasia pura. Io mi pongo dinanzi qualunque rappresentazione artistica, e mi propongo soltanto di giudicarne il valore estetico. Per questo giudizio, ho bisogno innanzi tutto di sapere lo stato d’animo che quella rappresentazione artistica vuol suscitare: lo saprò dall’impressione che ne ho ricevuto. Questo stato d’animo, ogni qual volta mi trovo innanzi a una rappresentazione veramente umoristica, è di perplessità: io mi sento come tenuto tra due: vorrei ridere, rido, ma il riso mi è turbato e ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa. Ne cerco la ragione. Per trovarla, non ho affatto bisogno di sciogliere l’espressione fantastica in un rapporto etico, di tirare in ballo il valore etico della personalità umana e via dicendo.
Trovo questo sentimento del contrario, qualunque esso sia, che spira in tanti modi dalla rappresentazione stessa, costantemente in tutte le rappresentazioni che soglio chiamare umoristiche. Perchè limitarne eticamente la causa, oppure astrattamente, attribuendola, ad esempio, al disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono fra la vita reale e l’ideale umano o fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie? Nascerà anche da questo, come da tantissime altre cause indeterminabili a priori. A noi preme soltanto accertare che questo sentimento del contrario nasce, e che nasce da una speciale attività che assume nella concezione di siffatte opere d’arte la riflessione.
III
Teniamoci a questo; seguiamo questa attività speciale della riflessione, e vediamo se essa non ci spiega ad una ad una tutte le varie caratteristiche, che si possono riscontrare in ogni opera umoristica.
Abbiamo detto che, ordinariamente, nella concezione d’un’opera d’arte, la riflessione è quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira. Volendo seguitar quest’imagine, si potrebbe dire che, nella concezione umoristica, la riflessione è, sì, come uno specchio, ma d’acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza: il friggere dell’acqua è il riso che suscita l’umorista; il vapore che n’esala è la fantasia spesso un po’ fumosa dell’opera umoristica.
— A questo mondo c’è giustizia finalmente! — grida Renzo, il promesso sposo, appassionato e rivoltato.
— Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica, — comenta il Manzoni.
Ecco la fiamma là del sentimento, che si tuffa qua e si smorza nell’acqua diaccia della riflessione.
Esteticamente e psicologicamente, l’umorismo può considerarsi come un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione: erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta.
La riflessione, assumendo quella sua speciale attività, viene a turbare, a interrompere il movimento spontaneo che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa. È stato tante volte notato che le opere umoristiche sono scomposte, interrotte, intramezzate di continue digressioni. Anche in un’opera così armonica nel suo complesso come I Promessi Sposi, è stato notato qualche difetto di composizione, una soverchia minuzia qua e là e il frequente interrompersi della rappresentazione o per richiami al famoso Anonimo o per l’arguta intrusione dell’autore stesso. Questo, che ai critici nostri è sembrato un eccesso per un verso, un difetto per l’altro, è poi la caratteristica più evidente di tutti i libri umoristici. Basta citare il Tristram Shandy dello Sterne, che è tutto quanto un viluppo di variazioni e digressioni, non ostante che l’autobiografo si proponga di narrar tutto ab ovo, punto per il punto, e cominci dall’alvo di sua madre e dalla pendola che il signor Shandy padre soleva puntualmente caricare.
Ma se questa caratteristica è stata notata, non se ne son vedute chiaramente le ragioni. Questa scompostezza, queste digressioni, queste variazioni non derivano già dal bizzarro arbitrio o dal capriccio degli scrittori, ma sono appunto necessaria e inovviabile conseguenza del turbamento e delle interruzioni del movimento organatore delle immagini per opera della riflessione attiva, la quale suscita un’associazione per contrarii: le imagini cioè, anzichè associate per similazione o per contiguità, si presentano in contrasto: ogni immagine, ogni gruppo d’immagini desta e richiama le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale, irrequieto, s’ostina a trovare o a stabilir tra loro le relazioni più impensate.
Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico, ma — si badi — un critico sui generis, un critico fantastico: e dico fantastico non solamente nel senso di bizzarro o di capriccioso, ma anche nel senso estetico della parola, quantunque possa sembrare a prima giunta una contraddizione in termini. Ma è proprio così; e però ho sempre parlato di una speciale attività della riflessione.
Questo apparirà chiaro quando si pensi che se, indubbiamente, una innata o ereditata malinconia, le tristi vicende, un’amara esperienza della vita, o anche un pessimismo o uno scetticismo acquisito con lo studio e con la considerazione su le sorti dell’umana esistenza, sul destino degli uomini, ecc. possono determinare quella particolar disposizione d’animo che si suol chiamare umoristica, questa disposizione poi, da sola, non basta a creare un’opera d’arte. Essa non è altro che il terreno preparato: l’opera d’arte è il germe che cadrà in questo terreno, e sorgerà, e si svilupperà nutrendosi dell’umore di esso, togliendo cioè da esso condizione e qualità. Ma la nascita e lo sviluppo di questa pianta debbono essere spontanei. Apposta il germe non cade se non nel terreno preparato a riceverlo, ove meglio cioè può germogliare. La creazione dell’arte è spontanea: non è composizione esteriore, per addizione d’elementi di cui si siano studiati i rapporti: di membra sparse non si compone un corpo vivo, innestando, combinando. Un’opera d’arte, in somma, è, in quanto è «ingenua»; non può essere il risultato della riflessione cosciente.
La riflessione, dunque, di cui io parlo, non è un’opposizione del cosciente verso lo spontaneo; è una specie di projezione della stessa attività fantastica: nasce dal fantasma, come l’ombra dal corpo; ha tutti i caratteri della «ingenuità» o natività spontanea; è nel germe stesso della creazione, e spira in fatti da essa ciò che ho chiamato il sentimento del contrario.
Ben per questo ho soggiunto che l’umorismo potrebbe dirsi un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione. La concezione dell’opera d’arte non è altro, in fondo, che una forma dell’organamento delle immagini. L’idea dell’artista non è un’idea astratta; è un sentimento, che divien centro della vita interiore, si impadronisce dello spirito, l’agita e, agitandolo, tende a crearsi un corpo d’immagini. Quando un sentimento scuote violentemente lo spirito, d’ordinario, si svegliano tutte le idee, tutte le immagini che son con esso in accordo: qui, invece, per la riflessione inserta nel germe del sentimento, come un vischio maligno, si sveglian le idee e le immagini in contrasto. È la condizione, è la qualità che prende il germe, cadendo nel terreno che abbiamo più su descritto: gli s’inserisce il vischio della riflessione; e la pianta sorge e si veste d’un verde estraneo e pur con essa connaturato.
IV
Per spiegarci la ragione del contrasto tra la riflessione e il sentimento, dobbiamo penetrar nel terreno in cui il germe cade, voglio dire nello spirito dello scrittore umorista. Che se la disposizione umoristica per sè sola non basta, perchè ci vuole il germe della creazione, questo germe poi si nutre dell’umore che trova. Lo stesso Lipps che vede tre modi d’essere dell’umore, cioè:
- a) l’umore, come disposizione, o modo di considerar le cose;
- b) l’umore, come rappresentazione;
- c) l’umore obiettivo;
conclude poi che in verità l’umore è soltanto in chi lo ha: soggettivismo e oggettivismo non sono altro che un diverso atteggiamento dello spirito nell’atto della rappresentazione. La rappresentazione cioè dell’umore, che è sempre in chi lo ha, può essere atteggiata in due modi: subiettivamente od obiettivamente.
Quei tre modi d’essere si presentano al Lipps perchè egli limita e determina eticamente la ragione dell’umorismo, il quale è per lui, come abbiamo già veduto, elevazione nel comico attraverso il comico stesso. Sappiamo che cosa egli intenda per elevazione. Io, secondo lui, ho umore, quando: «ich selbst bin der Erhabene, der sich Behaupttende, der Träger des Vernünftigen oder Sittlichen. Als dieser Erhabene oder im Lichte dieses Erhabenen betrachte ich die Welt. Ich finde in ihr Komisches und gehe betrachtend in die Komick ein. Ich gewinne aber schliesslich mich selbst, oder das Erhabene in mir, erhöht, befestigt, gesteigert wieder».
Ora questa per noi è una considerazione assolutamente estranea, prima di tutto, e poi anche unilaterale. Togliendo alla formula il valore etico, l’umorismo poi con essa riman considerato, se mai nel suo effetto, non nella causa.
Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d’animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringono a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce.
Questo stesso contrasto, che è nella disposizione d’animo, si scorge nelle cose e passa nella rappresentazione.
È una speciale fisionomia psichica, a cui è assolutamente arbitrario attribuire una causa determinante; può esser frutto d’una esperienza amara della vita e degli uomini, d’una esperienza che se, da un canto, non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un’allodola perchè lanci un trillo nel sole, senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spiccare il volo; dall’altro induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono sopportare; induce a riflettere che la vita, non avendo fatalmente per la ragione umana un fine chiaro e determinato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne abbia uno particolare, fittizio, illusorio, per ciascun uomo, o basso o alto; poco importa, giacchè non è, nè può essere il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessuno trova, forse perchè non esiste. Quel che importa è che si dia importanza a qualche cosa, e sia pur vana: varrà quanto un’altra stimata seria, perchè in fondo nè l’una nè l’altra daranno sodisfazione: tanto è vero che durerà sempre ardentissima la sete di sapere, non si estinguerà mai la facoltà di desiderare, e non è detto pur troppo che nel progresso consista la felicità degli uomini.
Tutte le finzioni dell’anima, tutte le creazioni del sentimento vedremo esser materia dell’umorismo, vedremo cioè la riflessione diventar come un demonietto che smonta il congegno d’ogni immagine, d’ogni fantasma messo su dal sentimento; smontarlo per veder com’è fatto; scaricarne la molla, e tutto il congegno striderne, convulso. Può darsi che questo faccia talvolta con quella simpatica indulgenza di cui parlan coloro che vedono soltanto un umorismo bonario. Ma non c’è da fidarsene, perchè se la disposizione umoristica ha talvolta questo di particolare, cioè questa indulgenza, questo compatimento o anche questa pietà, bisogna pensare che esse son frutto della riflessione che si è esercitata sul sentimento opposto; sono un sentimento del contrario nato dalla riflessione su quei casi, su quei sentimenti, su quegli uomini, che provocano nello stesso tempo lo sdegno, il dispetto, l’irrisione dell’umorista, il quale è tanto sincero in questo dispetto, in questa irrisione, in questo sdegno, quanto in quell’indulgenza, in quel compatimento, in quella pietà. Se così non fosse, si avrebbe non più l’umorismo vero e proprio, ma l’ironia, che deriva — come abbiamo veduto — da una contradizione soltanto formale, da un infingimento retorico, affatto contrario alla natura dello schietto umorismo.
Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell’umorista si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene in fine ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta l’umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla l’altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli parla e comincia a muovere ora una timida scusa, ora un’attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un’arguta riflessione che ne smonta la serietà e induce a ridere.
Così avviene che noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso un matto da legare Don Quijote; eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia per quello, e ad ammirare con infinita tenerezza le ridicolaggini di questo, nobilitate da un ideale così alto e puro.
Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi, e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sè anche la voce delle debolezze umane. Per la naturale disposizione dello spirito, per l’esperienza della vita, che gliel’ha determinata, il Manzoni non può non sdoppiare in germe la concezione di quell’idealità religiosa, sacerdotale: e tra le due fiamme accese di Fra Cristoforo e del Cardinal Federigo vede, terra terra, guardinga e mogia, allungarsi l’ombra di don Abbondio. E si compiace a un certo punto di porre a fronte, in contrasto, il sentimento attivo, positivo, e la riflessione negativa; la fiaccola accesa del sentimento e l’acqua diaccia della riflessione; la predicazione alata, astratta, dell’altruismo, per veder come si smorzi nelle ragioni pedestri e concrete dell’egoismo.
Federigo Borromeo domanda a don Abbondio: — «E quando vi siete presentato alla Chiesa per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che vi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più su la terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, della imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole ed è ubbidito! E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri fratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?»
Don Abbondio ascolta questa lunga e animosa predica a capo basso. Il Manzoni dice che lo spirito di lui «si trovava tra quegli argomenti come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata». Il paragone è bello, quantunque a qualcuno l’idea di rapacità e di fierezza che è nel falco sia sembrata poco conveniente al Cardinal Federigo. L’errore, secondo me, non è tanto nella maggiore o minor convenienza del paragone, quanto nel paragone stesso, per amore del quale il Manzoni, volendo rifar la favoletta d’Esiodo, s’è forse lasciato andare a dir quello che non doveva. Si trovava don Abbondio veramente sollevato in una regione sconosciuta tra quegli argomenti del Cardinal Borromeo? Ma il paragone dell’agnello tra i lupi si legge nel Vangelo di Luca, dove Cristo dice appunto a gli apostoli: «Ecco, io mando voi come agnelli tra i lupi». E chi sa quante volte dunque don Abbondio lo aveva letto; come in altri libri chi sa quante volte aveva letto quegli ammonimenti austeri, quelle considerazioni elevate. E diciamo di più: forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose. Tanto vero che, in astratto, egli le intende benissimo:
— Monsignore illustrissimo, avrò torto, — risponde infatti; ma s’affretta a soggiungere: — Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire.
E allorchè il Cardinale insiste:
— E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vivere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual’è la buona nuova che annunziate ai poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; chè a questo non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoperati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo».
— Anche questi santi son curiosi, — pensa don Abbondio: — in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote.
E poichè il cardinale è rimasto in atto di chi aspetti una risposta, risponde:
— Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare.
Il che significa appunto: — Sissignore, ragionando astrattamente, la ragione è dalla parte di Vossignoria Illustrissima; il torto sarà mio. Però Vossignoria Illustrissima parla bene, ma quelle facce le ho viste io, le ho sentite io quelle parole.
— Ma perchè dunque, — gli domanda in fine il Cardinale, — vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo?
Oh, il perchè noi lo sappiamo bene: il Manzoni stesso ce l’ha detto fin da principio; ce l’ha voluto dire e poteva anche farne a meno: Don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe privilegiata e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta.
In lotta dunque con le passioni del secolo? Ma se egli s’è fatto prete per guardarsi appunto dagli urti di quelle passioni e col suo sistema particolare di scansar tutti i contrasti!
Bisogna pure ascoltare, signori miei, le ragioni del coniglio! Io immaginai una volta che alla tana della volpe, o di Messer Renardo, com’essa si suol chiamare nel mondo delle favole, accorressero ad una ad una tutte le bestie per la notizia che tra loro s’era sparsa di certe controfavole che la volpe avesse in animo di comporre in risposta a tutte quelle che da tempo immemorabile gli uomini compongono, e da cui esse bestie han forse motivo di sentirsi calunniate. E tra le altre alla tana di Messer Renardo veniva il coniglio a protestare contro gli uomini che lo chiamano pauroso, e diceva: «Ma ben vi so dir io, Messer Renardo, che topi e lucertole e uccelli e grilli e tant’altre bestiole ho sempre messo in fuga, le quali, se voi domandaste loro che concetto abbiano di me, chi sa che cosa vi risponderebbero, non certo che io sia una bestia paurosa. Oh che forse pretenderebbero gli uomini che al loro cospetto io mi rizzassi su due piedi e movessi loro incontro per farmi prendere e uccidere? Io credo veramente, Messer Renardo, che per gli uomini non debba correre alcuna differenza tra eroismo e imbecillità!»
Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che Don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che pur di spuntare l’impegno egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel’avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dalla chiesa, e Renzo anch’egli ucciso. A che giovano l’intervento, il suggerimento di Fra Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di Monza? C’è la lega dei birboni, come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?
Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune pagine meravigliose esaminando il sentimento della paura nel povero curato; ma non ha tenuto conto di questo, perbacco: che il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente ragione d’aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dovere, dalla nequizia altrui, è reso difficilissimo, e però quel coraggio è tutt’altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al posto d’un eroe troviamo Don Abbondio. Noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui, cioè se in astratto consideriamo il ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto conto della minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non è l’eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha nè punto nè poco; e il coraggio, uno non se lo può dare!
Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz’altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialità e sa veder più a fondo, sente che il riso qui scaturisce da ben altro, e non è soltanto quello della comicità.
Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perchè, pur avendo, come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sè la riflessione che gli suggerisce che quest’ideale non si incarna se non per rarissima eccezione, e però lo obbliga a limitare quell’ideale, come osserva giustamente il De Sanctis. Ma questa limitazione dell’ideale che cos’è? è l’effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest’ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio è appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.
Bonarietà? Simpatica indulgenza? Andiamo adagio: lasciamo star codeste considerazioni, che sono in fondo estranee e superficiali, e che, a volerle approfondire, c’è il rischio che ci facciano anche qui scoprire il contrario. Vogliamo vederlo? Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio; ma è un compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio, necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui s’allarga il discredito del valore umano. Il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina in don Abbondio, tanto più si allarga e quasi vapora in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da questo lato la rappresentazione del curato manzoniano, noi non sappiamo più riderne. Quella pietà, in fondo, è spietata: la simpatica indulgenza non è così bonaria come sembra a tutta prima.
Gran cosa come si vede, avere un ideale — religioso, come il Manzoni; cavalleresco, come il Cervantes — per vederselo poi ridurre dalla riflessione in don Abbondio e in Don Quijote! Il Manzoni se ne consola, creando accanto al curato di villaggio Fra Cristoforo e il Cardinal Borromeo; ma è pur vero che, essendo egli sopra tutto umorista, la creatura sua più viva è quell’altra, quella cioè in cui il sentimento del contrario s’è incarnato. Il Cervantes non può consolarsi in alcun modo perchè, nella carcere della Mancha, con Don Quijote — come egli stesso dice — genera qualcuno che gli somiglia.
V
È un considerar superficialmente, abbiamo detto, e da un lato solo l’umorismo, il vedere in esso un particolar contrasto tra l’ideale e la realtà. Un ideale può esserci, ripetiamo; questo dipende dalla personalità del poeta; ma se c’è, ecco, è per vedersi decomposto, limitato, rappresentato a questo modo. Certamente, come tutti gli altri elementi costitutivi dello spirito d’un poeta, esso entra e si fa sentire nell’opera umoristica, le dà un particolar carattere, un particolar sapore; ma non è condizione imprescindibile: tutt’altro! chè anzi è proprio dell’umorista, per la speciale attività che assume in lui la riflessione, generando il sentimento del contrario, il non saper più da qual parte tenere, la perplessità, lo stato irresoluto della coscienza. E quest’appunto distingue nettamente l’umorista dal comico, dall’ironico, dal satirico. Non nasce in questi altri il sentimento del contrario; se nascesse, sarebbe reso amaro, cioè non più comico, il riso provocato nel primo dall’avvertimento d’una qualsiasi anormalità; la contraddizione che nel secondo è soltanto verbale, tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso, diventerebbe effettiva, sostanziale, e dunque non più ironica; e cesserebbe lo sdegno o, comunque, l’avversione della realtà che è ragione d’ogni satira.
Non che all’umorista però piaccia la realtà! Basterebbe questo soltanto, che per poco gli piacesse, perchè, esercitandosi la riflessione su questo suo piacere, glielo guastasse.
Questa riflessione s’insinua acuta e sottile da per tutto e tutto scompone: ogni imagine del sentimento, ogni finzione ideale, ogni apparenza della realtà, ogni illusione.
Il pensiero dell’uomo, diceva Guy de Maupassant, «tourne comme une mouche dans une bouteille». Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua.
Vogliamo assistere alla lotta tra l’illusione, che s’insinua anch’essa da per tutto e costruisce a suo modo; e la riflessione umoristica che scompone ad una ad una queste costruzioni?
Cominciamo da quella che l’illusione fa a ciascuno di noi, dalla costruzione cioè che ciascuno per opera dell’illusione si fa di sè stesso. Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d’incosciente imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.
Ora la riflessione, sì, può scoprire tanto al comico e al satirico quanto all’umorista questa costruzione illusoria. Ma il comico ne riderà solamente, contentandosi di svesciar questa metafora di noi stessi messa su dall’illusione spontanea; il satirico se ne sdegnerà; l’umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato serio e doloroso; smonterà questa costruzione ideale, ma non per riderne solamente; e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo, compatirà.
Il comico e il satirico sanno dalla riflessione quanta bava tragga dalla vita sociale il ragno dell’esperienza per comporre la ragna della mentalità in questo e in quell’individuo, e come in questa ragna resti spesso avviluppato ciò che si chiama il senso morale. Che cosa sono, in fondo, i rapporti sociali della così detta convenienza? Considerazioni di calcolo, nelle quali la moralità è quasi sempre sacrificata. L’umorista va più addentro, e ride senza sdegnarsi scoprendo come, anche ingenuamente, con la massima buona fede, per opera d’una finzione spontanea, noi siamo indotti a interpretar come vero riguardo, come vero sentimento morale, in sè, ciò che non è altro, in realtà, se non riguardo o sentimento di convenienza, cioè di calcolo. E va anche più in là, e scopre che può diventar convenzionale finanche il bisogno d’apparir peggiori di quello che si è realmente, se l’essere aggregati a un qualsiasi gruppo sociale importi che si manifestino idealità e sentimenti che sono proprii a quel gruppo, e che tuttavia a chi vi partecipa appariscono contrarii e inferiori al proprio intimo sentimento.4
La conciliazione delle tendenze stridenti, dei sentimenti ripugnanti, delle opinioni contrarie, sembra più attuabile su le basi d’una comune menzogna, che non su la esplicita e dichiarata tolleranza del dissenso e del contrasto; sembra, in somma, che la menzogna debba ritenersi più vantaggiosa della veracità, in quanto quella può unire, laddove questa divide; il che non impedisce che, mentre la menzogna è tacitamente scoperta e riconosciuta, si assuma poi a garanzia della sua efficacia associatrice la veracità stessa, facendosi apparire come sincerità l’ipocrisia.
La ritenutezza, il riserbo, il lasciar credere più di quanto si dica o si faccia, il silenzio stesso non scompagnato dalla sapienza dei segni che lo giustifichi (oh, indimenticabile Conte Zio del Consiglio segreto,5) sono arti che si usano di frequente nella pratica della vita; e così pure il non dare occasione che si osservi ciò che si pensa, il lasciar credere che si pensi meno di quanto si pensa effettivamente, il pretendere di essere creduti differenti da ciò che in fondo si è.
Notava il Rousseau nel Émile: «Si può fare ciò che si è fatto e non si doveva fare. Poichè un interesse maggiore può far sì che si violi una promessa che si era fatta per un interesse minore, ciò che importa è che la violazione avvenga impunemente. Il mezzo a questo fine è la menzogna, che può essere di due specie, potendo riguardare il passato, onde ci si dichiara autori di ciò che in realtà non facemmo, o essendone autori dichiariamo di non essere; — e potendo riguardare il futuro, come avviene quando ci facciamo promesse che si ha in animo di non mantenere. È evidente che la menzogna, nell’uno e nell’altro caso, sorge dai rapporti della convenienza, come mezzo a conservar l’altrui benevolenza e ad accaparrarsi l’altrui soccorso».
Quanto più difficile è la lotta per la vita e più è sentita in questa lotta la propria debolezza, tanto maggiore si fa poi il bisogno del reciproco inganno. La simulazione della forza, dell’onestà, della simpatia, della prudenza, in somma, d’ogni virtù, e della virtù massima della veracità, è una forma d’adattamento, un abile strumento di lotta. L’umorista coglie subito queste varie simulazioni per la lotta della vita; si diverte a smascherarle; non se n’indigna: — è così!
E mentre il sociologo descrive la vita sociale qual’essa risulta dalle osservazioni esterne, l’umorista armato del suo arguto intuito dimostra, rivela come le apparenze siano profondamente diverse dall’essere intimo della coscienza degli associati. Eppure si mentisce psicologicamente come si mentisce socialmente. E il mentire a noi stessi, vivendo coscientemente solo la superficie del nostro essere psichico, è un effetto del mentire sociale. L’anima che riflette sè stessa è un’anima solitaria; ma non è mai tanta la solitudine interiore che non penetrino nella coscienza le suggestioni della vita comune, con gl’infingimenti e le arti trasfigurative che la caratterizzano.
Vive nell’anima nostra l’anima della razza o della collettività di cui siamo parte; e la pressione dell’altrui modo di giudicare, dell’altrui modo di sentire e di operare, è risentita da noi inconsciamente: e come dominano nel mondo sociale la simulazione e la dissimulazione, tanto meno avvertite quanto più sono divenute abituali, così simuliamo e dissimuliamo con noi medesimi, sdoppiandoci e spesso anche moltiplicandoci. Risentiamo noi stessi quella vanità di parer diversi da ciò che si è, che è forma consustanziata nella vita sociale; e rifuggiamo da quell’analisi che, svelando la vanità, ecciterebbe il morso della coscienza e ci umilierebbe di fronte a noi stessi. Ma quest’analisi la fa per noi l’umorista, che si può dar pure l’ufficio di smascherare tutte le vanità, e di rappresentar la società, come fa appunto il Thackeray, quale una Vanity Fair.6
E l’umorista sa bene che anche la pretesa della logicità supera spesso di gran lunga in noi la reale coerenza logica, e che se ci fingiamo logici teoreticamente, la logica dell’azione può smentire quella del pensiero, dimostrando che è una finzione il credere alla sua sincerità assoluta. L’abitudine, l’imitazione incosciente, la pigrizia mentale concorrono a crear l’equivoco. E quand’anche poi alla ragione rigorosamente logica si aderisca, poniamo, col rispetto e l’amore verso determinati ideali, è sempre sincero il riferimento che facciamo di essi alla ragione? È sempre nella ragione pura, disinteressata, la sorgente vera e unica della scelta degli ideali e della perseveranza nel coltivarli? O invece non è più conforme alla realtà il sospettare che essi siano talora giudicati non già con un criterio obiettivo e razionale, ma piuttosto a seconda di speciali impulsi affettivi e di oscure tendenze?
Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparire della nostra individualità relativa; ma, nella realtà, quei limiti non esistono punto. Non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con pensieri ed affetti già da un lungo oblìo oscurati, cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che a un urto, a un tumulto improvviso nello spirito, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato. I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo.7 E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente. Certi ideali che crediamo ormai tramontati in noi e non più capaci d’alcuna azione nel nostro pensiero, su i nostri affetti, su i nostri atti, forse persistono tuttavia, se non più nella forma intellettuale, pura, nel sostrato loro, costituito dalle tendenze affettive e pratiche. E possono essere motivi reali di azione certe tendenze da cui ci crediamo liberati, e non aver per l’opposto efficacia pratica in noi, se non illusoria, credenze nuove che riteniamo di possedere veramente, intimamente.
E appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, — si domanda il Marchesini, — se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno sì che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e perfino opposte, più e opposte personalità?
Non c’è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da sè stesso nella successione del tempo.
La semplicità dell’anima contradice al concetto storico dell’anima umana. La sua vita è equilibrio mobile; è un risorgere e un assopirsi continuo di affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante fra termini contraddittorii, e un oscillare fra poli opposti, come la speranza e la paura, il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto e via dicendo. Se d’un tratto si disegna nell’imagine oscura dell’avvenire un luminoso disegno d’azione, o vagamente brilla il fiore del godimento, non tarda ad apparire, vindice dei diritti dell’esperienza, il pensiero del passato, non di rado cupo e triste; o interviene a infrenare la briosa fantasia il senso riottoso del presente. Questa lotta di ricordi, di speranze, di presentimenti, di percezioni, d’idealità, può raffigurarsi come una lotta d’anime fra loro, che si contrastino il dominio definitivo e pieno della personalità.
Ecco un alto funzionario, che si crede, ed è, poveretto, in verità, un galantuomo. Domina in lui l’anima morale. Ma un bel giorno, l’anima istintiva, che è come la bestia originaria acquattata in fondo a ciascuno di noi, spara un calcio all’anima morale, e quel galantuomo ruba. Oh, egli stesso, poveretto, egli per il primo, poco dopo, ne prova stupore, piange, domanda a sè stesso, disperato: — Come, come mai ho potuto far questo? — Ma, sissignori, ha rubato. E quell’altro là? Uomo dabbene, anzi dabbenissimo: sissignori, ha ucciso. L’idealità morale costituiva nella personalità di lui un’anima che contrastava con l’anima istintiva e pure in parte con quella affettiva o passionale; costituiva un’anima acquisita che lottava con l’anima ereditaria, la quale, lasciata per un po’ libera a sè stessa, è riuscita d’improvviso al furto, al delitto.
La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perchè noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto.
Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.
E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perchè proprio dobbiamo essere così, noi? — ci domandiamo talvolta allo specchio, — con questa faccia, con questo corpo? — Alziamo una mano, nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. Con quel gesto sospeso possiamo assomigliarci a una statua; a quella statua d’antico oratore, per esempio, che si vede in una nicchia, salendo per la scalinata del Quirinale. Con un rotolo di carta in mano, e l’altra mano protesa a un sobrio gesto, come pare afflitto e meravigliato quell’oratore antico d’esser rimasto lì, di pietra, per tutti i secoli, sospeso in quell’atteggiamento, dinanzi a tanta gente che è salita, che sale e salirà per quella scalinata!
In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sè stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la finzione colorata dei nostri sensi, oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poichè tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si profondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perchè sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? come portarle rispetto?
Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo? Un brutto naso? Che pena doversi portare a spasso un brutto naso per tutta la vita... Fortuna che, a lungo andare, non ce n’accorgiamo più. Se ne accorgono gli altri, è vero, quando noi siamo finanche arrivati a credere d’avere un bel naso; e allora non sappiamo più spiegarci perchè gli altri ridano, guardandoci. Sono tanti sciocchi! Consoliamoci guardando che orecchi ha quello e che labbra quell’altro; i quali non se n’accorgono nemmeno e hanno il coraggio di ridere di noi. Maschere, maschere... Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto là... Chi è? Correre alla morte con la stampella... La vita, qua, schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... Gamba di legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come può — la maschera esteriore. Perchè dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la montagna; vero il sasso; vero un filo d’erba; ma l’uomo? Sempre mascherato, l’uomo, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch’egli in buona fede si figura d’essere: bello, buono, grazioso, generoso, infelice, ecc. ecc. E questo fa tanto ridere, a pensarci. Sì, perchè un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli dànno un calcio se lo prende, perchè è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre: delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a sè stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio.
L’ajuta in questo una certa macchinetta infernale che la natura volle regalargli, aggiustandogliela dentro, per dargli una prova segnalata della sua benevolenza. Gli uomini, per la loro salute, avrebbero dovuto tutti lasciarla irrugginire non muoverla, non toccarla mai. Ma sì! Certuni si sono mostrati così orgogliosi e stimati così felici di possederla, che si son messi subito a perfezionarla, con zelo accanito. E Aristotile ci scrisse sopra finanche un libro, un leggiadro trattatello che si adotta ancora nelle scuole, perchè i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi. È una specie di pompa a filtro che mette in comunicazione il cervello col cuore.
La chiamano Logica i signori filosofi.
Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sè di caldo, di torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diviene idea astratta generale; e che ne segue? Ne segue che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma dobbiamo anche attossicarci la vita con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica. E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, pompano e filtrano, finchè il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio fra due stinchi in croce e la leggenda: Veleno.
L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo. E aggrava un male già grave per sè stesso. Perchè la prima radice del nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita. L’albero vive e non si sente: per lui la terra, il sole, l’aria, la luce, il vento, la pioggia, non sono cose che esso non sia. All’uomo, invece, nascendo è toccato questo triste privilegio di sentirsi vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di sè questo suo interno sentimento della vita, mutabile e vario.
Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne dono a gli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa vedere sperduti su la terra; essa projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse accesa in noi; ombra che noi però dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene viva in petto. Spenta alla fine dal soffio della morte, ci accoglierà davvero quell’ombra fittizia, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercè dell’Essere, che avrà rotto soltanto le vane forme della ragione umana? Tutta quell’ombra, l’enorme mistero, che tanti e tanti filosofi hanno invano speculato e che ora la scienza, pur rinunziando all’indagine di esso, non esclude, non sarà forse in fondo un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se tutto questo mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita? Se la morte fosse soltanto il soffio che spegne in noi questo sentimento penoso, pauroso, perchè limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia oltre il breve àmbito dello scarso lume che ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento di esilio che ci angoscia? Non è anche qui illusorio il limite, e relativo al poco lume nostro, della nostra individualità? Forse abbiamo sempre vissuto, sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo; non lo sappiamo, non lo vediamo, perchè purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa vedere soltanto quel poco a cui essa arriva.
E domani un umorista potrebbe raffigurar Prometeo sul Caucaso in atto di considerare malinconicamente la sua fiaccola accesa e di scorgere in essa alla fine la causa fatale del suo supplizio infinito. Egli s’è finalmente accorto che Giove non è altro che un suo vano fantasima, un miserevole inganno, l’ombra del suo stesso corpo che si projetta gigantesca nel cielo, a causa appunto della fiaccola ch’egli tiene accesa in mano. A un solo patto Giove potrebbe sparire, a patto che Prometeo spegnesse la candela, cioè la sua fiaccola. Ma egli non sa, non vuole, non può; e quell’ombra rimane, paurosa e tiranna, per tutti gli uomini che non riescono a rendersi conto del fatale inganno.
Così il contrasto ci si dimostra inovviabile, inscindibile, come l’ombra dal corpo. Noi l’abbiamo veduto, in questa rapida visione umoristica, allargarsi man mano, varcare i limiti del nostro essere individuale, ov’ha radice, ed estendersi intorno. Lo ha scoperto la riflessione, che vede in tutto una costruzione o illusoria o finta o fittizia del sentimento e con arguta, sottile e minuta analisi la smonta e la scompone.
Uno dei più grandi umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta. Si legga quel dialogo del Leopardi che s’intitola appunto dal canonico polacco.
Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio: altra macchinetta infernale, che può fare il pajo con quella che volle regalarci la natura. Ma questa l’abbiamo inventata noi, per non esser da meno. Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci veder piccolo, l’anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze.
Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: — Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?
Ma è anche vero che se poi egli si sente grande e un umorista viene a saperlo, gli può capitare come a Gulliver, gigante a Lilliput e balocco tra le mani dei giganti di Brobdignac.
VI
Da quanto abbiamo detto finora intorno alla speciale attività della riflessione nell’umorista, appare chiaramente che diverso per forza deve essere il procedimento dell’arte umoristica rispetto a quello dell’arte in genere.
Anch’essa l’Arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a fissar la vita: la fissa in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano?
L’arte, in genere, compone; l’umorismo decompone.
L’arte astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana a gli atti più inconsulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perchè non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un’altro, come volgano i casi della vita.
Sì, un poeta può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli non compone di quegli elementi un carattere; ma scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze.
L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi; egli, per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si diverte a scomporre; nè si può dir che sia un divertimento piacevole.
Il mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia: in camicia il re, che vi fa così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino; e non componete con troppa pompa nelle camere ardenti su catafalchi i morti, perchè egli è capace di non rispettar neppure questa composizione, tutto questo apparato; è capace di sorprendere, per esempio, in mezzo alla compunzione degli astanti, in quel morto lì, freddo e duro, ma decorato e in marsina, un qualche borboglìo lugubre nel ventre, e d’esclamare (poichè certe cose si dicono meglio in latino):
— Digestio post mortem.
Anche quei soldatacci austriaci della poesia del Giusti, di cui ci siamo occupati in principio, son veduti in fine dal poeta come tanti poveri uomini in camicia: sono spogliati cioè di quelle loro uniformi odiose, nelle quali il poeta vede un simbolo della schiavitù della patria. Quelle uniformi compongono nell’animo del poeta una rappresentazione ideale, della patria schiava; la riflessione scompone questa rappresentazione, spoglia quei soldati e vede in essi una torma di poveretti addogliati e derisi.
«L’uomo è un animale vestito, — dice il Carlyle nel suo Sartor Resartus, — la società ha per base il vestiario». E il vestiario compone anch’esso, compone e nasconde: due cose che l’umorismo non può soffrire.
La vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, irta di contraddizioni, pare all’umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano.
Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni. Ebbene, gli scrittori, in genere, non se n’avvalgono, o poco se ne curano, come se queste vicende, questi particolari non abbiano alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa tesoro invece l’umorista. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla terra? Ebbene, gli scrittori ordinariamente buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma l’umorista sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, contraddicono poi aspramente tutte quelle semplificazioni ideali, costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinarii. E l’impreveduto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui, nell’umorismo, tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le sintesi idealizzatrici dell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e delle contraddizioni, su cui l’opera sua si fonda, in opposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere.
Sono il frutto della riflessione che scompone. «Se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo, chi sa quali altre vicende avrebbe avuto il mondo». Ah questo se, questa minuscola particella che si può appuntare, inserire come un cuneo in tutte le vicende, quante e quali disgregazioni può produrre, di quanta scomposizione può esser causa, in mano d’un umorista come, ad esempio, lo Sterne, che dall’infinitamente piccolo vede regolato tutto il mondo!
Riassumendo: l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela, che non diventa, come ordinariamente nell’arte, una forma del sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il sentimento come l’ombra segue il corpo. L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura.
Nelle rappresentazioni comiche medievali del diavolo, troviamo uno scolare che per farsi beffe di lui gli dà ad acchiappare la propria ombra sul muro. Chi rappresentò questo diavolo non era certamente umorista. Quanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il Peter Schlemihl di Chamisso informi.
Note
- ↑ Del Richter si possono citare parecchie definizioni. Egli chiama anche l’umorismo «sublime a rovescio». La descrizione migliore, secondo il suo modo d’intenderlo, è quella a cui abbiamo già accennato altrove, parlando della diversità del riso antico dal riso moderno: «L’umore romantico è l’atteggiamento grave di chi compari il piccolo mondo finito con l’idea infinita: ne risulta un riso filosofico che è misto di dolore e di grandezza. È un comico universale, pieno di tolleranza cioè e di simpatia per tutti coloro che, partecipando della nostra natura, ecc. ecc.». Altrove parla di quella certa «idea che annienta», che ha avuto molta fortuna presso i critici tedeschi, anche applicata in un senso meno filosofico. Der Humor kann, dice il Lipps, schliesslich ein vollbewusster sein. Er ist ein solcher, wenn der Träger desselben sich sowohl des Rechtes, als auch der Beschränktheit seines Standpunktes, sowohl seiner Erhabenheit als auch seiner relativen Nichtigkeit bewusst ist.»
- ↑ Paris, Alcan, 1904, pag. 276.
- ↑ Vedi nel mio volume già citato Arte e Scienza il saggio Un critico fantastico.
- ↑ Mi avvalgo qui di alcune acute considerazioni contenute nel libro di Giovanni Marchesini, Le finzioni dell’anima (Bari, Gius. Laterza e Figli, 1905).
- ↑ «Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringere d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciar in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in prò. A segno che fino un: io non posso niente in questo affare, detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà, del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla: ma servono per mantenere il credito alla bottega».
- ↑ Lo stesso ufficio si dà il Thackeray anche nel Libro degli Snobs e in quella «Novella senza eroi, o vanità illuminate con le candele stesse dell’autore».
- ↑ Vedi nel libro di Alfredo Binet Les altérations de la personalité quella rassegna di meravigliosi esperimenti psico-fisiologici, da cui queste e tant’altre considerazioni si possono trarre, come notava già G. Negri nel libro Segni dei tempi.