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umoristi italiani 135

dare? Ma questo modo, veramente, tiene l’Arcoleo dal principio alla fine delle due conferenze: l’argomento è trattato così, a sprazzi, per sentenze inappellabili. Umorismo: fuoco d’artifizio di scoppiettanti definizioni; poi, prima fase: dubbio e scetticismo — «ridere del proprio pensiero» — Amleto; seconda fase, lotta e adattamento — «ridere del proprio dolore» — Don Giovanni. E tra gli umoristi della prima fase son citati due francesi, Rabelais e Montaigne, e due inglesi, Swift e Sterne; tra gli umoristi della seconda, due tedeschi, Richter e Heine, e tre inglesi, Carlyle, Dickens, Thackeray e poi... Marco Twain. Come si vede, nessun italiano. E dire che arriviamo fino a Marco Twain!

L’Arcoleo conclude così: «Lo spirito comico rimase avviluppato nell’embrione della commedia dell’arte o nella poesia dialettale; e molto e ricco sviluppo ebbero invece e in poesia e in prosa, in poemi, novelle, romanzi e saggi, l’ironia e la satira. Basta confondere con queste forme l’humour, perchè n’esca giudizio opposto al mio, o perchè io sembri esagerato e ingiusto. Non intendo parlare di tentativi o abbozzi; si trovano facilmente in ogni storia artistica e di ogni forma: ma io non so vedere fra noi una letteratura umoristica e all’uopo non avrei che a fare un paragone tra l’Ariosto e Cervantes».

Questo paragone l’abbiamo fatto noi, e con un giudizio non opposto a quello ch’egli avrebbe dato, se avesse fatto il paragone. Tra parentesi però, Cervantes — come Rabelais, come Montaigne — è un latino; e non crediamo che la Riforma propriamente in Spagna... Lasciamo andare! Veniamo in Italia. Noi non vogliamo affatto confondere lo spirito comico, l’ironia, la satira con l’umorismo: tutt’altro! Ma non si deve neanche confondere l’umorismo vero e proprio con l’humour inglese, cioè con quel tipico modo di ridere o umore che, come tutti gli altri popoli, hanno anche gl’Inglesi.