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134 parte prima

e acerbo derisore, anzi disprezzatore del suo tempo. Se fosse inglese o tedesco, sarebbe già da un pezzo nella barca anche lui e degno di starvi

a giudizio de’ savi universale.

Siamo sempre lì: in che senso si deve intendere l’umorismo?

L’Arcoleo, su la fine della sua seconda conferenza, dichiara di non essere incline a quella critica che, rispetto a forme letterarie, dispensa facilmente scomuniche e ostracismi; e dice che sono molto complesse le ragioni per le quali in Italia ebbe poca vita la forma umoristica, e che egli non vuol profanare quest’argomento che merita studio speciale. Quali sieno queste ragioni molto complesse, che al lume degli stessi esempii recati dall’Arcoleo appajono qua e là contraddittorie, abbiamo già veduto: da noi non c’è spirito d’osservazione nè intimità di stile, siamo pedanti e accademici, siamo scettici e indifferenti, non aspiriamo a nulla. Contro queste accuse, noi abbiamo citato parecchi nomi, che mai, neppure in un lampo, sono sorti in mente all’Arcoleo. Una sola volta, parlando del Heine in fin di vita, che ride del suo dolore, pensa, per combinazione, al Leopardi che si sentiva anche lui «un tronco che pena e vive» e al Brighenti scriveva: «Io sto qui deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, di maniera che se vi penso mi fa raccapricciare. Tuttavia mi avvezzo a ridere e ci riesco». Sì, ma «restò lirico», osserva, «l’educazione classica non gli permise di essere umorista»! Ma scrisse anche certi dialoghi, se non c’inganniamo, e certe altre prosette... Restò lirico anche lì? L’educazione classica... Ma almeno la tendenza romantica avrà permesso al Manzoni di essere umorista? Che! Il suo don Abbondio «non aspira a nulla, litiga tra il dovere e la paura; è ridicolo senz’altro». Non è questo un modo abbastanza spiccio di giudicare e man-