L'adulatore/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Don Sancio a sedere, Don Sigismondo in piedi.
Sigismondo. Eccellenza, ho formato il dispaccio per la Corte. Comanda di sentirlo?
Sancio. È lungo questo dispaccio?
Sigismondo. Mi sono ristretto più che ho potuto. Ecco qui, due facciate di lettera.
Sancio. Per ora ho poca volontà di sentirlo.
Sigismondo. Compatisco infinitamente Vostra Eccellenza: un cavaliere nato1 fra le ricchezze, allevato fra gli agi, pieno di magnifiche idee, soffre mal volentieri gl’incomodi. (Tutto ciò vuol dire ch’egli è poltrone). (da sè)
Sancio. Scrivete al Segretario di Stato, che mi duole il capo; e con un complimento disimpegnatemi dallo scrivere di proprio pugno.
Sigismondo. A me preme l’onore di Vostra Eccellenza quanto la mia propria vita. Se mi fa l’onore di riportarsi alla mia insufficienza nel formare i dispacci, ho piacere che di quel poco ch’io so, si faccia ella merito.
Sancio. Se vi ordino i dispacci, non è perchè non abbia io la facilità di dettarli, ma per sollevarmi da questo peso. Per altro so il mio mestiere, e la Corte fa stima delle mie lettere.
Sigismondo. (Appena sa scrivere). (da sè) Eccellenza sì: so quanto si esalti alla Corte, e per tutto il mondo, lo stile bellissimo, terso e conciso de’ di lei fogli. Io, dacchè ho l’onore di servirla in qualità di segretario, confesso aver appreso quello che per l’avanti non era a mia cognizione.
Sancio. Lasciatemi sentire il dispaccio.
Sigismondo. Obbedisco. (legge)
Sacra Real Maestà.
Da che la clemenza della M. V. mi ha destinato al governo di questa Città, si è sempre aumentato in me lo zelo ardentissimo di secondare le magnanime idee del mio adorato Sovrano, nell’esaudire le preci de’ suoi fedelissimi sudditi. Bramano questi instituire una Fiera in questa Città, da farsi due volte l’anno, ed hanno già disegnato il luogo spazioso e comodo per le botteghe e per li magazzini, facendo essi constare, che da ciò ne risulterà un profitto riguardevole alla Città, e un utile grandioso alle regie finanze. Mi hanno presentato l’ingiunto Memoriale, ch’io fedelmente trasmetto al trono della M. V., dalla di cui clemenza attendesi il favorevol rescritto, per consolar questi popoli intenti a migliorar la condizione del loro paese, e aumentare il real patrimonio...
Sancio. Fermatevi un poco. Io di questo affare non ne sono informato.
Sigismondo. Quest’è l’affare, per cui, giorni sono, vennero i Deputati della città per informare V. E., ed ella, che in cose più gravi e serie impiegava il suo tempo, ha comandato a me di sentirli, e raccogliere le istanze loro.
Sancio. Mi pare ch’essi venissero una mattina, in cui col mio credenziere stava disegnando un deser.
Sigismondo. Gran delicatezza ha V. E. nel disegno! In verità tutti restano maravigliati.
Sancio. In ogni pranzo che io do, sempre vedono un deser nuovo. I pezzi sono i medesimi, ma disponendoli diversamente, formano ogni volta una cosa nuova.
Sigismondo. Ingegni grandi, talenti felici!
Sancio. Ditemi2, quant’è che non avete veduto donna Aspasia?
Sigismondo. Ieri sera andai alla conversazione in sua casa.
Sancio. V’ha detto nulla di me?
Sigismondo. Poverina! Non faceva che sospirare.
Sancio. Sospirare? Perchè?
Sigismondo. V. E. se lo può immaginare.
Sancio. Sospirava forse per me?
Sigismondo. E chi è quella donna, che dopo aver trattato una volta o due con V. E., non abbia da sospirare?
Sancio. Voi mi adulate.
Sigismondo. Perdoni, aborrisco l’adulazione come il peccato più orribile sulla terra. Il marito di donna Aspasia è ancora presso la Corte, per impetrare da S. M. di poter venire colla sua compagnia a quartiere d’inverno a Gaeta.
Sancio. Come lo sapete?
Sigismondo. Evvi la lettera del Segretario di Stato.
Sancio. Io non l’ho letta. Che cosa dice?
Sigismondo. Egli ne dà parte a V. E., e siccome si sa alla Corte che don Ormondo, marito di donna Aspasia, aveva una inimicizia crudele col duca Anselmo, chiede per informazione se siano reconciliati, e se può temersi che il ritorno di don Ormondo alla patria, possa riprodurre de’ nuovi scandali.
Sancio. Mi pare che queste due famiglie sieno da qualche tempo pacificate.
Sigismondo. È verissimo.
Sancio. Dunque don Ormondo verrà a Gaeta.
Sigismondo. Piace a lei ch’egli venga?
Sancio. Se ho da dire il vero, non lo desidero molto.
Sigismondo. Ebbene, si vaglia della sua autorità. Risponda al Segretario di Stato, che la quiete di questa città esige che don Ormondo ne stia lontano. Con due righe d’informazione contraria al memoriale di don Ormondo, è fatto tutto.
Sancio. Fatele, ed io le sottoscriverò.
Sigismondo. Sarà ubbidita. (Giovami tenerlo occupato negli amori di donna Aspasia, per maneggiarlo a mio modo). (da sè)
Sancio. Ditemi, e voi come ve la passate con donna Elvira?
Sigismondo. Qualche momento che mi avanza, l’impiego volentieri nell’onesta conversazione di quella onoratissima dama.
Sancio. Mi dicono che suo marito sia molto geloso.
Sigismondo. Lodo infinitamente don Filiberto. Egli è un cavaliere onorato, e tutto fa ombra alla delicatezza del suo decoro.
Sancio. Mi pare però ch’egli non abbia gran piacere, che voi serviate la di lui moglie.
Sigismondo. Oh! la mi perdoni. Siamo amicissimi. Anzi vorrei pregare V. E. di una grazia in favor del mio caro amico.
Sancio. Dite pure, per voi farò tutto.
Sigismondo. L’affare contenuto in questo dispaccio preme sommamente alla città di Gaeta. Vi vuole a Napoli una persona che agisca e informi con del calore; onde bramerei ch’ella appoggiasse un tal carico a don Filiberto, e gli ordinasse portarsi immediatamente alla Corte, e là dimorasse sino alla consumazione di un tal affare.
Sancio. Bene, stendete il decreto, ch’io lo sottoscriverò.
Sigismondo. V. E. è sempre facile, è sempre clemente, quando si tratta di beneficare.
Sancio. Ditemi sinceramente, è tutta amicizia quella che vi sprona ad allontanare da Gaeta don Filiberto, o vi è un poco di speranza di migliorar la vostra sorte con donna Elvira?
Sigismondo. Oh! signore, le mie mire non sono di tal carattere.
Sancio. Parliamoci schietto. Nè meno io vedrei volentieri il ritorno di don Ormondo.
Sigismondo. V. E. non è capace di preferire il proprio piacere al pubblico bene.
Sancio. Ma la lontananza di don Ormondo mi giova.
Sigismondo. Che giovi a lei, è un accidente che non decide, ma giova moltissimo alla quiete della città, che colla di lui assenza si mette al sicuro dai torbidi, che produrrebbe la di lui presenza.
Sancio. Caro don Sigismondo, voi mi consolate. Con qualche rimorso m’induceva io a procurare l’allontanamento di don Ormondo; ma poichè voi mi assicurate che il farlo sia un atto di equità e di giustizia, pongo in quiete l’animo mio, e riposo sopra il vostro consiglio.
Sigismondo. Bella docilità, bella chiarezza di spirito, che apprende tutto con facilità, e discerne a prima vista il vero, il bene, la ragione ed il giusto!
Sancio. Potrei parlare con donna Aspasia?
Sigismondo. La faremo venire a Corte. La inviti a pranzo.
Sancio. Mia moglie che dirà?
Sigismondo. Ella non è dominata dallo spirito della gelosia, ma da quello dell’ambizione.
Sancio. La sua passione è l’invidia.
Sigismondo. Un marito saggio, come V. E., saprà correggerla.
Sancio. Non prendo cura della pazzia d’una donna.
Sigismondo. Fa benissimo. Pensi ognuno per sè.
Sancio. Qualche volta per altro mi fa venire la rabbia.
Sigismondo. Il marito alla fin fine comanda.
Sancio. Ma per goder la mia quiete, dissimulo e lascio correre.
Sigismondo. Oh bel naturale! Oh bel temperamento! Lasciar correre. Invidio una sì bella virtù.
Sancio. Quello che più mi pesa, è Isabella mia figlia. Ella cresce negli anni, e mi converrà collocarla.
Sigismondo. Certamente. Le figlie nubili non istanno bene alla Corte. Giacchè il conte Ercole la desidera, può liberarsene.
Sancio. Ma io non vorrei incomodarmi nel darle la dote.
Sigismondo. Sarebbe bella che V. E. avesse da incomodarsi per la figlia! Pensi a godere il mondo, che per la figlia non mancherà tempo.
Sancio. Ma, caro segretario, ella è alquanto semplice, non vorrei mi pericolasse.
Sigismondo. Oh! quand’è così, maritarla.
Sancio. La mariterei volentieri, ma non mi trovo in istato di scorporare da’ miei effetti la dote.
Sigismondo. Per amor del cielo, non incomodi la sua casa. Vede in che impegno si trova. Governatore di una città, pieno di credito, avvezzo a trattarsi.
Sancio. Ecco mia moglie. Non la posso soffrire.
Sigismondo. Per dirla, è un poco odiosetta.
Sancio. Voglio andar via.
Sigismondo. Vada; si liberi da una seccatura.
Sancio. Ma no, voglio trattarla con disinvoltura.
Sigismondo. Bravissimo! Felici quelli che sanno dissimulare. Io non sarei capace. Il mio difetto è questo; quello che ho in cuore, ho in bocca.
Sancio. Qualche volta bisogna fingere. Voi non sapete vivere.
Sigismondo. E verissimo, io non so vivere. V. E. ne sa assai più di me.
SCENA II.
Donna Luigia e detti3.
Luigia. Signor marito, signor Governatore, per quel ch’io vedo, siamo venuti a Gaeta per farci burlare.
Sancio. Perchè dite questo?
Luigia. In questa città capitano frequentemente de’ nobili napoletani col tiro a sei, e voi mi fate andare col tiro a quattro.
Sancio. Questi che hanno il tiro a sei, sono principi e duchi.
Luigia. Il Governatore deve essere più di loro.
Sancio. Io non mi voglio rovinare per complimento.
Luigia. Mandatemi a casa. Qui senza il tiro a sei non ci voglio stare.
Sancio. Segretario, dite la vostra opinione.
Luigia. Sì, dite voi, che siete un uomo di garbo.
Sigismondo. Perdonino, di queste cose non me n’intendo. (Tenga forte, dica di no). (piano a don Sancio)
Sancio. Orsù, non vi è bisogno d’altri discorsi. Donna Luigia, andiamo. Lasciate che il segretario vada a finire le sue incombenze.
Luigia. Voglio ch’egli risponda per me a questa lettera di premura4. (dà una lettera aperta al segretario)
Sancio. Risponderà poi; lasciatelo andare.
Luigia. La voglio adesso. (alterata)
Sancio. Se seguiterete a dire questa parola voglio, a Napoli vi rimanderò con poco vostro piacere. (parte)
SCENA III'5.
Donna Luigia e Don Sigismondo.
Luigia. Che dite, segretario, dell’indiscretezza di mio marito?
Sigismondo. In verità io mi sentiva agghiacciar il sangue.
Luigia. L’altre vanno col tiro a sei, ed io anderò col tiro a quattro?
Sigismondo. Sarebbe una mostruosità.
Luigia. Una dama della mia sorte?
Sigismondo. Una delle prime famiglie d’Italia.
Luigia. Una Governatrice?
Sigismondo. Ha da comparire con più pompa assai dell’altre.
Luigia. Il tiro a sei lo voglio assolutamente.
Sigismondo. È giusto: l’averà.
Luigia. Ditemi, con sessanta doppie troveremo6 due cavalli da accompagnare i quattro della mia carrozza?
Sigismondo. Li troveremo.
Luigia. Mi fareste voi il piacere di provvedermeli? Non mi fido d’altri che di voi.
Sigismondo. Grazie a V. E. della confidenza che ha di me. La servirò con tutta attenzione.
Luigia. Per dirvela, è venuto l’altr’ieri il cassiere della Comunità7; ha portate sessanta doppie; mio marito non c’era, l’ho prese io, e me ne voglio servire.
Sigismondo. Fa benissimo. Finalmente le impiega per onor proprio, e per onor della casa.
Luigia. Manco male che voi, che siete un uomo savio, me l’approvate.
Sigismondo. L’approvo, è verissimo; ma per amor del cielo, avverta, non dica nulla al padrone, perchè se mi prende in sospetto ch’io sia del di lei partito, non averò più la libertà di servirla.
Luigia. Dite bene, non lo saprà. Ecco le sessanta doppie, vi prego trovarmi presto questi due cavalli.
Sigismondo. Sarà immediatamente servita. Ma favorisca, in grazia, come va l’affare del Conte colla signora Isabella?
Luigia. Guardate che pazzia si è posta in capo quel caro Conte. Trovandosi egli di passaggio in Gaeta, e trattato da mio marito per una raccomandazione di Napoli, si è perdutamente innamorato di me. Vede ch’io son maritata, vede che dalla mia onestà non può sperar cosa alcuna, ed egli ha risoluto8 voler per moglie Isabella mia figlia.
Sigismondo. Segno ch’egli ama In V. E. la nobiltà del sangue, la virtù, la bontà, tutte cose che averà ella comunicate alla figlia.
Luigia. Ma vi pare ch’io possa avere una figlia da marito?
Sigismondo. Questo è quello che mi ha fatto maravigliare, quando ho sentito parlare di questo matrimonio. Come mai, diceva fra me medesimo, la mia padrona può avere una figlia da marito?
Luigia. È vero che io mi sono maritata di undici anni e mezzo, ma non sono altro che dieci anni, che ho marito.
Sigismondo. (E sua figlia ne ha diciotto). (da sè)
Luigia. Sarà un bel matrimonio ridicolo.
Sigismondo. Io giuoco che da V. E. alla signora Isabella non distingueranno chi sia la sposa.
Luigia. Tutti dicono che siamo sorelle.
Sigismondo. Ed io, sia detto con tutto il rispetto, se fossi un cavaliere e avessi a scegliere fra loro due, mi attaccherei più volentieri alla madre.
Luigia. Oh che caro segretario! Isabella non ha giudizio, e pure, quando sente parlare di matrimonio, si consola tutta.
Sigismondo. Di quell’età?
Luigia. Ora nascono colla malizia in corpo.
Sigismondo. Ma non è maraviglia, se si è maritata tanto bambina anche la madre.
Luigia. Don Sigismondo, siete amico voi del conte Ercole?
Sigismondo. Sì signora, egli mi ha fatte delle confidenze.
Luigia. È ricco?
Sigismondo. Moltissimo.
Luigia. Mi pare anche disinvolto e grazioso.
Sigismondo. Egli è romano, ed ha tutto il brillante di quel paese.
Luigia. Peccato ch’egli si perda con quella scimunita d’Isabella.
Sigismondo. Ma se V. E. è tanto rigorosa e severa, che nulla vuol avere di condescendenza per lui, credo lo faccia per una specie di disperazione.
Luigia. Sentite, faccio a voi una confidenza, che non la farei ad altra persona di questo mondo. Il Conte è una persona ch’io stimo e venero infinitamente; sono donna onorata; ma tutto quello che può sperarsi da una moglie nobile ed onestissima, forse forse l’averà egli da me.
Sigismondo. Perdoni la mia ignoranza; sono all’oscuro affatto di questa bellissima specie di condescendenza. Un cavaliere che ama, non so che cosa possa sperare da un’onestissima moglie.
Luigia. Non importa che voi lo sappiate. Fra il Conte e me c’intendiamo perfettamente.
Sigismondo. Dice bene; questi arcani non sono accessibili alla gente bassa.
Luigia. Bastami che voi, don Sigismondo, troviate il modo di farglielo gentilmente sapere.
Sigismondo. Lo farò con tutto lo spirito, con tutta la cautela.
Luigia. Non fate sinistro concetto di me, poichè vi assicuro che i miei sentimenti sono onestissimi.
Sigismondo. Di ciò ne sono più che certo. Ella ama onestissimamente il signor Contino.
Luigia. No9; non è l’amore, che m’induca a procurarmi l’acquisto del cuor del Conte. Ma il mio decoro non soffre vedermi ancor preferita la figlia. Può credere alcuno10 ch’ella sia in un’età da far ritirar la madre dal più bel mondo, ed io troppo presto11 altrui cedendo il mio loco, tradirei me stessa, calpestando il più bel fiore dell’età mia. Don Sigismondo, m’avete inteso. (parte)
Sigismondo. Bel carattere è questo! Invidiosa sino della propria figlia. Le madri amano i loro figliuoli, sin tanto che questi non recano danno alla loro ambizione; e il piacere che provano nel vedere i figli de’ loro figli, vien loro fieramente amareggiato da quel brutto nome di nonna. Ma si lasci la Governatrice co suoi catarri, e pensiamo a noi. Eccomi in una carriera che mi promette la mia fortuna, scortato dalla dolcissima adulazione. Questo è il miglior narcotico per assonnare gli spiriti più vigilanti. Eccomi con questa ingegnosa politica fatto padrone del cuore del Governatore, secondando la sua pigrizia, e di quello della di lui moglie, adulando la di lei invidiosa ambizione. Queste imprese sono a buon porto: non mi resta, per esser felice, che superare l’ostinata avversione di donna Elvira, la quale, troppo innamorata di suo marito, non soffre le mie adorazioni. Ma la staccherò dal suo fianco, la ridurrò in necessità d’aver bisogno di me, e otterrò forse dall’artifiziosa simulazione quello che sperare non posso dall’amore, dalla servitù e dal denaro medesimo, il quale suol essere per lo più la chiave facile per ispalancare ogni porta. (parte)
SCENA IV12.
Donna Isabella e Colombina con uno specchietto in mano.
Colombina. In verità, signora padroncina, che questa scuffia vi sta assai bene.
Isabella. È vero? Sto bene?
Colombina. Benissimo, e non13 potete star meglio. Io, in materia di far le scuffie, ho una mano tanto buona, che incontro l’aria di tutti i visi.
Isabella. Mi voglio un poco vedere.
Colombina. Ecco lo specchio, guardatevi.
Isabella. Uh, sto tanto bene. Tieni, Colombina, un bacino.
Colombina. Quando vi farete sposa, ve ne farò una ancora più bella.
Isabella. Io sposa?
Colombina. Certo che vi farete sposa.
Isabella. Quando?
Colombina. Presto.
Isabella. Domani?
Colombina. Oh! domani è poi troppo presto.
Isabella. Dopo domani?
Colombina. Che credete? Che il maritarsi sia come mangiare una zuppa?
Isabella. Eh! lo so che cosa vuol dir maritarsi.
Colombina. Sì? Che cosa vuol dire?
Isabella. Vuol dire, prender marito.
Colombina. Brava! siete spiritosa.
Isabella. So anche qualche cos’altro, ma non te lo voglio dire.
Colombina. Voi ne sapete più di me.
Isabella. E come! So.... Ma senti, non lo dir a nessuno.
Colombina. No, no, non parlerò.
Isabella. So che i matrimoni si fanno anche tra uomo e donna.
Colombina. Anche?
Isabella. Ma io con un uomo mi vergognerei.
Colombina. E pure vi è il signor conte Ercole, ch’è innamorato morto di voi.
Isabella. Di me?
Colombina. Sì, di voi.
Isabella. Poverino!
Colombina. Vi piace?
Isabella. È tanto carino.
Colombina. Lo prendereste per marito.
Isabella. Un uomo? Ho paura di no.
Colombina. Povera semplice che siete!
Isabella. Io semplice? Semplice è stata mia madre.
Colombina. Per che causa?
Isabella. Perchè ha preso un uomo e ho sentito dir tante volte, che per causa sua è quasi morta.
Colombina. Chi ve l’ha detto?
Isabella. La balia.
Colombina. Ecco la vostra signora madre.
Isabella. Zitto, non ci facciamo sentir parlare di queste cose.
SCENA V14
Donna Luigia e dette.
Luigia. Che si fa qui?
Isabella. Guardi, signora madre, come sto bene con questa scuffia.
Luigia. Chi ve l’ha fatta?
Isabella. Colombina.
Colombina. Sì, signora, io l’ho fatta; non istà bene?
Luigia. Per lei è troppo grande. Lascia vedere, me la voglio provare io.
Colombina. L’ho da levar di testa alla signorina?
Luigia. Gran cosa! Signora sì.
Isabella. No, cara signora madre.
Luigia. Sì, cara signora figlia. Animo, la voglio vedere.
Colombina. Via, bisogna obbedire.
Isabella. Ho tanta rabbia!
Luigia. Via, signorina, vi fate pregare?
Isabella. (La straccierei in mille pezzi). (da sè)
Colombina. Lasciate fare a me. (leva la scuffia ad Isabella) Eccola, Eccellenza. (Di tutto s’innamora, ha invidia di tutto). (da sè)
Isabella. (Quando sarò maritata, non mi caverà la scuffia). (da sè)
Luigia. (Osserva la scuffia che ha in mano.)
Isabella. Signora madre, la mia scuffia.
Luigia. Andate via.
Isabella. Ho da andar senza scuffia?
Luigia. Colombina, dammi una scuffia da notte.
Colombina. La servo. (va a prenderla in camera)
Isabella. (Se non fosse mia madre, gliela strapperei di mano). (da sè)
Colombina. Eccola. (dà la scuffia da notte a donna Luigia)
Luigia. Tenete, mettetevi questa. (la dà ad Isabella)
Isabella. Una scuffia da notte?
Luigia. Questa è bella e buona per voi.
Isabella. Per me? Grazie. (la getta, e parte)
SCENA VI15.
Donna Luigia e Colombina.
Luigia. Impertinente, sfacciatella. Presto, fammela venir qui.
Colombina. Cara signora padrona, convien compatirla; le piaceva tanto quella scuffia! Le stava tanto bene! Poverina. Le ha dato un dolor tanto grande.
Luigia. Voglio essere obbedita.
Colombina. Un’altra volta non sarà così.
Luigia. L’hai fatta tu questa scuffia?
Colombina. Eccellenza sì. Che dice? Non è ben fatta?
Luigia. Mi pare antica.
Colombina. In verità è all’ultima moda.
Luigia. Queste ale non mi piacciono.
Colombina. E pure si usano.
Luigia. Oibò, che brutta scuffia! Non mi piace.
Colombina. Se non le piaceva, poteva lasciarla a quella povera ragazza.
Luigia. Tu non sei buona da nulla.
Colombina. Pazienza. (Ho una rabbia, che la scannerei), (da sè)
Luigia. Tieni questa scuffia.
Colombina. La tengo.
Luigia. Dove hai ritrovati quei fiori?
Colombina. Mi sono stati donati.
Luigia. Chi te li ha dati?
Colombina. Il buffone16.
Luigia. Arlecchino? Il buffone te li ha dati? Fraschetta! Fai forse all’amore?
Colombina. Io non faccio all’amore. Mi ha usata questa finezza, perchè qualche volta do dei punti al suo abito buffonesco.
Luigia. Dammi quei fiori; li voglio io.
Colombina. Non sono fiori da pari sua. (Ha invidia anche di questi fiori). (da sè)
Luigia. Dammi, che li voglio.
Colombina. Eccoli, si serva. (Maledetta!) (da sè)
Luigia. Tutta fiori la signora graziosa!
Colombina. (Non ci starei, se mi desse due doppie al mese). (da sè)
Luigia. Il Conte dove si trova?
Colombina. Io l’ho veduto nel salotto, che beveva la cioccolata col padrone.
Luigia. Va a vedere dov’è, e s’egli è solo, digli che gli voglio parlare.
Colombina. La servo. (Poveri i miei fiori! Vuol tutto per lei, tutto per lei). (da sè)
Luigia. Oibò! Questi fiori puzzano. Non li voglio. (li getta in terra)
SCENA VII.
Arlecchino e detta.
Arlecchino. (Entra senza parlare, e va bel bello dove sono i fiori; li guarda con attenzione e sospira.)
Luigia. Chi ti ha insegnato le creanze? Vieni e non ti cavi il cappello?
Arlecchino. (Senza parlare prende i fiori, li osserva e sospira.)
Luigia. Ti spiace vedere strapazzati quei fiori, che tu hai donati alla tua favorita?
Arlecchino. (Sospirando e piangendo torna a buttar i fiori in terra, con una esclamazione.)
Luigia. Possibile che quei fiori ti facciano piangere e sospirare?
Arlecchino. No pianzo per quei fiori, no sospiro per lori.
Luigia. Dunque perchè fai tante smanie?
Arlecchino. Pianzo per vu, sospiro per causa vostra.
Luigia. Per me? Spiegati, per qual cagione?
Arlecchino. Quella povera rosa stamattina a bonora l’era bella, fresca e odorosa; adesso l’è fiappa17, pelada, strapazzada. Pianzo, perchè un zorno l’istesso sarà anca de vussignoria. (parte)
Luigia. Temerario briccone. Ehi, chi è di là?
SCENA VIII.
Brighella e detta.
Brighella. Eccellenza, cossa comandela?
Luigia. Presto, fa che si arresti il buffone e fagli dar delle bastonate.
Brighella. Per che causa, Eccellenza?
Luigia. Perchè mi ha perso il rispetto.
Brighella. La perdona, no sala che l’è un buffon? No se sa che i buffoni i perde el respetto anca a chi ghe dà da magnar? Ei patron lo protegge, e nol se pol bastonar.
Luigia. Mio marito è pazzo a mantener quel briccone.
Brighella. No l’è solo. Ghe n’è dei altri che stipendia della zente a posta per sentirse a strapazzar.
Luigia. Ed io a vero da soffrirlo?
Brighella. Eccolo qua che el torna.
Luigia. Ardisce ancora comparirmi dinanzi?
SCENA IX18.
Arlecchino con un nerbo, e detti.
Arlecchino. (Fa una riverenza alla Governatrice, poi presenta il nerbo a Brighella, senza parlare.)
Brighella. Coss’oio da far de sto nervo?
Arlecchino. Bastonarne mi.
Luigia. Sa il suo merito, quel briccone.
Brighella. Bastonarve? Perchè?
Arlecchino. Perchè ho dito una baronada. Ho paragona la patrona a una rosa fiappa e pelada. El paragon no va ben. Le rose, anca fiappe, le sa da bon; le donne, anca fresche, le manda cattivo odor. (parte)
Luigia. Ah, non posso più tollerarlo19.
Brighella. No la vada in collera. La sa che l’è un buffon.
Luigia. Costui vuol esser la rovina di questa nostra famiglia.
Brighella. Eh, Eccellenza, nol vol esser lu la rovina de sta Corte, ma un altro.
Luigia. E chi dunque?
Brighella. Se no gh’avesse paura de precipitarme, lo diria volentiera.
Luigia. Parla, e non temere.
Brighella. Son servitor antigo de casa; e succeda quel che sa succeder, no posso taser, e no devo taser. Per i mi patroni son pronto a sagrificar anca el sangue. La persona che tende alla rovina de sta fameia20, l’è el sior don Sigismondo.
Luigia. Come! Un uomo di quella sorte? Un uomo che fa tanto per noi? Così umile, così rispettoso, così interessato per i nostri vantaggi?
Brighella. L’è un adulator, l’è un omo finto; so mi quel che digo.
Luigia. Va via, sei una mala lingua.
Brighella. Col tempo e la paja se madura le nespole. Pol esser che un zorno la se recorda de ste mie parole.
Luigia. Sai cosa ha di male don Sigismondo? È un uomo economo. Suggerisce qualche volta le buone regole, e voi altri servitori non lo potete vedere.
Brighella. El suggerisce l’economia per i altri, per ingrassarse lu solo. L’è do mesi che no tiremo salario, nè cibarie, e me vien dito che sto sior economo abbia avudo l’ordene de pagarne.
Luigia. Orsù, basta così. Da un altro servitore non avrei sofferto tanto.
Brighella. Son trent’anni che servo in sta casa e me recordo quando el padron ha sposà Vostra Eccellenza vint’anni fa.
Luigia. Vent’anni sono? Pezzo d’asino, dov’hai la testa?
Brighella. Mo quanto sarà, Eccellenza?
Luigia. Undici, dodici anni al più.
Brighella. Se l’illustrissima siora Isabella la ghe n’ha disdotto.
Luigia. Sei una bestia: non è vero.
Brighella. Se l’ha lattada mia muier21.
Luigia. Animo, basta così.
Brighella. La perdoni... (Ecco qua: chi voi aver fortuna, bisogna adular. Se anca mi la savesse burlar, saria el so caro Brighella). (da sè, parte)
Luigia. Già questi servitori antichi di casa vogliono sempre sapere più dei padroni.
SCENA X22
’
Colombina e detta.
Colombina. Eccellenza, or ora il signor Conte verrà.
Luigia. Benissimo, non occorr’altro.
Colombina. (I miei fiori! Oh poveri i miei fiori!) (vedendoli in terra)
Luigia. Tira avanti due sedie.
Colombina. La servo. (nel metter l’ultima sedia, s’abbassa per prenderli)
Luigia. Lascia lì.
Colombina. (Col piede della sedia li pesta rabbiosamente.)
Luigia. Che cosa fai?
Colombina. Questa sedia non vuole star ritta. (come sopra)
Luigia. Eh rabbiosetta, veh!
Colombina. (Possano diventar tanti diavoli, che le saltino per il guardinfante). (da sè, parte)
Luigia. Non so se don Sigismondo avrà ancora parlato col Conte, a tenore del mio discorso. Basta, mi conterrò diversamente con lui, e s’egli ha della soggezione a dichiararsi per me, gli farò coraggio. Eccolo che viene.
SCENA XI.
Il Conte Ercole e detta.
Conte. Faccio umilissima riverenza alla signora Governatrice.
Luigia. Serva, signor Conte.
Conte. Avete riposato bene, signora, la scorsa notte?
Luigia. Un poco inquieta.
Conte. Che vuol dire? Avete qualche cosa che vi disturba?
Luigia. Da tre mesi in qua non trovo più la mia solita pace.
Conte. Tre mesi son per l’appunto, ch’io sono ospite in vostra casa. Non vorrei che la vostra inquietezza provenisse per mia cagione23.
Luigia. Conte, accomodatevi.
Conte. Obbedisco.
Luigia. (Vorrei ch’ei m’intendesse, senza parlare). (da sè)
Conte. Signora donna Luigia, che risposta mi date intorno alla signora donna Isabella?
Luigia. Avete voi parlato con don Sigismondo?
Conte. Da ieri in qua non l’ho veduto.
Luigia. Mi rincresce.
Conte. Aveva egli a dirmi qualche cosa per parte vostra?
Luigia. Per l’appunto.
Conte. Che bisogno c’è di parlar per interprete? Signora, se avete a dirmi cosa di qualche rimarco, ditemela da voi stessa.
Luigia. Vi dirà il segretario quello ch’io dir non oso.
Conte. Evvi qualche difficoltà?
Luigia. Se quei sentimenti che ho da voi raccolti, sono sinceri, tutto anderà a seconda de’ vostri desiri.
Conte. Tant’è vero che io parlo sinceramente, che ho già preparato l’anello.
Luigia. Per darlo a chi?
Conte. Alla signora donna Isabella.
Luigia. Alla signora donna Isabella?
Conte. Per l’appunto, alla mia sposa.
Luigia. Alla vostra sposa?
Conte. Signora, voi mi parlate con una frase, che non intendo.
Luigia. Sarà magnifico quest’anello.
Conte. Eccolo. L’ho portato da Roma. Vi sono dei diamanti più grandi, ma forse non ve ne saranno dei più perfetti.
Luigia. Favorite.
Conte. Osservate. (le dà l’anello)
Luigia. Veramente è assai bello. (se lo pone in dito) S’accomoda al mio dito perfettamente.
Conte. Spero starà egualmente bene in dito alla signora donna Isabella.
Luigia. Isabella è ancora troppo ragazza.
Conte. È vero, è ragazza; ma è in una età giustissima per farsi sposa.
Luigia. Credetemi, è ancor troppo presto. Che potete sperare da una, che non sa distinguere il ben dal male?
Conte. Spero ch’ella intenda il bene, senza conoscere il male.
Luigia. Conte, amate voi veramente Isabella?
Conte. L’amo con tutto il cuore.
Luigia. Parlatemi sinceramente; perchè l’amate?
Conte. Perchè è vezzosa, perchè è bella, perchè è savia, perchè è vostra figlia.
Luigia. L’amate perchè è mia figlia?
Conte. Così è; voi l’avete adornata di tutti quei pregi, di tutte quelle virtù che la rendono amabile.
Luigia. (Non m’ingannai; egli si è prima innamorato della madre, e poi della figlia). (da sè)
Conte. Ella ha sortito da voi la nobiltà di quel sangue...
Luigia. Il sangue poche volte innamora. Ditemi, Isabella vi pare che mi somigli?
Conte. Moltissimo. Ella è il vostro ritratto.
Luigia. Chi apprezza il ritratto, farà conto dell’originale.
Conte. Parmi, signora, avervi dati in ogni tempo dei24 contrassegni del mio rispetto25.
SCENA XII26.
Don Sigismondo e detti.
Sigismondo. Eccellenza, posso venire? (di dentro)
Luigia. Sì, venite, venite.
Sigismondo. Con permissione di vostra Eccellenza. (esce)
Luigia. Perchè non venire a dirittura?
Sigismondo. So il mio dovere.
Luigia. Per voi non vi è portiera.
Sigismondo. Grazie alla bontà di Vostra Eccellenza.
Conte. Riverisco il signor segretario.
Sigismondo. Servitor umilissimo di V. S. Illustrissima.
Conte. Sta bene?
Sigismondo. Ai comandi di V. S. Illustrissima.
Luigia. Volete nulla? (a Sigismondo)
Sigismondo. Eccola servita della risposta della lettera, che mi ha onorato di comandarmi.
Luigia. (Dite; avete detto nulla al Conte?) (piano a Sigismondo)
Sigismondo. (In verità, non ho avuto campo di servirla), (piano a Luigia)
Luigia. (Ditegli ora qualche cosa; frattanto leggerò questa lettera). (da sè) Conte, permettetemi ch’io legga questo foglio, che devo sottoscrivere.
Conte. Prendete il vostro comodo.
Luigia. (Operate da vostro pari. Fategli animo, acciò si dichiari per me, ma non avventurate il mio decoro e la mia onestà). (piano a Sigismondo)
Sigismondo. (So come devo contenermi).
Luigia. (Vedete quest’anello? Me l’ha dato il Conte). (come sopra)
Sigismondo. (Vostra Eccellenza meriterebbe tutte le gioje del mondo, poichè è la gioja più preziosa del nostro secolo).
Luigia. (Via, non mi burlate). (legge la lettera piano)
Sigismondo. (Signor Conte, frattanto che la padrona legge quel foglio, mi permette che possa dirgli due paroline?) (piano al Conte)
Conte. (Volentieri, eccomi da voi).
Sigismondo. (Mi dica, in grazia; ma perdoni se troppo m’avanzo...)
Conte. (Parlate liberamente).
Sigismondo. (Ama ella veramente la signora Isabella?)
Conte. (L’amo quanto me stesso).
Sigismondo. (L’ama per pura inclinazione, oppure per una specie d’impegno?
Conte. (L’amo perchè mi piace, perchè mi pare amabile, e niente mi sprona a farlo, fuorchè il desiderio di conseguirla in isposa).’
Sigismondo. (Eppure la signora donna Luigia si lusinga che V. S. Illustrissima...) (ride)
Conte. (Che cosa?)
Sigismondo. (Fosse... innamorata di lei).
Conte. (Oh, questa è graziosa! Pare a voi ch’io fossi capace d’una simile debolezza!)
Sigismondo. (So benissimo quanto sia grande la prudenza di. V. S. Illustrissima).
Conte. (Ch’io volessi tradire l’ospitalità? Insidiar l’onore di don Sancio, mio caro amico?)
Sigismondo. (Un cavaliere onorato non pensa così vilmente).
Conte. (E poi, che volessi preferire alla figlia la madre?)
Sigismondo. (Il signor Conte non è di questo cattivo gusto).
Conte. (Voi che mi consigliereste di fare?)
Sigismondo. (Darò a V. S. Illustrissima il consiglio più universale. Quando si compra, comprar giovine).
Conte. (Anch’io sono della stessa opinione).
Sigismondo. (Però ella ha donato l’anello alla signora donna Luigia).
Conte. (Donato? Non è vero. Ora me lo renderà).
Sigismondo. (Non faccia).
Conte. (Perchè l’ho da perdere?)
Sigismondo. (Non sa quel che dice il proverbio?)
Conte. (Che dice?)
Sigismondo. (Chi vuol bene alla figlia, accarezzi la mamma).
Conte. (È una carezza, che costa troppo).
Sigismondo. (La politica vuol così).
Conte. (Non vorrei con questa politica perder Isabella).
Sigismondo. (Si fidi di me).
Conte. (So che siete un galantuomo).
Sigismondo. (Son l’uomo più sincero di questo mondo).
Conte. (Ma presto ne voglio uscire).
Sigismondo. (Non ci pensi. Si lasci servire). (s’accosta a donna Luigia)
Conte. (Donna Luigia ha queste pazzie nel capo? Ora intendo gli enigmi de’ suoi graziosi discorsi).
Luigia. (Va bene?) (a don Sigismondo)
Sigismondo. (Benissimo).
Luigia. (Si è dichiarato?)
Sigismondo. (Apertamente).
Luigia. (Per me?)
Sigismondo. (Per Vostra Eccellenza).
Luigia. (Posso parlar liberamente?)27
Sigismondo. (Ancora no).
Luigia. (Perchè?)
Sigismondo. (Ha i suoi riguardi. Parleremo con comodo). Signor Conte, la mia padrona non è niente disgustata per le dichiarazioni che mi ha fatte.
Luigia. No, Conte, anzi starò più cheta, or che vi siete spiegato.
Conte. Io credeva essermi bastantemente spiegato alla prima.
Luigia. Eppure io non vi aveva capito.
Conte. O che non mi avete voluto capire.
Luigia. Può anche darsi, furbetto, può anche darsi.
Sigismondo. Due ingegni così sublimi si devono facilmente intendere.
Luigia. Guardate, don Sigismondo, il bell’anello che mi ha regalato il Conte.
Conte. Quello era destinato...
Sigismondo. Era destinato per la signora donna Luigia, nè doveva passare in altre mani che nelle sue.
Conte. Eppure...
Sigismondo. Eppure, quasi più... Basta, so io quel che dico.
Luigia. Lo so ancor io.
Conte. Anch’io v’intendo.
Sigismondo. Ecco, tutti tre c’intendiamo.
SCENA XIII28.
Brighella e detti.
Brighella. Eccellenza, l’è qua la signora donna Elvira, che desidera reverirla.
Luigia. Vi è nessun cavaliere con lei? (a Brighella)
Brighella. Eccellenza sì. Gh’è el signor...
Luigia. Ecco qui. Tutte hanno il cavaliere che le serve, ed io non l’ho. Conte, tocca a voi.
Brighella. La senta, Eccellenza: con la signora donna Elvira no gh’è miga nissun, se la m’intende. Gh’è sior don Filiberto so consorte.
Luigia. Vedete? I mariti delle altre vanno colle loro mogli; mio marito con me non viene mai; par che non mi possa vedere.
Sigismondo. (Ora per invidia le viene volontà anche di suo marito). (da sè)
Brighella. Sior don Filiberto l’è partido, e la siora donna Elvira l’è restada sola, e la desidera udienza da V. E.
Luigia. Dille che passi.
Brighella. Manco mal. (La servitù de donna Elvira dirà che mi gh’ho poca creanza). (da sè, parte)
Conte. Signora, con vostra buona licenza, vi levo l’incomodo.
Luigia. Perchè volete privarmi delle vostre grazie?
Conte. Il signor Governatore mi aspetta.
Luigia. Non so se l’attenzione che avete per lui, l’avete per me.
Conte. So la stima che devo a ciascheduno di voi; All’onore di riverirvi. (in atto di partire)
Luigia. Conte. L’appartamento di mio marito resta di qua. Di là si va nella camera d’isabella.
Conte. Ecco la dama che arriva. Non anderò nè di qua, nè di là. (parte per la porta di mezzo)
SCENA XIV29.
Donna Luigia e Don Sigismondo.
Luigia. Il Conte veramente mi ama, non mi vuol dar gelosia.
Sigismondo. Con permissione. (vuol partire)
Luigia. Perchè partite?
Sigismondo. Il mio dovere lo vuole.
Luigia. Credo non vi dispiacerà veder donna Elvira. Restate.
Sigismondo. Resterò per ubbidirvi, non già per altro.
Luigia. Sì sì, c’intendiamo.
SCENA XV30.
Donna Elvira e detti.
Elvira. Serva umilissima.
Luigia. Donna Elvira, vi riverisco31.
Sigismondo. Servitor ossequiosissimo della signora donna Elvira.
Elvira. Serva sua. (Costui non lo posso vedere). (da sè)
Luigia. Accomodatevi.
Elvira. Per ubbidirvi. (siedono)
Luigia. Don Sigismondo, sedete.
Sigismondo. Obbligatissimo alle grazie di V. E. (siede vicino a donna Elvira)
Luigia. Donna Elvira, dove avete comprata quella bella stoffa? (osservando il vestito di donna Elvira)
Elvira. A Napoli, mia signora.
Luigia. Oh! quanto mi piace questa stoffa.
Sigismondo. (A lei piace l’abito, e a me la persona). (da sè)
Luigia. Quanto l’avete pagata?
Elvira. Io credo averla pagata sei ducati il braccio.
Luigia. Come si potrebbe fare a trovarne della compagna?
Elvira. Si può scrivere a Napoli. Se comandate, vi servirò.
Luigia. Segretario, osservatelo, vi piace questo drappo?
Sigismondo. Mi piace infinitamente. (osservando donna Elvira nel viso, più che nell’abito)
Luigia. Vi pare che a quel prezzo si possa prendere?
Sigismondo. Non vi è oro, che possa pagare la sua bellezza. (come sopra)
Luigia. Siete voi di buon gusto?
Sigismondo. Così foss’io fortunato, come son di buon gusto.
Elvira. (Costui mi fa l’appassionato, ed io l’aborrisco). (da sè)
Sigismondo. Permetta, in grazia, che dia un’altra guardatina a quest’opera. (a donna Elvira, come sopra)
Elvira. Mi pare che l’abbiate veduta abbastanza.32. Signora Governatrice, sono venuta ad incomodarvi per supplicarvi di una grazia.
Luigia. Dove posso, vi servirò. Chi vi ha così bene assettato il capo?
Elvira. Il mio cameriere.
Luigia. Di dov’è?
Elvira. È francese.
Luigia. Lavora a maraviglia. Mi fareste il piacere di mandarlo da me?
Elvira. Sarete servita.33
Luigia. Segretario, osservate quel tuppè; può esser fatto meglio?
Sigismondo. È una cosa che incanta.
Elvira. (Sono ormai stufa). (da sè, si volta un poco)
Sigismondo. Signora, mi permetta.
Elvira. Queste sono osservazioni da donne.
Sigismondo. Eh! signora, quel ch’io vedo, è cosa più per uomo che per donna.
Elvira. Come sarebbe a dire?
Sigismondo. M’intendo dire che quel tuppè non è opera di donna, ma di un parrucchiere francese. (A suo tempo la discorreremo meglio). (da sè)
Elvira. Signora34, la grazia di cui sono a pregarvi, è questa. A Napoli35 ho data la commissione, perchè mi provvedessero un finimento di pizzi all’ultima moda, che sarà incirca venti braccia. Fu consegnato l’involto ad un vetturino; i birri lo hanno ritrovato e me l’hanno preso. Supplico la vostra bontà a intercedermi la grazia presso il signor Governatore, di poter riavere i miei pizzi.
Luigia. Sono belli questi pizzi?
Elvira. Devono essere de’ più belli. Costano quattro zecchini il braccio.
Luigia. Capperi! quattro zecchini?
Elvira. Così mi hanno mandato il conto. Ottanta zecchini, senza il porto.
Luigia. Ottanta zecchini in un fornimento di pizzi?
Elvira. Erano ordinati per le mie nozze e me li hanno spediti ora.36 Posso sperare di essere favorita?
Luigia. (Se sono belli, se sono alla moda, li voglio per me assolutamente). (da sè) Pensava al modo più facile per riaverli. Segretario, che dite? Li averemo noi facilmente?
Sigismondo. Ci vuol essere qualche difficoltà. Sopra le gabelle il signor Governatore non ha tutta l’autorità, poichè i finanzieri pagano un tanto alla Camera, e i contrabbandi diventano cosa loro.
Luigia. In quanto a questo poi, quando mio marito comanda, lo hanno da ubbidire.
Sigismondo. V. E. dice benissimo. (con una riverenza)
Luigia. Per facilitare dirò che questi pizzi sono miei, che li ho fatti venir io. Sarebbe bella che io non potessi far venire liberamente tutto quello ch’io voglio, senza dipendere dai gabellieri! Che dite, segretario?
Sigismondo. V. E. non può dir meglio. (Ingiustizie a tutt’andare). (da sè)
Luigia. (Non vedo l’ora di veder questi pizzi). (da sè) Attendetemi, donna Elvira, vado subito da mio marito, perchè dia l’ordine della restituzione.
Elvira. Spiacemi il vostro incomodo. Speriamo che il signor don Sancio farà la grazia?
Luigia. Oh! mio marito fa poi a modo mio.
Elvira. Anche negli affari del governo?
Luigia. In tutto. Grazie al cielo, ho un marito che non ha coraggio di dirmi di no. Egli comanda in apparenza, ed io comando in sostanza. (parte)
SCENA XVI37.
Donna Elvira e Don Sigismondo.
Elvira. Che38 buona dama è questa signora Governatrice!
Sigismondo. Non è dissimile il bel cuore di suo consorte, e l’uno e l’altra hanno della stima per la vostra nobilissima casa, e dell’amore particolare per il vostro degno consorte!
Elvira. Mio marito non merita nulla, e nulla ha fatto per il signor Governatore, che vaglia a lusingarmi della sua generosa parzialità.
Sigismondo. Eppure, senza ch’egli lo sappia, ha fatto a don Filiberto un beneficio, una grazia tale che agli altri darà motivo d’invidia.
Elvira. Che mai ha fatto egli per mio consorte?
Sigismondo. Sapete voi che ora si tratta di supplicar S. M. per la permissione delle due Fiere?
Elvira. Lo so benissimo.
Sigismondo. Il memoriale è disteso, il dispaccio è formato. Vi vuole alla Corte una persona che agisca, e il padrone ha eletto don Filiberto per un impiego sì degno e sì decoroso.
Elvira. Signor Segretario, avete voi operato nulla in questo affare in favore di mio marito, acciò egli se ne vada alla Corte?
Sigismondo. Siccome lo amo e lo venero infinitamente, non ho mancato di far per esso de’ buoni uffici presso del mio padrone.
Elvira. Già me ne avvedo. Ma spero che mio marito ringrazierà il signor don Sancio e ne sarà dispensato.
SCENA XVII39.
Donna Luigia e detti.
Luigia. La grazia è fatta. Ecco l’ordine per riavere i pizzi.
Elvira. In verità sono consolatissima. Quando li avremo?
Luigia. Or ora manderò il maestro di casa con quest’ordine, e li daranno.
Elvira. Quanto vi sono obbligata!
Luigia. (Non vedo l’ora di vederli). (da sè)
Elvira. Vi sarà alcuna spesa? Supplirò a tutto.
Luigia. Non avete a spendere un soldo.
Sigismondo. Può essere che i gabellieri vogliano il dazio.
Luigia. Che dazio! Quando comando io, è finita.
Sigismondo. V. E. dice benissimo.
Elvira. Ma quando li vedremo questi pizzi?
Luigia. Aspettate. Chi è di là? Dove sono costoro? Non vi è nessuno?
Sigismondo. Comanda? La servirò io.
Luigia. Isabella, Colombina, dove diavolo sono? (chiama)
Sigismondo. (Senta. Non vorrei che la signora donna Isabella con Colombina... Basta, parlo col dovuto rispetto). (in disparte, a donna Luigia)
Luigia. (Che fossero col Conte?)
Sigismondo. (Chi sa? Si potrebbe dare).
Luigia. (Voglio andar a vedere).
Sigismondo. (Eccellenza sì, vada, e se ne assicuri).
Luigia. (Se fosse vero!)
Sigismondo. (Vada subito, e con cautela).
Luigia. Donna Elvira, attendetemi, che ora torno.
Elvira. Vi servirò, se vi contentate.
Luigia. Trattenetevi. Vado in luogo, dove mi conviene andar sola.
Elvira. Signora, mi volete lasciar qui...
Luigia. Don Sigismondo vi terrà compagnia.
Elvira. Ma io, signora..
Luigia. Vengo subito, vengo subito. (parte)
SCENA XVIII40.
Donna Elvira e Don Sigismondo.
Sigismondo. Che vuol dire, signora donna Elvira? Ha tanta paura a restar sola con me?
Elvira. Io non ho alcun timore, ma la convenienza lo richiederebbe...
Sigismondo. Sono un uomo onorato.
Elvira. Per tale vi considero.
Sigismondo. Sono ammiratore del vostro merito.
Elvira. Non ho merito alcuno, che esiga da voi nè stima, nè ammirazione.
Sigismondo. E sono... (con tenerezza)
Elvira. Don Sigismondo, basta così.
Sigismondo. Permettetemi che dica una sola cosa, e poi ho finito. E sono un adoratore della vostra bellezza.
Elvira. Se prima mi avete adulata, ora mi avete offesa.
Sigismondo. Le adorazioni d’un cuor amante non offendono mai la persona amata. Voi non potete impedirmi ch’io vi ami. In vostro arbitrio solo sta il corrispondermi.
Elvira. Questo non lo sperate giammai.
Sigismondo. Non potete nemmeno vietarmi ch’io lo speri.
Elvira. Sì, ve lo posso vietare. Una donna onorata fa disperar chi che sia di ottener cosa alcuna, che pregiudichi al suo decoro.
Sigismondo. Aspettate. Io non voglio sperare che voi mi amiate, ma voglio lusingarmi d’un’altra cosa.
Elvira. E di che?
Sigismondo. Che voi lascierete tutti questi pregiudizi; che diverrete col tempo meno selvatica, e un poco più compiacente.
Elvira. Chi si lusinga di ciò, pensa temerariamente di me. (alterata)
Sigismondo. Vedete se principiate a scaldarvi? Al fuoco dello sdegno succede spesse volte quel dell’amore.
Elvira. Don Sigismondo, abbiate più rispetto per le dame41 onorate.
Sigismondo. Mi pare di rispettarvi, qualora vi venero, vi stimo e teneramente vi amo.
Elvira. E qualche tempo che mi andate importunando, ed io non l’ho fatto sapere a don Filiberto, per non rovinarvi: guardatevi di non provocarmi più oltre.
Sigismondo. Io ho sempre sentito dire, che si odiano i nemici, non quelli che amano.
Elvira. Chi mi ama, come voi, è mio inimico.
Sigismondo. Ma sapete voi come vi amo?
Elvira. Già me l’immagino.
Sigismondo. Se vi figurate l’amor mio disonesto, siete più maliziosa di me. Vi amo onestissimamente, con un amore il più innocente, il più platonico che dar si possa.
Elvira. Siccome adulate tutti, adulerete anche voi medesimo.
Sigismondo. Giuro sull’onor mio, che dico la verità.
Elvira. Non ama il proprio onore, chi tende insidie all’altrui.
Sigismondo. Giuro su questa bellissima mano...
Elvira. Temerario! Non posso più tollerarvi. O cangiate stile con me, o vi farò pentire dell’ardir vostro. Son dama, son moglie, sono onorata. Tre titoli, che esigono da voi rispetto. Tre condizioni, che vi faranno tremare. (parte)
Sigismondo. Tre ragioni, che non mi spaventano niente affatto.42
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Ed. Bettin.: come lei, nato.
- ↑ Bett.: Ditemi un poco.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: Sigismondo fa delle riverenze a D. Luigia.
- ↑ Bett.: di complimento.
- ↑ È unita nell’ed. Bett. alla scena preced.
- ↑ Bett.: troveremmo.
- ↑ Bett.: il fattore.
- ↑ Bett.: si è risolto.
- ↑ Bett.: No assolutamente.
- ↑ Bett.: Se io perdo gli adoratori e lei li acquista, crederà alcuno ecc.
- ↑ Bett.: perderò troppo presto il credito e troppo presto ecc.
- ↑ Sc. III nell’ed. Bett.
- ↑ Bett.: Benissimo che non.
- ↑ Sc. IV nell’ed. Bett.
- ↑ È unito nell’ed. Bett. alla scena preced.
- ↑ Bett. aggiunge: di Corte.
- ↑ Fiappa, passa. [nota originale]
- ↑ Sc. VII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett. ha invece: Ah scellerato! Ah indegno!
- ↑ Famiglia. [nota originale]
- ↑ Moglie. [nota originale]
- ↑ Sc. VIII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett.: da me.
- ↑ Bett. aggiunge: chiari.
- ↑ Segue nell’ed. Bettinelli: «Luig. Sì, è vero. V’ho inteso, ma ho dovuto fingere di non intendervi. Con. Ed io che credevo di non esser inteso, mi sono spiegato colla signora Isabella. L. Avete fatto malissimo. C. Per che causa? L. Perchè Isabella non è che una copia, ed io sono l’originale. C. È una copia per altro tanto perfetta, che credo non gli manchi nulla per una sposa. L. Le manca una cosa essenziale. C. E che cosa mai? L. La cognizione del vostro merito. C. Non può distinguere in me quel merito ch’io non ho. L. Io per altro conosco quello che non conosce Isabella. C. Se vi è qualche cosa di buono in me, che voi lo conosciate e lei no, fatemi la grazia di renderla in mio vantaggio avvertita. L. Fatica inutile. C. Per qual ragione? L. Isabella non si ha da maritare per ora. C. Il signor D. Sancio me ne ha data parola. L. Mio marito non sa quello che so io. C. Signora, se voi come madre sapete qualche cosa di più, mi rassegno. Se la signora Isabella non è da marito, vi vuol pazienza».
- ↑ Sc. X nell’ed. Bettinelli.
- ↑ Nelle edd. Pasquali e Zatta, forse per errore, segue subito: «Sigism. Signor Conte, la mia padrona ecc.».
- ↑ Sc. XI nell’ed. Bett.
- ↑ È unita alla scena preced. nell’ed. Bett.
- ↑ Sc. XII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett.: Riverisco la signora D. Elvira.
- ↑ Segue nell’ed. Bett.: «Sig. Bel drappo, e bravissimo sarto! Mi piace la stoffa, ma il taglio mi piace più. Elv. Signora Govematrice ecc.».
- ↑ Segue in Bett.: «Luig. Spero non avrete difficoltà di cedermelo. (Lo voglio aver per me sola). Elv. Signora, quando vuole, lo manderò a servirla. Luig. No no, lo voglio io assolutamente. Elv. (Questa poi mi dispiace assaissimo). Luig. Segretario, osservate ecc.».
- ↑ Bett.: È così, signora.
- ↑ Bett.: Sappiate che a Napoli.
- ↑ Bett. aggiunge: Più tosto, se occorre pagare il dazio, si pagherà.
- ↑ È unita nell’ed. Bett. alla scena preced.
- ↑ Bett.: Gran.
- ↑ Sc. XIII nell’ed. Bett.
- ↑ È unita nell’ed. Bett. alla scena preced.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: donne.
- ↑ Segue nell’ed. Bett.: Se è nobile, è soggetta anch’essa alle umane passioni. Se è moglie, talvolta si può scordar del marito. Se è onorata, tutte le donne che facilitano, prima sono state onorate. I di lei sdegni m’impegnano piucchè mai, sapendo che più riescono care quelle vittorie, le quali hanno costato più fatica e più stento, ed è più dolce l’amore, dopo le sdegnosette ripulse d’una bellezza ritrosa.