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440 | ATTO PRIMO |
Sigismondo. Li troveremo.
Luigia. Mi fareste voi il piacere di provvedermeli? Non mi fido d’altri che di voi.
Sigismondo. Grazie a V. E. della confidenza che ha di me. La servirò con tutta attenzione.
Luigia. Per dirvela, è venuto l’altr’ieri il cassiere della Comunità1; ha portate sessanta doppie; mio marito non c’era, l’ho prese io, e me ne voglio servire.
Sigismondo. Fa benissimo. Finalmente le impiega per onor proprio, e per onor della casa.
Luigia. Manco male che voi, che siete un uomo savio, me l’approvate.
Sigismondo. L’approvo, è verissimo; ma per amor del cielo, avverta, non dica nulla al padrone, perchè se mi prende in sospetto ch’io sia del di lei partito, non averò più la libertà di servirla.
Luigia. Dite bene, non lo saprà. Ecco le sessanta doppie, vi prego trovarmi presto questi due cavalli.
Sigismondo. Sarà immediatamente servita. Ma favorisca, in grazia, come va l’affare del Conte colla signora Isabella?
Luigia. Guardate che pazzia si è posta in capo quel caro Conte. Trovandosi egli di passaggio in Gaeta, e trattato da mio marito per una raccomandazione di Napoli, si è perdutamente innamorato di me. Vede ch’io son maritata, vede che dalla mia onestà non può sperar cosa alcuna, ed egli ha risoluto2 voler per moglie Isabella mia figlia.
Sigismondo. Segno ch’egli ama In V. E. la nobiltà del sangue, la virtù, la bontà, tutte cose che averà ella comunicate alla figlia.
Luigia. Ma vi pare ch’io possa avere una figlia da marito?
Sigismondo. Questo è quello che mi ha fatto maravigliare, quando ho sentito parlare di questo matrimonio. Come mai, diceva fra me medesimo, la mia padrona può avere una figlia da marito?
Luigia. È vero che io mi sono maritata di undici anni e mezzo, ma non sono altro che dieci anni, che ho marito.