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438 ATTO PRIMO

Sigismondo. Certamente. Le figlie nubili non istanno bene alla Corte. Giacchè il conte Ercole la desidera, può liberarsene.

Sancio. Ma io non vorrei incomodarmi nel darle la dote.

Sigismondo. Sarebbe bella che V. E. avesse da incomodarsi per la figlia! Pensi a godere il mondo, che per la figlia non mancherà tempo.

Sancio. Ma, caro segretario, ella è alquanto semplice, non vorrei mi pericolasse.

Sigismondo. Oh! quand’è così, maritarla.

Sancio. La mariterei volentieri, ma non mi trovo in istato di scorporare da’ miei effetti la dote.

Sigismondo. Per amor del cielo, non incomodi la sua casa. Vede in che impegno si trova. Governatore di una città, pieno di credito, avvezzo a trattarsi.

Sancio. Ecco mia moglie. Non la posso soffrire.

Sigismondo. Per dirla, è un poco odiosetta.

Sancio. Voglio andar via.

Sigismondo. Vada; si liberi da una seccatura.

Sancio. Ma no, voglio trattarla con disinvoltura.

Sigismondo. Bravissimo! Felici quelli che sanno dissimulare. Io non sarei capace. Il mio difetto è questo; quello che ho in cuore, ho in bocca.

Sancio. Qualche volta bisogna fingere. Voi non sapete vivere.

Sigismondo. E verissimo, io non so vivere. V. E. ne sa assai più di me.

SCENA II.

Donna Luigia e detti1.

Luigia. Signor marito, signor Governatore, per quel ch’io vedo, siamo venuti a Gaeta per farci burlare.

Sancio. Perchè dite questo?

Luigia. In questa città capitano frequentemente de’ nobili napoletani col tiro a sei, e voi mi fate andare col tiro a quattro.

  1. Bett. e Pap. aggiungono: Sigismondo fa delle riverenze a D. Luigia.