Il romanzo della fanciulla/Scuola normale femminile
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SCUOLA NORMALE FEMMINILE
I.
Mentre suonava la campana delle otto, nel corridoio lunghissimo, stretto, molto buio, cominciarono a penetrare le alunne. Dalla porta che dava sulla scala, incorniciata da una raggiera di ferro, per dare un po’ più di luce a quel budello umido di corridoio, venivano le alunne esterne; dalla porta opposta, piccola e socchiusa, che dava sul convitto, comparivano le convittrici, a due, a due. E subito, nel senso della lunghezza, due immense file si formarono: lungo la muraglia sinistra, chiusa, eguale, senza una porta, tutte le esterne; lungo la muraglia destra, tagliata da quattro porte, le tre stanze dei corsi e la direzione, quattro porte chiuse, si misero le convittrici.
— A noi, signorine! — aveva già esclamato tre volte l’alunna De Donato, una giovanottona di ventotto anni, avellinese, che aveva dovuto debuttare come cantante e poi aveva perso la voce.
Ma le alunne interne non udivano il segno: le esterne seguitavano a chiacchierare fra loro, coi cappellini ancora sul capo, i paltoncini abbottonati, le gonnelle succinte per non infangarle, le scarpe tutte inzaccherate, i libri sotto il braccio, una scatola di compassi in mano o un rotolo di carta o un cartoccetto con la colazione, portandosi addosso tutto l’umidiccio di quella mattinata piovosa. Le interne erano più quiete, coi loro vestiti bigi bene asciutti, i colletti bianchi e il nastro di velluto nero nei capelli, i libri legati con un laccio o con una stringa di guttaperca: ma Carmela Fiorillo, la simpatica dagli occhi neri e dalla bocca porporina, al solito, perdeva il sangue dal naso; Alessandrina Fraccacreta, la bruttona sentimentale, aveva una flussione all’occhio destro che la rendeva orrenda, malgrado la cipria che adoprava di nascosto, e l’acconciatura di capelli, per cui andava sempre in castigo; Ginevra Barracco si soffiava il naso continuamente, piangendo senza averne la voglia; Giovanna Abbamonte, aveva un panereccio alla mano sinistra, dopo averne avuto uno anche alla mano destra; e tutte le interne avevano l’aria infermiccia, pallida, di ragazze che vivono in un luogo umido, che mangiano male, che dormono col gas acceso. Cantare? Ma nè le esterne, nè le interne avevano voglia di cantare, quella mattina: le esterne già stanche del cammino fatto e della pioggia presa e della melma calpestata; le interne accasciate da quel grande convento di Gesuiti, che filtrava acqua da tutte le mura e che minacciava rovina.
— A noi, signorine! — gridò la De Donato, battendo le palme e intuonando la prima nota.
Distrattamente una cinquantina di alunne seguì con fiacchezza il canto mattinale, nella sua prima strofa:
Ho nel cielo un divin padre |
Era una musica piana, filata semplicemente, elementare, come la prima sillabazione sull’alfabeto; quelle che cantavano, emettevano la voce senza forza e senza calore, senza capir nulla, come se cantassero in sogno; e pronunciavano le parole, come se fossero in ebraico. Ma le altre cento alunne non cantavano; una grande scena muta di sorrisi, di sguardi, di cenni, di smorfie accadeva da una fila all’altra, fra esterne e convittrici. La severissima ordinanza direttoriale proibiva qualunque rapporto, fra convittrici ed esterne: ma appunto per questo, esterne e convittrici erano unite a coppie, a gruppi, così saldamente che nessun castigo poteva disunirle; appunto per questo si erano stabilite amicizie ferventi, che rasentavano la passione, simpatie invincibili che affrontavano tutte le punizioni, e uno scambio continuo di servizi: lettere impostate, lettere prese alla posta, romanzetti imprestati di nascosto, pezzetti di sapone al fieno, passati di sottomano; appunto per questo in quelle teste giovani, non era che un continuo studio per eludere la sorveglianza dei superiori. Cantare? Ma in quell’ora che stavano tutte riunite, la strana rete di amori e di odii, di simpatie e di antipatie, di impazienze e di nervosità, di affetti tranquilli e di gelosie si manifestava, fittissima, saldissima. Mentre le cantatrici, le indifferenti sonnacchiose e annoiate, filavano le parole:
Ho una madre sulla terra
Che mi guida e mi consola.
Con angelica parola
Di conforto e di bontà.
Si vedeva bene lo sguardo appassionato che Amelia Bozzo, una convittrice del primo corso, una sottile bruna, dagli occhi verdi, fissava su Caterina Borrelli, l’esterna del terzo corso, dal grosso naso rincagnato, dalle lenti di miope, che le davano un’aria tra ironica e sdegnosa; e Caterina Borrelli girava fra le dita una rosa appassita che Amelia Bozzo le aveva data tre giorni prima. Gabriella Defeo, una biondinetta del terzo corso, convittrice, voltava con affettazione le spalle a Carolina Mazza, una esterna del terzo corso, con cui aveva litigato il giorno prima, e Carolina Mazza fingeva di leggere in un quaderno, per non levare gli occhi. Non cantava Artemisia Jaquinangelo, dai capelli tagliati corti, come quelli di un uomo, dalla faccia maschile, dal corpo scarno di giovanetto adolescente, perchè Giuditta Pezza, esterna del primo corso, non le voleva più bene; Giuditta Pezza sorrideva a Maria Donnarumma, ma invano; Maria Dormarumma cercava invece di sapere se Annina Casale avesse trovato lettere per lei alla posta; Maria Valente mostrava di lontano una carta alla sua amica Gaetanina Bellezza, detta bottigliella, perchè era piccola e rotonda; di mano in mano passava una boccettina di odore, che Clotilde Marasca aveva comperata per Alessandrina Fraccacreta, la bruttona sentimentale e civettuola. Si rinforza vano le voci di quelle cinquanta neghittose e annoiate, che a nulla pensavano e che si davano sempre più alla meccanica di metter fuori la voce, dicendo:
Ho una patria cui sacrato
È il mio core e il mio consiglio,
Che nell’ora del periglio
Sempre fida a lei m’avrà.
Le altre tacevano. Le esterne si seccavano di cantare quella stupida musica e quelle sciocche parole, in quel corridoio buio, senza accompagnamento di pianoforte, tenendo ancora indosso i panni bagnati dalla pioggia, sentendosi ancora i piedi assiderati, le braccia stanche per aver dovuto reggere i libri e i quaderni, con lo stomaco appena riscaldato da una cattiva mezza tazza di caffè, ribollito dalla sera; si seccavano di cantare, quando avevano innanzi la prospettiva di sette ore di lezioni. Specialmente quelle del terzo corso, le maestre di grado superiore, che erano sopraccaricate di lavoro, dovendo studiare le cose più opposte, in preda a un tormento continuo, non avevano fiato da cantare. Giuseppina Nobilone era la più felice fra tutte, non capiva nulla, nè di fisica, nè di geometria, nè di aritmetica, nè di geografia; in lingua italiana era sempre riprovata, e ogni sei mesi, ogni anno, passava, passava a furia di spintoni, di gridi, di pianti, di raccomandazioni, di preghiere; Giulia De Sanctis imparava le lezioni a memoria, con una fatica immensa, ma se arrivava a perdere il filo, si faceva burlare da tutta la classe; Cleofe Santaniello era invece intelligente e studiosa, ma era presa da un tal tremore, quando doveva recitare la lezione, che i professori la tenevano in conto di alunna stupida e infingarda; Emilia Scoppa non aveva mai potuto imparare a non scrivere limpido con la elle apostrofata e inchiostro con la gi: Maria Caressa era bravissima per la storia, incapace per la geografia, e infine Checchina Vetromile era sempre così diligente, sempre così brava che i professori non facevano altro che chiamar lei, il che la preoccupava e le accresceva quotidianamente la fatica. Che strana idea far cantare le ragazze che debbono dare l’esame su dodici materie, aritmetica, grammatica e lingua italiana, scienze fisiche, e naturali, storia, geografia, geometria piana e solida, morale, religione, disegno lineare, pedagogia, lingua francese, calligrafia e lavori donneschi? Quella cinquantina che non gliene importava nulla, ridendosi dell’esame o non pensandoci, istupidite più che mai da quella monotonìa di canto fermo, dalle battute di palme della De Donato, che pigliava sul serio la sua parte di maestro di cappella, seguitavano a sgolarsi:
Son tre raggi in una fiamma,
Che mi scalda e cuore e mente,
Io cristiana e figlia, ardente
Cittadina ognor vivrò!
Qui sarebbe finito il canto mattinale, ma quest’ultima strofa doveva esser ripetuta due volte, in uno, da tutta la scuola, soprani, mezzo soprani e contralti. La ripetizione sopra un tòno più acuto si trascinò un’altra ventina di voci, tanto che un fiato di allegrezza parve si mettesse in quello stanzone stretto, lungo e oscuro: ma le più tristi rimasero con la bocca chiusa e la faccia inerte delle persone che vivono internamente, soffrendo nel loro cuore, senza coraggio per narrare a nessuno la propria pena. Giulia Pessenda pensava a sua madre, una povera vedova piemontese che andava a curar malati e puerpere per due franchi al giorno e arrossiva ancora di aver dovuto presentare la fede di povertà, perchè almeno la scuola le comperasse i libri; Sofia Scapolatiello si struggeva di amore taciturno per il fidanzato di sua sorella; Giuseppina Mercanti era costretta a vivere in casa con un’amante di suo padre, accanto a sua cognata che tradiva suo fratello, fra un fiato di corruzione che divorava l’ingenuità dei suoi sedici anni; Lidia Santaniello, a diciotto anni, sapeva di esser tisica e pregava Iddio che almeno la facesse vivere cinque o sei anni ancora, per lavorare, per aiutare la sua casa, fino a che il fratello crescesse. Non potevano cantare tutte costoro. Ma quella che non cantava mai, era Giustina Marangio, quella faccetta livida di vecchietta diciottenne, quella testolina viperea che sapeva sempre e tutte le lezioni, che non le spiegava mai a nessuna compagna, che non prestava mai i suoi quaderni e i suoi libri, che rideva quando le sue compagne erano sgridate, che i suoi professori adoravano, che non aveva amiche, e che rappresentava la perfidia somma, la immensa cattiveria giovanile, senza vena di bontà, senza luce di allegrezza.
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Dopo il canto, un grande movimento era accaduto, come nella formazione dei ranghi militari: ottantacinque ragazze, tutto il primo corso, erano scomparse nella biblioteca, un vastissimo salone, tutto a scaffali di legno di quercia, scaffali vuoti di libri, neri, tarlati, polverosi; le quarantadue del secondo corso erano entrate nella loro classe, un camerone bianco e freddo, imbiancato alla calce, adorno elegantemente da due carte geografiche; e le trentuno del terzo corso erano andate a malincuore nella stanzuccia umida e bassa che era la loro classe. Dalle porte si udiva un gran cicaleccio, poichè ancora i professori non arrivavano: ma il lungo corridoio era rimasto vuoto; qua e là sul terreno, vi erano delle orme fangose che gli stivaletti delle ragazze vi avevano lasciate. E quelle orme pareva che contemplasse una ragazza, appoggiata allo stipite della porta che dava sulla scala. Stando contro la luce, non si poteva distinguere la fisonomia di quella figura: si vedeva solo che era di media statura, che era magra e che vestiva di nero. Era lì da che le ragazze avevano incominciato a cantare: ed aveva ascoltato senza fare un passo, senza osare di avanzarsi, aveva visto formarsi i corsi e disparire dalle porte delle classi, senza che nulla valesse a smuoverla di lì. In questo si udì un fruscio: era Rosa, la inserviente, un donnone alto, dai piedi enormi, dai polsi nodosi, che pareva un carabiniere vestito da donna, avvolta in una gonnella di lana a quadroni rossi e neri, e in uno scialle di lana rossa. Essa adoperava una grossa scopa rumorosa, per spazzare il corridoio da quel fango e borbottava con quel suo fare di buona donna brontolona. Arrivata alla porta, levò gli occhi e vide quella personcina nera.
— Chi volete? — le domandò bruscamente.
— Il direttore — mormorò l’altra, con voce fievole.
— Non vi è.
— Non deve venire? Non potrei aspettarlo? — E lo domandava con tanta dolcezza che Rosa se ne commosse.
— Verrà presto, aspettatelo pure. —
E si rimise a scopare rumorosamente. La personcina nera, rincorata, ebbe il coraggio di camminare innanzi nel corridoio e di dare un’occhiata, per la porta aperta, dentro la terza classe. Le ragazze erano tutte fuori dei banchi, convittrici ed esterne, chiacchierando, strillando: invano la decuriona, dall’alto della cattedra, tentava di imporre silenzio. Era una grassona bianca, buonissima, poco intelligente, molto esatta, molto tranquilla, che risultava decuriona, soltanto per i buoni punti che aveva per la condotta: e a quell’incarico ci si dannava, non sapeva andare in collera, non aveva il coraggio di arrabbiarsi con le sue compagne, la sua bella flemma di giovanotta grassa, glielo impediva.
— Ma, signorine, ve ne prego, tacete!
— O decuriona, amica mia! — strillò la Borrelli, rialzandosi le lenti sul naso — che è questo? Tu toscaneggi!
— Lo fa per fare la corte a Radente, il professore d’italiano — soggiunse Artemisia Jaquinangelo, passandosi le mani nei capelli, come un uomo.
— Radente non viene, Radente non viene — esclamò Defeo, la biondinetta, battendo le mani.
— Sono appena le otto, la campana è suonata un quarto prima — disse sottovoce Costanza Scalerà.
E cavò l’orologio. Costanza Scalerà, una convittrice, per questo orologio, l’unico della classe, era considerata come una gran signora: e aveva l’aria realmente signorile, una grossa testa bruna e ricciuta, larghi occhi verdi, un sorriso lieve lieve, una grande eleganza di movimenti: ma il suo immenso vantaggio era appunto quell’orologetto d’oro, che cavava fuori ogni minuto. Qualcuna aveva osato sussurrare, in classe, che Costanza Scalerà, era sorella di una rammendatrice di maglie di seta; ma era sembrata una calunnia, di fronte a quell’orologetto d’oro, così aristocratico.
Ora, la personcina nera era arrivata in capo al corridoio, camminando lentamente: in un angolo vi era una vaschetta di zinco, dipinta in azzurro; un rubinetto male chiuso vi gocciava dell’acqua, come una lagrima rara; al robinetto, per mezzo di una catenina metallica, era attaccato un secchietto di piombo. La personcina, vedendosi sola, si azzardò ad aprire il rubinetto, lasciò scorrere prima un po’ d’acqua per risciacquare il secchietto, poi bevve. Ma l’acqua era calda, com’è sempre quella che sale su con la pompa, e aveva il cattivo sapore metallico delle acque conservate. Ella chinò il capo e lasciò cadere il secchietto: ridiscese verso la porta di entrata, gettando un’altra occhiata timida verso il terzo corso, dove non sarebbe mai entrata, se il direttore non veniva. Qualcuna delle ragazze si era seduta: Giuseppina Nobilone perdeva la testa, pensando che forse sarebbe stata chiamata da quattro professori a dire la lezione e guardava con occhio inebetito il suo fascio di libri; De Sanctis, seduta, con le mani in un vecchio manicotto lavorato a maglia, di lana nera, guardava fissamente il muro e ripeteva mentalmente un brano del Passavanti; Emilia Scoppa rileggeva per la decima volta il suo còmpito di lingua italiana, desolandosi perchè non vi sapeva trovare quegli errori di ortografia che vi avrebbe trovati in quantità il professore; Checchina Vetromile scriveva, in un quaderno, una citazione.
In un gruppo Carolina Mazza, dall’occhio provocante, narrava qualche cosa di molto interessante a Giuseppina Mercanti, a Donnarumma, a Luisetta Deste, a Concetta Stefanozzo e costoro, ascoltavano, chi pallida, chi rossa, chi sorridente, chi con gli occhi bassi, la storia: in un altro gruppo, tutto di esterne, Lidia Santaniello, dalle guancie troppo rosse di tisica, con un filo di voce narrava a Caterina Borrelli, ad Annina Casale, a Maria Valente, a sua sorella Cleofe Santaniello, a Scapolatiello, a Pessenda, un’altra storia che queste altre anche ascoltavano attentamente. Alessandrina Fraccacreta si teneva un fazzoletto di tela sull’occhio flussionato e con l’altro leggeva un Jacopo Ortis, aperto dentro il Piccolo Fornaciari; Teresa Ponzio rispondeva a una lettera che avea ricevuto da una esterna; e le altre restavano ritte, discorrendo, maledicendo il tempo cattivo, sospirando, gemendo, cominciando un po’ a litigare fra loro per riscaldarsi, mentre Judicone, la decuriona, chiamava l’appello, leggendo in un grande registro. Ma in un momento i gruppi si sciolsero, le ragazze rientrando nei banchi: quelle che leggevano o scrivevano, si levarono. Era entrato il direttore.
Era un piccolino, scarno, dagli occhi vivissimi, dalla barbetta bionda e aguzza, taciturno, nervoso, sempre in moto, che spiegava rapidissimamente la sua lezione di storia naturale, che era spesso ammalato e abbastanza buono, malgrado la sua freddezza. Appena entrato, schiuse la finestra: era un igienista.
— Aria, aria, — disse alla decuriona Judicone, — Meglio un po’ di freddo, che respirare aria cattiva. —
E alla classe che restava tutta in piedi, in silenzio, soggiunse:
— Signorine, vi presento la nuova alunna, la signorina Isabella Diaz. Decuriona, assegnatele un posto. —
Se ne uscì, già inquieto e nervoso perchè il professor Radente era in ritardo di dieci minuti, passeggiò nel corridoio, per dirgli qualche cosa, quando veniva. Tutte le ragazze sedettero: in piedi, in mezzo della classe, rimase la personcina nera, sopportando gli sguardi curiosi di trentuno fanciulle. Ora si vedeva bene la fisonomia. Era una faccia piatta, senza linee precise, con un colorito giallastro, dove non si mescolava una sola ombra di rosso; gli occhi erano chiarissimi, le labbra violacee e macchiate dalla febbre, i denti guasti. Ma quello che impressionava era l’assenza totale delle ciglia e delle sopracciglia, non un pelo, non un’ombra; con una brutta e mal fatta parrucca rossastra, che mostrava la tessitura di filo nero nella scriminatiura, che discendeva troppo giù sulla fronte. Qualche atroce malattia aveva dovuto devastare quel cranio e quella faccia. Portava un vestito di lana nera tinto e stinto, un cuffiotto informe di trina nera di cotone, con qualche nastro violetto, non aveva guanti, e serrava fra le mani un vecchio sacchetto di pelle nera, tutto scrostato. Ella era orrenda.
— Volete dirmi il vostro nome? — chiese bonariamente la signorina Judicone.
— Isabella Diaz — rispose la infelice, sempre ferma in mezzo alla stanza.
Giustina Marangio sghignazzò a quel nome, malignamente: la Diaz levò malinconicamente su lei, le sue palpebre senza ciglia.
— Vi sederete all’ultimo banco — soggiunse la decuriona — fatele un po’ di posto. Mazza. —
La Diaz traversò la classe e andò a sedersi, in punta in punta, conservando il suo cuffiotto sformato e tenendosi stretto alla cintura il sacchetto: la Mazza si era rigettata verso il muro, con un moto di disgusto. Dopo un minuto, il soprannome inventato da Giustina Marangio, circolava: La scimmia spelata, e mormorato, ripetuto, detto all’orecchio, la Diaz lo intese e non arrossì, nè impallidì.
— Diciamo l’orazione — intervenne caritatevolmente Judicone.
— Sì, diciamola, poichè il Signore fa ritardare oggi Radente — esclamò Caterina Borrelli.
— Radente sarà morto — aggiunse Carolina Mazza, che lo detestava.
— Oh, volesse Iddio! — finì Annina Casale, la pia e buona creatura, che il professore non poteva soffrire.
— Diciamo la preghiera, signorine — ripetette la decuriona spaventata.
Il professore era lì, sulla porta. Tutte quante si alzarono, fecero il segno della croce e recitarono a voce alta il Pater noster: Lidia Santaniello aveva congiunto le mani sul petto malato e la Borrelli aveva abbassate le lenti, per rispetto. La preghiera era finita e la Diaz restava ancora in piedi, le mani congiunte, la bocca schiusa, come se pregasse sempre. Il prete salì sulla cattedra: era piccolotto e grasso, con una faccia rotonda e liscia di antico romano gaudente, con un par di occhi bianchi ferocissimi, che non fissavano nessuno e facevano terrore. La mano era bianca, pienotta, con le unghie rosee, come quelle di una donna: vestiva di corto, molto accurato. Si fermò un poco a rovistare fra le sue carte, a leggere nel registro, sentendo e assaporando lo spavento che incuteva in quei poveri sorci, con cui felinamente si divertiva a giuocare. Poi levò il capo e chiamò:
— Mazza, dite la lezione.
— Non la so.
— E perchè?
— Ero malata ieri. —
Egli, senza dire nulla, segnò uno zero nel registro.
— Casale, dite la lezione. —
La poveretta la disse, era sulle origini del volgare, la sapeva benissimo: ma quegli occhi bianchi l’affascinavano, essa sentiva l’antipatia del professore, s’ingarbugliava.
Egli, senza pietà, la lasciò ingarbugliare, guardando in aria, senza suggerirle nulla, senza domandarle: tanto che ella tremò, arrossì, finì per ricadere sul banco, scoppiando in lagrime. Radente, il prete, si chinò sul registro e segnò zero.
— Borrelli, dite la lezione.
— Non l’ho imparata, professore — rispose costei, levandosi tranquillamente e sorridendo.
— E perchè?
— Perchè non sono un pappagallo, io, da imparare un brano del Passavanti a memoria.
— Così vogliono i programmi.
— Colui che ha fatto i programmi, era dunque un pappagallo. E poi, scusi, professore, io non so chi sia questo signor Passavanti e in che epoca sia vissuto e che abbia scritto. Se mi favorisce queste spiegazioni, io imparerò il brano. —
Questa volta Radente aggrottò un poco le sopracciglia bionde, era il massimo della collera in lui: la Borrelli colla sua improntitudine, lo coglieva quasi sempre in difetto d’ignoranza. Questa ragazza intelligente e insolente, discuteva sempre un quarto d’ora, prima di voler dire la lezione: egli tacque, mise lo zero nel registro e si promise di parlarne al direttore. L’alunna sedette soddisfatta, perchè almeno il suo zero se l’era guadagnato. Il prete fissò un momento la classe e trovò la Diaz:
— Siete voi, laggiù, la nuova:
— Sì, signor professore — disse quella, col suo filo di voce.
— Venite di casa?
— Sissignore.
— E che sapete? Niente, com’è naturale. — Ella non osò rispondere.
— E che contate di fare? Qui non si ozia, come a casa, qui si viene per studiare e non per guardare il muro. Mettetevi al corrente per dopodomani. —
La poveretta lo guardò, spalancando dolorosamente quelle miserabili palpebre senza ciglia. E malgrado il terrore di Radente, di quella faccia di pietra, di quegli occhi malvagi, di quella voce acre, nella classe circolava un bigliettino, dove era scritta una strofetta, che variava una canzonetta popolare in voga.
T’aggio ditto tante vote
Nun fa ’ammore cu Radente
Che è nu prevete impertinente.
Mette zero e se ne va.
II.
La De Sanctis restava ritta nel suo banco con le braccia piegate, la bocca ancora lievemente schiusa, gli occhi, inebetiti nella sua posizione di pappagallino umano che recita la lezione: giusto il professore di pedagogìa l’aveva interrotta a metà, mentre ella schiccherava, senza capirne nulla, le quattro leggi fondamentali dell’educazione. Infastidito da quel mormorio monotono e cretino, egli le aveva chiesto, improvvisamente, se intendesse bene la legge dell’armonia: e la poveretta era rimasta smarrita, muta, senza saper riprendere il filo: la macchinetta parlante si era arrestata. Estrada, il professore, aveva fatto un piccolo cenno di disgusto e poi si era lanciato in una lunga spiegazione tutta letteraria, tutta poetica dell’armonia nella educazione. Faceva sempre così. Estrada. Era uno spirito superiore, più versatile che profondo, un parlatore brillante: e costretto dalla necessità a insegnare pedagogìa alle ragazze del terzo corso, egli disprezzava palesemente quell’incarico, e sè stesso che lo compiva. Già, dalla prima lezione dell’anno, egli aveva sbalordito le sue alunne, spiegando loro l’inutilità della pedagogìa: e quello scetticismo amabile persisteva in tutte le sue spiegazioni; a proposito di tutto, del metodo di lettura, dei sistemi froebellani, a proposito di Pestalozza e di Ferrante Aporti, egli improvvisava un discorso brioso o sentimentale che partiva dalla pedagogìa e arrivava chi sa dove, a Goethe, a Pulcinella, a Beaumarchais. Estrada era ancora giovine, un bell’uomo dalle fedine bionde che appena si cominciavano a brizzolare, dal sorriso ironico, dalla voce vibrante. Estrada era amato da tutto un gruppo di alunne, Carmela Fiorillo, Ginevra Barracco, Alessandrina Fraccacreta, Carolina Mazza, perchè erano sentimentali anche loro, perchè quella parola calda, un po’ scomposta, un po’ paradossatica, rompeva la monotonìa affogante delle altre lezioni. Anzi si diceva che Teresa Ponzio, la piccolina, fosse innamorata morta del professore, si diceva che Teresa Ponzio gli scrivesse lettere infuocate, che aveva l’audacia di compiegare nel còmpito di pedagogìa. Ma le studiose, Giuseppina Nobilone, De Sanctis, Cleofe Santaniello, Emilia Scoppa, Checchina Vetromile, non potendo seguirlo in quel vagabondaggio fiorito, sentendo di non conoscere la pedagogìa, sgomentandosi innanzi al programma dell’esame, odiavano questo professore poeta e pazzo, come esse dicevano; esse si stringevano nelle spalle ai suoi discorsi e studiavano da sole, nel testo, fingendo di non ascoltarlo. Solo Isabella Diaz, con la faccia devastata dalla malattia, con la parrucca rossobruna, che discendeva sulla fronte, combatteva con Estrada, in nome della pedagogìa: ella diceva la sua lezione con un senso così profondo di ragionamento, con tanta logica tranquilla, ella ripeteva i suoi argomenti con tanta insistenza di persona umile e pacata, ella riprendeva da lui il discorso con tanto buon senso, che egli finiva per lasciarla dire, ascoltandola pazientemente, con un sorriso beffardo, tanto quella brutta, orrenda ragazza, gli pareva l’incarnazione della pedagogìa.
Ma quella mattina anche Isabella Diaz taceva, ascoltando Estrada: costui era passato dall’armonìa educativa alla musica di Wagner, da Wagner alla leggenda di Lohengrin e di Elsa, da Elsa al mito di Psiche. Le sentimentali ascoltavano a bocca aperta, un po’ pallide, un po’ rosse, esaltate dalla voce, dalle parole, dal senso palese, ascoso di quello che egli diceva; le studiose fingevano di leggere il testo o il manuale di aritmetica, ma a poco a poco quel fiume di eloquenza vinceva anche loro, esse levavano il capo, attirate, quasi sedotte. Caterina Borrelli, che aveva delle tendenze letterarie, e le cui lettere d’amicizia ad Amella Bozzo erano piene di rettorica, crollava il capo come un uccello affascinato; Teresa Ponzio, l’innamorata del sole, beveva le parole di Estrada. Quando costui da Psiche passò a parlare dell’amore, le ultime restìe, che a ogni costo volevano una lezione di pedagogìa, incantate della piega che prendeva il discorso, levavano il capo. Era commossa Cristina De Donato, che aveva dovuto lasciare un tenorino, con cui cantava le romanze al Conservatorio, poichè ella aveva persa la voce ed egli era stato scritturato al teatro di Malta, il teatro dei dilettanti; a Carolina Mazza, che amava uno studente e n’era stata tradita, si sbiancava il volto; a Clementina Scapolatiello, che amava senza speranza il fidanzato di sua sorella, venivano le lagrime negli occhi; Luisetta Deste sorrideva con malizia, la piccola furba civettuola; Maria Valente che voleva bene a un cugino senz’essere corrisposta, chinava il capo sulle mani. E su tutte quante, innamorate felici, o innamorate desiose di amore, o miserabili creature che non sarebbero mai state amate, scendeva un grande tremito nervoso: persino Pessenda, la piemontese poverissima, destinata a insegnare in una scuola rurale di qualche villaggio perduto nelle Alpi, era tutta scossa; persino Isabella Diaz, coi suoi occhi senza ciglia e senza sopracciglia, con le sue labbra violette, macchiate dalla febbre, stava come assorta in un sogno. E mentre tutta la classe era profondamente turbata, mentre il professore Estrada usciva, come se svanisse, Giustina Marangio, la vipera, saltò sulla cattedra e scrisse a grandi caratteri sulla lavagna:
«L’amore è una grande sciocchezza».
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— Mercanti dite la parabola delle vergini stolte e delle vergini savie — disse il professore di religione.
Mercanti si alzò un po’ straccamente, e un po’ ridendo, un po’ tossendo, mostrando i denti, a cui mancava proprio un incisivo, rispose:
— Professore, sapete, stamane ho ascoltata la vostra messa. —
Il pretonzolo Pagliuca, nero nero di faccia, con gli occhiali, sorrise come lusingato.
— Dite la parabola.... — insistette.
— Professore, perchè dite la messa così ad alta voce? — domandò l’altra, un po’ sfacciatella, col viso pallido e gli occhi già troppo maliziosi.
Egli spiegò perchè, parlò della messa: le ragazze lo ascoltavano, ridacchiando fra loro. Era un pretarello tutto storto e bruno, che spiegando la lezione faceva una quantità di smorfie con la bocca e con gli occhi, una quantità di gesti ridicoli, a proposito di Mosè o di Cristo. Le ragazze non lo potevano prendere sul serio.
— Donnarumma, dite la parabola....
— Professore, scusate, ho prima da esporre una difficoltà. È vero quello che dicono i miscredenti, che Gesù sia stato troppo indulgente, perdonando alla Maddalena? —
Egli fece una faccia scandolezzata, si contorse sulla seggiola, inarcò le sopracciglia e cercò giustificare il perdono di Gesù alla Maddalena. Ma quelle fanciulle, certe specialmente, pareva non si convincessero, lo guardavano coi loro occhi furbi ed increduli: egli sentiva l’ironìa di quegli sguardi, ci s’irritava, strillò che non era decente porre in dubbio i fatti della religione. Donnarumma, la grande giovanotta di Castellamare, dagli occhi di giovenca, un po’ confusa, disse la parabola: si vide alle spalle Carolina Mazza suggerirgliela tutta, leggendola nel libro. Ma fu peggio: quel racconto delle vergini, che aspettano lo sposo colle lampade accese, per entrare con lui nella casa a fargli scorta, eccitava quelle curiosità, eccitava i commenti di quelle ragazze già grandi, alcune venute su dalla strada, che vedevano e sentivano tutto, il bene e il male.
Luisetta Deste, Artemisia Jaquinangelo, Concetta Stefanozzo, la Donnarumma, la Mercanti, la Mazza, il gruppo così detto, delle spregiudicate, ci si divertivano assai alla lezione di religione: esse, le sfacciatelle, preparavano una quantità di domande insidiose per confondere il professore, per non far recitare la lezione. Egli si lasciava prendere, restava un po’ interdetto a quei soggetti scabrosi e si ingarbugliava in una quantità di frasi: la classe intera era presa da un gran solletichìo di risa. Appunto, dopo la lezione di Estrada, era rimasto nella classe un gran soffio profano, una fantasìa di visioni amorose, uno scuotimento dei nervi: alla strana parabola delle vergini, che ha bisogno di un’altissima spiegazione mistica, le ragazze si guardavano fra loro, con certi sorrisi pieni di sottintesi, ed era uno stirarsi di faccie per comprimere il riso, un sollevar di libri all’altezza delle labbra per nascondersi, un curvarsi sul banco, come per cercare un oggetto. Il professore guardava, tutto insospettito, con quel suo viso antipatico, cercava di afferrare qualche cosa in quel mormorio di risate che cresceva. Solo il gruppo delle sante, il gruppo mistico, le due sorelle Santaniello, Annina Casale, la Pessenda, la Scapolatiello, la Borrelli, Maria Valente, si mostravano severe e scandolezzate; queste ragazze o molto infelici o troppo intelligenti, o molto povere, erano prese da una dolce follìa religiosa mal repressa. Ogni mattina si riunivano nella chiesa di Santa Chiara, prima di entrare in classe, e pregavano per un’ora; scrivevano su tutti i compiti le iniziali G. M., i nomi di Gesù e di Maria; si scambiavano rosari, amuleti, immagini di santi colorate; ogni domenica, per la messa e pel vespro si davano convegno, ora in una chiesa, ora in un’altra; seguivano tutti i tridui, tutte le novene, tutti gli ottavari, nelle loro ore di libertà; scrivevano delle frasi religiose a margine del trattato di geografia e delle orazioni nei quaderni della geometria: si chiamavano sorelle, fra loro. Formavano il gruppo opposto alle spregiudicate e si disprezzavano a vicenda, le sante più taciturne e più indulgenti, le spregiudicate più ciarliere e più insolenti.
— Isabella Diaz, dite la lezione di catechismo. — La bruttissima si levò e parlò dei sacramenti, pian piano, con quella poca voce che aveva, e un lieve tremito le faceva muovere le labbra; le mani giallastre, sempre un po’ umide, erravano sul banco. Del resto quella piccola figura scarna, dal seno piatto nel vestito vecchio, parlava dei sacramenti con tanta vera pietà, con una umiltà d’interpretazione tanto cristiana, che le mistiche si erano rivolte ad ascoltarla, tutte intente. Il pretonzolo scuoteva il capo da destra a sinistra, come ad esprimere la soddisfazione scimmiottesca: e Isabella Diaz continuava a dire il velo di mistero, in cui si avvolgevano i sacramenti e il senso che essi esprimevano. Ma al settimo, il matrimonio, le spregiudicate ricominciarono a mormorare, a ridacchiare, a urtarsi col gomito, a fare smorfie per non ridere, e la voce acuta di Luisetta Deste, chiese:
— Professore, scusate, che rappresenta, misticamente il sacramento del matrimonio? —
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Il direttore e professore di scienze fisiche e naturali, immerse la mano magra come quella di una donna nella urna-scatolina di cartone, e ne trasse un rotoletto di carta.
— Judicone, — disse lui, schiudendo il rotoletto.
La decuriona impallidì leggermente, ma cercò di sorridere e si levò per dire la lezione.
— Venite sulla cattedra: spiegherete così la macchina praticamente.
Difatti la macchina di Atwood, lunga, sottile, complicata, tutta ottone e acciaio, drizzava sulla cattedra la sua figura di piccola forca. Judicone vi si pose accanto, grassa, grossa, con la sua bonaria faccia plenilunare, coi suoi fianchi larghi di madre futura, con la gola piena e bianca di matrona: e lentamente, cercò di chiarire alle compagne quel congegno difficile e delicato, per cui si misurano le cadute dei gravi. Con la mano pienotta dall’indice teso, ella toccava le piccole leve, le ruoticine, i volanti, le mollette dentate; gli occhi di un dolce color d’olio, pregni di bontà, si fissavano intensamente su quell’ingranaggio metallico, come se volesse estrarne tutta la verità. Ma dopo tre o quattro minuti di spiegazione, la voce si andò rallentando, la frase divenne stentata, le parole s’imbrogliarono, Judicone restò taciturna con le braccia abbandonate lungo la persona, guardando la macchina, con occhi pieni di desiderio e di dolore. Non era arrivata neppure a descriverne una terza parte. Il professore si carezzava la barbetta bionda, con un moto nervoso che gli era abituale: un po’ d’impazienza e un po’ di collera, gli si ammassava nell’animo buono e paziente di uomo che ha vissuto. A questa importante ma difficile lezione della gravità, a queste leggi sulla caduta dei corpi, a questa indiavolata macchina di Atwood, la classe si era impuntata da una settimana, senza poter andar avanti, confusa, stordita, non intendendo più nulla. Già tre volte egli aveva rifatta lungamente la stessa lezione, applicando la teoria alla pratica, smontando il congegno pezzo per pezzo: aveva lasciata la macchina in classe, perchè le alunne potessero esercitar visi, analizzarla liberamente. Ma pareva tutto inutile. Senza dire nulla a Judicone, egli immerse la mano nell’urna e cavò fuori un altro nome: tutta la classe teneva gli occhi fissi su quel fatale rotoletto di carta, ognuna temeva per sè, la macchina di Atwood era troppo diabolica:
— Cleofe Santaniello. —
La piccolina intelligente, studiosa, lasciò il suo posto, dopo aver guardato un’ultima volta il proprio quaderno, dove la macchina era disegnata: Judicone tornò al suo, chinando la faccia nel registro, per nascondere il rossore. Cleofe Santaniello contemplò un minuto la macchina, la tastò due o tre volte con la sua scarna mano di rachitica e incominciò rapidamente, senza guardare in nessun posto, per paura d’imbrogliarsi.
Andò bene per un pezzetto, ma disgraziatamente alla parola incudinetta anteriore, udì una voce lieve, quella di sua sorella Lidia, sussurrarle in fretta posteriore, posteriore: Cleofe si arrestò, tremò, perdette il filo, non potette più ricominciare, il suo male nervoso che le impediva di far bella figura in classe, mentre ella intendeva tutto e sapeva tutto, la riprese. Il professore la guardò un momento, così piccola e così meschina come era, e forse per pietà non la sgridò, ma la licenziò con gli occhi.
Costanza Scalerà, chiamata, si levò, con la sua aria composta di grande signora e dichiarò francamente che poteva dire tutta la teoria della legge, ma che non poteva fare la descrizione della macchina di Atwood: il direttore-professore si strinse nelle spalle. La bufera, silenziosa, cresceva: una immensa mortificazione scendeva su quelle fanciulle, esse provavano una vergogna immensa della loro stupidaggine, della loro inettezza. In fondo esse amavano molto quel direttore niente espansivo, ma giusto, parco di parole laudative, ma incapace di usar loro un cattivo trattamento; e avevano una grande soggezione di lui e avrebbero voluto contentarlo in tutto; le sue lezioni erano quelle che studiavano di più. Quale scorno, per la terza classe, alla quarta lezione non saperne ancora nulla, della legge sulla caduta dei gravi! E come passava il tempo, la vergogna e la confusione si dilatavano, crescevano: due o tre altre, salendo su quella cattedra, piazzandosi sotto quella piccola forca di metallo, perdettero la testa per un terrore ignoto, come ci si ammala per paura della malattia. La macchina di Atwood pareva s’ingrandisse, si elevasse sul loro capo, pareva che si moltiplicasse nel suo meccanismo di rotelline: essa pareva acquistasse un’anima, un’anima metallica e beffarda, che si rideva dei tormenti di quelle fanciulle: esse la guardavano come un mostro, spaventate. A un certo punto, il direttore si fermò: vi fu un minuto profondo, lunghissimo, di silenzio. Poi, egli che non le sgridava mai, che non pronunciava una parola di biasimo, disse lentamente:
— Sono assai dolente di quello che accade. —
L’effetto fu grandissimo; molte impallidirono; a Judicone che era tanto buona, scesero i lagrimoni per le guancie; Cleofe Santaniello scoppiò a singhiozzare. L’onore della terza classe era umillato. Mentre il direttore si alzava quasi per andarsene, Checchina Vetromile, che era una delle migliori, si alzò, un po’ rossa, con la voce un po’ tremante:
— Sentite, signor direttore, la colpa non è nostra, nè di nessun altro. La lezione è difficoltosa, complicata: la studiamo da una settimana, senza arrivare a penetrarla. Abbiamo trascurato tutto il resto, per questa tremenda macchina: forse abbiamo fatto peggio, perchè ci siamo istupidite, a furia di ripetere venti volte la stessa cosa. Se volete, lasciamo per un poco la macchina e andiamo innanzi: la riprenderemo fra una settimana. Vi promettiamo d’impararla magnificamente: posso parlare per tutta la classe. —
Ma la impressione benefica e pacificatrice di queste parole, che la bella e cara creatura aveva pronunciate, fu dissipata da una vocetta stridula, che esclamò:
— Parli per sè, Vetromile. Io so la lezione: se il professore vuole, la posso dire. —
Era Giustina Marangio, la fanciulla livida, dalle labbra sottili, dagli occhi bianchi. Una meraviglia dolorosa colpì le ragazze, per quella defezione, per quel tradimento: lo stesso direttore aggrottò un po’ le sopracciglia, come infastidito. E Giustina Marangio salì prestamente sulla cattedra, guardò la macchina di Atwood, con un piglio beffardo; con la sua vocetta di lima stridente, senza fermarsi mai, senza sbagliare mai, descrisse quel sistema di ottone e di acciaio, minutamente, precisamente, non tralasciando nulla, applicando la teoria alla pratica, girando attorno alla forca, attaccandosi ai più piccoli pezzi di quel meccanismo. Alla fine, quando Giustina Marangio inclinò la macchina per mostrarla meglio alla classe e vi stese, sopra, il piccolo pugno chiuso, dall’indice teso, ella parve più forte e più malvagia di essa.
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Per la ricreazione, la classe si era vuotata. Le convittrici erano andate a passeggiare in convitto: le esterne passeggiavano in quel corridoio-budello. In tutto, non vi erano che trenta minuti di ricreazione, da mezzogiorno alla mezza, per andare su e giù, nella penombra, in file di quattro o cinque, o in coppie di due. Qui le simpatie, le amicizie si pronunziavano. Amelia Bozzo era scappata via dal primo corso, e passando accanto a Caterina Borrelli, le aveva consegnato un biglietto che diceva: se non mi vuoi bene, o impazzisco o muoio. Le sante, in fila, ancora tutte contrite dello scandalo avvenuto durante la lezione di scienze naturali, cercarono di distrarsene, parlando della prossima Settimana Santa e delle commoventi funzioni religiose. Scapolatiello vantava la parrocchia dei Sette Dolori, Valente preferiva Santa Maria della Rotonda, Annina Casale teneva assai alla sua parrocchia della Madonna dell’Aiuto: Isabella Diaz, la creatura orrenda, leggeva, camminando tutta sola, appena vedendoci in quell’oscurità, un opuscolo religioso, intitolato: Fra cento anni, dove saremo?
Le zelanti, la Vetromile, Cleofe Santaniello, Giuseppina Nobilone, De Sanctis, ripassavano passeggiando, la lezione di aritmetica, gli ultimi teoremi della radice quadrata; il professore De Vincentiis doveva venire dall’una e mezza alle tre, l’ultima lezione. Le spregiudicate, in sei o sette, avendo fame, avevano riunite le loro forze finanziarie, raccogliendo quindici soldi e con molte preghiere avevano convinta Rosa, la bidella, a comprare loro otto soldi di pane, sei di provola affumicata, una specie di formaggio fresco, tenendosi un soldo pel suo incomodo. Poi, aspettando, Carolina Mazza, malinconica e cinica, cominciò a narrare loro una storiella piccante, che le faceva sganasciar dalle risa. E tutte quante, convittrici ed esterne, le sentimentali, le zelanti, le sante, le spregiudicate, respiravano un poco; dopo la ricreazione, avevano un’ora di lavori donneschi: la maestra era docile, compativa quelle del terzo corso, sapeva il carico delle loro lezioni, era di manica larga, le lasciava scrivere o leggere o disegnare, purchè poi all’esame presentassero un cucito, un rammendo, un rappezzo bene eseguito.
Tutte facevano dei progetti per quest’ora, che era quasi di libertà: Caterina Borrelli voleva rispondere una lunga lettera, alla sua amica Amella Bozzo; le zelanti, ostinate, combinavano di ripetere la lezione di scienze fisiche fra loro; le santarelle contavano di chiacchierare ancora, di miracoli e di conversioni, e le spregiudicate contavano di far colazione, lungamente. Tanto che, rientrate alla mezza in classe, mentre la maestra osservava il lavoro di due o tre, che avevano lo zelo anche per questo, le altre non rivoltarono neppure la tavoletta del banco, dove vi era il cuscinetto di lana verde, per cucire. Caterina Borrelli scriveva; Carolina Mazza affettava, con un temperino, sottilmente, la provola affumicata, distribuendola equamente; Checchina Vetromile aveva arrovesciata la macchina di Atwood, quasi per anatomizzarla; Clemenza Scapolatiello aveva rialzata la manica del suo vestito, per mostrare alle sue amiche un rosarietto delle anime del Purgatorio, che portava sempre al braccio, sotto il gomito. In questo sbandamento generale, un fruscio si udì: le due ispettrici, una contessa gobba e zitellona, una marchesa pedante, dalle lenti sul naso, entrarono con la loro aria glaciale e sdegnosa. Esse compivano quell’ufficio gratuitamente, come se si degnassero di fare la carità della loro assistenza, alle ragazze povere: esse occupavano le loro lunghe giornate vuote, a girare per le scuole, portandovi la superbia dei loro vestiti di seta, dei loro orecchini di brillanti: esse applicavano la loro nullaggine a seccare alunne, professori e maestre con osservazioni saccenti, con dispute bizantine. Erano detestate: perchè non erano nè buone, nè pietose, nè utili a nulla. Ma bisognava fingere di rispettarle, se no, andavano dal provveditore, scrivevano al ministro, mettevano il mondo a soqquadro, come due gazze. Onde, quell’apparizione equivalse quella di una duplice testa di Medusa. La stessa maestra si confuse:
— Non si lavora molto, mi pare? — osservò la gobba, con il tono acre della zitella dispettosa.
— Da un pezzo, queste signorine non si dànno pensiero del cucito, — continuò la marchesa pedante — esse vogliono diventare troppo sapienti....
— Il programma è un po’ pesante.... — osò dire la maestra.
— Se continua così, noi riferiremo, — disse la gobba.
— Noi riferiremo, — confermò la marchesa.
E principiarono il giro nella classe: in fretta molte tavolette erano state arrovesciate, per fingere che si cucisse.
— Lei, Borrelli, perchè non cuce? — chiese la gobba, dal mento pieno di peli bigi.
— Io sono dispensata dal cucito, per malattia agli occhi.
— Dove è il certificato?
— A casa, naturalmente: e un altro l’ha il direttore. —
— Se si fanno far tutte il certificato, bisognerà riferire. —
E passarono avanti.
— Signorina Mazza, lei cuce senza anello da cucire?
— L’ho perso, signora ispettrice.
— Lei si bucherà il dito: e potrebbe essere più attenta ai suoi arnesi. —
Luisetta Deste tossiva, come se affogasse: vedendo entrare le ispettrici aveva ingoiato un grosso pezzo di pane e un pezzetto di provola, per traverso; e rossa, con le lagrime negli occhi, si schiantava a tossire.
— Che ce l’ha sempre, questa tosse? È cronica? — domandò la vecchia gobba.
— No, per grazia di Dio, — ribattè quella, fra gli schianti, — non ho mica cinquant’anni, io.
— Signorina Vetromile, come è che ella adopera il filo nostrano? Non lo sa che deve adoperare il filo inglese? Che trascuranza è questa? Ah, proprio, proprio non ci vogliono dare importanza ai lavori donneschi? Vedranno, vedranno agli esami, che fioritura di riprovazioni! —
E le due noiose, dal cervello meschino e dal cuore inerte di donne senza maternità, le due donne inutili e tormentatrici, passo passo, alunna per alunna, trovarono modo di fare qualche osservazione acerba, qualche personalità offensiva: alunna per alunna, esse le contristarono tutte, con la frase, con l’intonazione, col lusso sempre più posto in evidenza dei loro vestiti, con certe squadrature da capo ai piedi, con certe smorfie di nausea, con certi cenni altieri del capo, con certi gesti eleganti delle mani. Quella visita fu tutta una amarezza: quelle che contavano studiare, non potettero; le affamate dovettero rinunziare alla colazione, avendola sotto il banco, nascosta, senza poterla mangiare; quelle che quei vano, perfino le zelanti, furono amareggiate, per gli aghi, per il sopraggitto, per le filze. Finanche Isabella Diaz, che rammendava un brano di castoro, lavoro delicatissimo, fu criticata pel modo come tirava il punto: e la gobba dal mento peloso, ne guardò la parrucca con un disprezzo profondo. Sulla porta, la marchesa, con voce cattedratica, pronunziò un fervorino, ricordando a quelle fanciulle che la loro triste condizione le obbligava a fare le maestre, che non avessero la superbia di credersi indipendenti e libere e che cercassero di conciliarsi la indulgenza delle persone importanti e rispettabili, le quali si sacrificavano per loro, per loro che in fondo erano tante ingrate.
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La faccia di De Vincentiis era molto arcigna, quel giorno. Con la primavera, gli umori acri gli avevano assalito gli occhi e lo avevano costretto a non smettere mai gli occhiali azzurri: e i dolori dell’artrite, erano penetrati nelle ossa. Egli zoppicava, appoggiandosi ad un bastone, tutto avvolto in un grosso cappotto di lana, con una sciarpa di lana al collo e alle mani, i guanti di castoro foderati di flanella: per la contrazione nervosa, il lungo pizzo pepe e sale si muoveva. Ma le ragazze non ne avevano molta paura, quel giorno: la lunga e difficile lezione sulla radice quadrata, tutte o quasi tutte la sapevano, tanto egli l’aveva chiaramente spiegata, con la sua precisione di matematico. E per la importanza della lezione da dover dire e per vederlo così affannato, così malaticcio, una certa sicurezza mista di pietà nasceva nel loro animo: sicurezza che poco tempo sarebbe a lui rimasto per spiegare la nuova lezione e che forse, non sentendosi bene, non ne avrebbe neppure profittato. Questo le rincorava, perchè se avesse assegnato molta roba nuova, per due giorni dopo, giammai avrebbero potuto impararla, mancava il tempo, sarebbe stato un disastro. Dolcemente, Judicone gli chiese come si sentisse, gli offrì il berretto di lana per la testa, già un po’ calva: egli soffriva assai, si vedeva, ma si vinceva, neppure il pizzo aveva più quel moto nervoso. Quando chiamò De Sanctis a dire la lezione, costei si alzò, tutta vivace, andò alla lavagna, volle dimostrare il teorema: il professore la interruppe sul principio, dicendole seccamente basta, chiamandone un’altra. Così per la seconda, per la terza, per la quarta: appena egli si accorgeva che la lezione la sapeva, interrompeva l’alunna, la rimandava al posto.
Le altre cominciavano a guardarsi in viso, sgomente: il loro piano innocente falliva, le loro previsioni erano disperse. Quasi quasi desideravano che la chiamata non sapesse la lezione, che incespicasse, che il professore gliela facesse dire tutta, per correggerla: ma che! La classe era in un momento di felicità aritmetica, il professore ascoltava, quasi sorridente, nella consolazione del suo cervello algebrico e del suo cuore di docente. Alle due, quando ancora ci voleva un’ora per finire la lezione e la scuola, tutto era detto; le alunne, esterrefatte, videro alzarsi quel vecchietto tutto contorto dall’artrite, tutto ravvolto nelle sue lane, cavare una mano tutta nodosa e rossa dal guanto, scrivere una lunga formula aritmetica sulla lavagna, udirono una forte pronunzia cilentana che cambiava il d in erre e metteva un gh innanzi a ogni e, enunciare il teorema fondamentale della terza potenza:
— Il cubo di un numero, diviso in due parti, è uguale al cubo della prima parte, doppio prodotto della prima per la seconda, doppio prodotto della seconda per la prima, cubo della seconda parte.
E da quel cumulo di ossa sconquassate, da quella testa i cui occhi poco vedevano più, da quella mano disfatta, contraffatta, da quel cervello tanto lucido che nulla poteva vincere, uscì, per un’ora, una dimostrazione precisa, insistente, continua, sempre più complicante le formole e le sottoformole del teorema. La lavagna era piena zeppa di cifre, di disegni aritmetici, di radicali, di lettere: sulla fine, egli dovette restringere la scrittura, non vi entrava più. La malattia non gli cavava un lamento, non gli infliggeva una sospensione: egli andava, andava come un vecchio meccanismo, la cui ruota fondamentale è ancora solida. Egli si fermò quando suonarono le tre all’orologio e la campana suonò la chiusura della scuola: si fermò e uscì. Esse.... non uscivano. Guardavano la lavagna, inebetite, accasciate.
III.
Fingevano, chi la tranquillità, chi la disinvoltura, chi una indifferenza assoluta: tutte fingevano, come meglio sapevano e potevano, per nascondere la paura, l’inquietudine, la tristezza, la nervosità. Riunite in due o tre gruppi, sedute a caso sui banchi in disordine, nella sala del Terzo Corso, esse fingevano di ammirarsi scambievolmente, una pel vestito nuovo, tagliato e cucito in casa, l’altra per una mantellina di trina, fatta ad applicazione, l’altra pel cappellino nuovo che costava in tutto nove lire e cinquanta, la quarta per certa sciarpetta ricamata nei piccoli, brevissimi intervalli d’ozio; parlavano dei bagni di mare, a Santa Lucia, al Chiatamone, alla Riviera di Chiaia, a Posillipo, combinavano delle comitive, per spendere meno e per divertirsi di più: ogni camerino costa una lira: diviso per quattro, si tratta di cinque soldi al giorno, per ognuna, e si va a piedi, che importa? Parlavano del grande divertimento estivo, serotino ed economico, che è il desiderio delle fanciulle borghesi napoletane, la Villa, la Villa col gas, con la musica, con la folla delle ragazze e dei giovanotti, con le sedie di ferro che costavano un soldo, e il mare e la luna che non costavano niente. Sì, cercavano di aver l’aria disinvolta: ma sotto tutti quei sorrisi, il tormento trapelava, sotto quei discorsi di vestiti, di bagni, di seratine, trapelava il pensiero angoscioso, l’altro, quello per cui nessuna di loro aveva dormito alla notte, quello per cui si erano affaticate otto mesi in cui negli ultimi due mesi estivi, giugno e luglio, avevano sgobbato, dalla mattina alla sera, sui libri, sui quaderni, sui sunti, sulle formole; il pensiero profondo e dominante, per cui in quel giorno chiamate in iscuola alle nove, si erano alzate alle sei, erano uscite di casa alle sette, e dopo molti giri di passeggiata erano tutte capitate lì, alle otto, un’ora prima. Quello era il giorno dell’esame orale, pel diploma superiore. E l’esame, l’esame, era il pensiero pauroso, angoscioso, profondo e dominante.
Tanto che, non reggendo a lungo la finzione in quelle anime giovanette, involontariamente, non vergognandosi più, nella comune inquietudine, ognuna si abbandonò alla propria. Pallida e sgomenta Annina Casale, appoggiata ai vetri della finestra, guardava nel cortile, senza vedere; e Caterina Borrelli, la sua prepotente amica, per darle coraggio, la sgridava:
— Sei una stupida ad aver paura. Non hai studiato tutto l’anno? Di che ti spaventi?
— Di tutto.
— E tu fa una cosa: pensa che gli esaminatori di là, ne sanno tutti meno di te. Ci pensi? Cerca di convincertene e non avrai più paura. Hai capito?
— Sì: ma non lo penso.
— Pensane un’altra: riproveranno anche me. Faremo l’esame di riparazione insieme; ci prepareremo insieme.
— Ma che, ma che, vuoi che ti riprovino, te, che sei così brava e così ardita?
— Ti assicuro che mi riproveranno, Nannì: ho un cattivo presentimento. —
Altrove, parlando a voce bassa, ognuna narrava il proprio terrore speciale.
— La pedagogìa, la pedagogìa, certo sono riprovata in pedagogìa, — diceva la De Sanctis, come se parlasse a sè stessa. — Non l’ho mai capita, vi ho perduto sopra ore e ore, anche questa notte non ho dormito per ripassare tutto il volume. E se mi domanda i metodi di lettura, che gli rispondo? Io non so nulla nè dei giardini d’infanzia, nè del sistema simultaneo....
— Per me, le difficoltà sono le scienze fisiche, — soggiungeva Carolina Mazza, — è uno studio troppo
complicato, per imparare bene l’ottica si dimentica l’acustica; l’elettricità, poi, vi confonde la testa e non si capisce più nulla....
— Io sono stata sempre sfortunata, per la storia, — esclamava Mercanti, — scommetto che mi domandano le Crociate, quelle maledette crociate, quanto sono state, nove, quindici, trentaquattro?
— E l'aritmetica, l’aritmetica, vi pare una cosa da scherzo? — chiese Luisetta Deste, sorridendo amaramente.
— Oh Dio, l’aritmetica! — ripeterono in coro quattro o cinque, di cui lo sgomento cresceva.
Intorno a Checchina Vetromile, altre si erano riunite e incalzate dall’incubo dell’esame, con la testa vuota a furia d’aver troppo studiato, si chiedevano e si davano certe ultime spiegazioni, di lettere italiane, di geometria, di chimica, finendo di stordirsi. Checchina Vetromile aveva descritto a Cleofe Santaniello, il termometro, minutamente; la Pessenda aveva due volte raccontato a Emilia Scoppa la calata di Carlo Ottavo in Italia. Scapolatiello, presso la lavagna, aveva fatto vedere a Carmela Fiorillo, come si trova il raggio minore del tronco di cono; e quelle che ascoltavano, assorte, come in sogno, ripetevano, balbettando, la spiegazione. Sola, in un angolo, Giustina Marangio, già uscita di collegio, già vestita di nuovo, si dondolava sopra una sedia, canticchiando: sola, in un cantuccio. Isabella Diaz, che aveva ricucito dei nastri ritinti in verde, al suo vecchio cappello, stringeva nelle mani la sua borsetta. Poi, come suonavano le nove, un silenzio profondo si fece: la bidella Rosa comparve sotto la porta, con una carta in mano e lesse i primi quattro nomi:
— Abbamonte, Barracco, Bellezza, Borrelli, all’esame! —
Abbamonte si fece pallida, Barracco si segnò rapidamente, Bellezza prese il suo ventaglio con un’aria convulsa, Borrelli dette un bacio a Casale, e si rizzò risolutamente gli occhiali sul naso: tutte e quattro si avviarono, senza parlarsi. Sottovoce, Isabella Diaz disse loro, mentre passavano:
— Dio vi assista! —
Le altre non dissero nulla, già tremanti, senza fiato, non ricominciarono a parlare che dopo dieci minuti. Casale, avendo perduto anche l’incoraggiamento di Borrelli, s’era seduta sullo sporto della finestra e diceva fra sè delle avemmarie. Carolina Mazza raccontava la disperazione di Nobilone, la povera Nobilone che era stata riprovata all’esame scritto e non era passata all’esame orale; un anno perduto, tante speranze svanite.
— E che farà la povera Nobilone? — chiese Donnarumma.
— Che deve fare? È stata riprovata in quattro materie, come può prepararsi, in tre mesi, alla riparazione? Dovrebbe pagare dei maestri: poveretta, ha così pochi quattrini!
— Potrebbe far l’esame di telegrafista, — suggerì Defeo.
— Giusto! Tre mesi di scuola, pagando venti franchi il mese, libri, maestri, quattro posti, e trentacinque concorrenti.
— È vero, è vero, — mormorarono due o tre.
— O dovrebbe andarsene agli asili, — soggiunse Mercanti.
— Sì, sì, cinquanta lire il mese, e la ritenuta, e la salute rimessa!
— È vero, è vero, — ripetevano le altre, a bassa voce.
E ognuna, in sè, provava uno scoramento profondo; ognuna pensava a quello che le resterebbe da fare, essendo riprovata. E all’idea morale dello scorno che faceva salire il rossore al loro volto, si sovrapponeva quella materiale, più urgente, del bisogno che stringeva loro il cuore; ognuna pensava a quel lungo sacrificio di tre anni, andando a letto tardi per studiare, levandosi presto quando s’aveva voglia di dormire, uscendo con la pioggia, col freddo, con l’umido, senza ombrello, senza mantello, con le scarpe sottili, con la tosse, mangiando poco, risicando il soldo per comprare i libri e rinunziando a un cappello, per avere una scatola di compassi. Che schianto, la riprovazione! Che fare, dopo? Dove trovare i quattrini, la pazienza, la volontà, la forza per continuare quella vita, un altro anno? Come ricominciare quell’ansietà degli esami, pel telegrafo, per gli asili?
Quaranta minuti erano passati, la bidella Rosa comparve sotto la porta e lesse altri quattro nomi:
— Casale, De Donato, Defeo, De Sanctis, all’esame! —
Ma l’uscita di queste altre quattro fu poco osservata, niuna badò alla titubanza malinconica di Annina Casale, alla rassegnazione muta di Defeo, alla falsa aria di sicurezza della De Donato che aveva una paura immensa, all’aria di povera bestia che va al macello di De Sanctis: ritornavano quelle già esaminate, l’interesse era intorno a loro, furono subito circondate. Abbamonte, nel corridoio aveva incontrato il suo vecchio padre, un ufficiale pensionato, e si era buttata nelle sue braccia: ora passeggiavano su e giù, il padre appoggiandogli amorosamente la mano sulla spalla, lei con l’aria beata, tutta rossa nella faccia, con gli occhi fuori della testa. Le altre erano in classe: Barracco pallidissima; con una macchia rossa sulla guancia destra, come la striatura di uno schiaffo; Borrelli, l’aria gloriosa, una treccia mezza disfatta e la cravatta arrivata sulla spalla; Bellezza, rossa rossa, con l’aria indecisa. E attorno fiottavano le domande, tutte volevano sapere, se i professori erano burberi, se i problemi erano facili, se chiedevano quello che era nel programma, se il direttore era nervoso, se i dieci minuti di esame presso ogni esaminatore passavano presto, se la geografia si diceva sulla carta.
— Niente, niente, — narrava convulsamente Barracco. — La geografia è nulla, figuratevi, mi hanno chiesto i fiumi della Spagna, chi non li sa? De Vincentis, al solito, è un po’ collerico, ma si vede che non vuol fare sfigurare la scuola....
— Il male è la pedagogìa, — soggiunse Borrelli. -— Estrada ci ha fatto un bel servizio, con le sue poesie: invece l’esaminatore è severissimo; vi giuro, che se non improvvisavo un poco, così, a casaccio, ero riprovata. Scusate, ci ha mai spiegato che cosa era la riflessione ontologica?
— No, mai, mai, — risposero tre o quattro, guardandosi fra loro, — questo Estrada ci ha rovinate!
— Un consiglio vi dò — continuò Barracco, la nevrotica, — non rispondete mai precipitosamente, è male, l’esaminatore vi guarda con una brutta faccia, vi domanda troppe cose, e il tempo non passa mai. Io ho risposto troppo presto, ho dovuto dire tutto il sistema di Linnèo, non finiva mai....
— Vi è anche dell’intoppo alla letteratura italiana; ma lo immaginavo, non ve lo avevo sempre detto, che Radente era una bestia? — esclamò Caterina Borrelli. — Figuratevi che vogliono sapere tutta la storia della letteratura italiana, che non abbiamo mai studiato. Oh quel Radente! Ma perchè non lo destituiscono?
— Non vi preoccupate della storia sacra e della morale: le domande sono facili, — mormorò Barracco.
— Non vi preoccupate più di nulla, l’esame è meno difficile di quel che pare, — esclamò allegramente Borrelli. — Io dovrei andarmene, ma voglio aspettare l’esito di Casale e di due o tre altre. Ora scrivo un biglietto a mamma, per dirle che tutto è andato bene. O povera mamma, questo la consolerà! —
E la voce le s’intenerì sino al pianto: la Barracco, che era presso a lei, si fece livida, tremò, strinse i denti, disse con voce straziante: — O mammà, mammà! — poi si arrovesciò sopra un banco e svenne. La crisi nervosa, scongiurata per tre ore, era venuta a quel nome di mamma: e la Barracco aveva riveduto, come in un sogno truce, il suicidio di sua madre, la misera donna che, diventata vedova e povera per la morte di suo marito, avendo cinque fra figliuole e figliuoletti, che non sapeva come far vivere, si era buttata giù, sul selciato, dal balconcino di un ignobile albergo, in un vicolo dei Guantai. Nella convulsione, di sotto le palpebre abbassate, sulle guancie della Barracco scendevano grosse lagrime, e le compagne, intorno, non sapevano fare altro, dopo averle aperto il vestito, che farle odorare una rosa che portava sul petto la Mercanti. L’avevano approvata, la Barracco, ma non era possibile esser mai felice, mai più, con quella tetra visione della madre sfracellata, giù nella via: tutte parlavano sottovoce della tragedia, Borrelli bagnava le tempie di Barracco con un fazzoletto molle di acqua. E Bellezza non sorrideva, non piangeva, aveva sempre il suo contegno di persona dubbiosa: e dentro di sè sospettava, sospettava forte di avere sbagliato tutta la dimostrazione di aritmetica. Non osava domandare a Checchina Vetromile, se bastava il metodo di falsa supposizione, a risolvere quel problema di regola di società: non osava, temendo di aver la certezza del suo errore.
— Deste, Diaz, Donnarumma e Fiorillo! — chiamò la bidella.
Tutte si rivolsero a veder passare Isabella Diaz. In verità era così laida col suo viso senza ciglia e senza sopracciglia, di un pallore giallastro e come untuoso, con quella vecchia parrucca rossastra, con quel cuffiotto di merletto di cotone dai nastri verde-pisello, che facea nausea: e con lei Luisetta Deste era così carina nella sua bellezzina piccoletta, Carmela Fiorillo era così simpatica coi suoi occhi andalusi e le sue labbra vivide come il fiore del melagrano, Argia Donnarumma era così forte e piacente nella sua robustezza, che Isabella Diaz parve più brutta, più meschina, più ripugnante in quel contrasto. Ora Casale era ritornata dall’esame e De Sanctis e Defeo e De Donato: le notizie erano sempre più contraddittorie, Defeo si era imbrogliata giusto alla Storia Sacra, una materia così facile; Casale aveva fatto sforzi di valore, ma giusto alla storia, non aveva potuto ricordare il nome della battaglia, a cui aveva preso parte Dante Alighieri.
— Campaldino, stupida, Campaldino! — strillava Borrelli.
De Donato se ne stava tranquilla, sapeva di aver risposto mediocremente, ma sapeva anche di essere stata approvata a stento, in tutte le materie. Che fanno i punti? Sono una sciocca questione di amor proprio, basta aver un diploma. In quanto a De Sanctis il fenomeno di trasformazione era completo: con le guancie accaldate e gli occhi lucenti, ella narrava che aveva risposto benissimo a tutti: e le compagne, sapendo la sua inettezza, si guardavano, scettiche, senza che ella capisse.
— Figuratevi, — diceva lei, esaltata, — il professore di scienze fisiche mi domanda: qual’è l’istrumento con cui si misurano i gradi di calore della temperatura? Il barometro: rispondo io. Chi lo ha inventato? Lo hanno inventato in molti, il signor Celsius, il Torricelli, il Réaumur. E gliel’ho pure descritto. Benissimo. Alla pedagogìa lo stesso. Qual’è la legge fondamentale dell’istruzione? Vi sono varie leggi, la legge psicologica, le riassume tutte e il signor Froebel ne ha fatto lui l’applicazione ai metodi di lettura. La storia, la storia? La battaglia di Gavinana e Pier Capponi che esclama contro Malatesta Baglioni: tu uccidi un uomo morto! Alla geografia: gli Appennini, sissignore, cominciano dal Colle di Tenda, finiscono in Calabria. E io che mi spaventava tanto! L’esame è una sciocchezza, andatevi di cuor contento. —
E le altre non osavano dirle, per non disilluderla quale strano pasticcio ella aveva fatto di termometro e di barometro, che imbroglio nella pedagogìa, nella storia, nella geografia, essa aveva impastato; e l’ascoltavano con un sorriso pietoso, stravolgere tutto, chiacchierare, chiacchierare, come un’oca stordita e chiassosa. La esaltazione di quelle che ancora dovevano fare l’esame cresceva sempre più, a tanti spettacoli, a tante notizie, a tante contraddizioni; e mentre il calore di quelle che avevano già finito, si allargava in un’allegrezza nervosa, il pallore delle esaminande, il loro silenzio aumentava. Ormai non pensavano più a ripassare quel tale brano ancora oscuro della storia, non si curavano più di farsi dire, da Checchina Vetromile, come agisce la luce sulle piante: tutto era inutile, ormai, tutto era deciso, non avrebbero mai più imparato niente, sapevano quel che sapevano, sarà quel che sarà, una specie di sfiducia di tutte le cose, vinceva quelle anime, scosse da un turbamento profondo. E come il tempo passava, la giornata fatale si complicava sempre più di avvenimenti: vi era il caso di Luisetta Deste, la bellina che non aveva mai studiato niente, salvo qualcosellina, un po’ qui, un po’ là, a spizzico, tutta intenta alla civetteria e agli amoretti, e che aveva avuto la fortuna di sentirsi domandare giusto le pochissime cose che sapeva e di essere approvata, come se fosse stata la più zelante, la più studiosa fra le alunne — e tornando, ridacchiava, la sfacciatella, e si burlava degli esami e degli esaminatori e del diploma e di tutte le cose scolastiche, noiose e odiose; il che contristava le buone fanciulle che avevano perduta la salute a studiare. Vi era il caso della Scapolatiello, che giusto la sera prima, aveva sentito in casa l’annunzio delle nozze di sua sorella, con quel giovinotto che ella adorava silenziosamente; si sposavano in settembre, non vi era più rimedio, e questa notizia le aveva sconvolto talmente la testa, che era andata all’esame come una trasognata, senza intender nulla di quello che le chiedevano, trasalendo ogni tanto dolorosamente e pigliando una riprovazione coi fiocchi: in un angolo della terza classe, la infelice, senza piangere, senza sospirare, andava ripetendo che le restava solo la morte. Vi era il caso delle due sorelle Santaniello, l’una già tisica, che quell’anno di lavoro aveva disfatta e a cui gli esaminatori avevano dato il diploma quasi per pietà, guardandola con commiserazione e parlando sotto voce fra loro, mentre quella restava lì, tutta imbarazzata, tutta vergognosa della sua malattia: e l’altra anemica, timida, intelligentissima, senza coraggio, a cui gli esaminatori avevano dovuto strappare le parole ad una ad una, con sforzi immensi, tanta era la confusione e il timore della poverina. E vi era il caso di Giustina Marangio, la quale, giunta innanzi alla lavagna dove Fraccacreta, prima di lei, aveva trovato la superficie della piramide, aveva fatto osservare al professore un errore nella dimostrazione, a cui egli non aveva badato; aveva rifatta lei, vittoriosamente, questa dimostrazione, e per causa sua Fraccacreta aveva preso cinque in geometria.
Poi, tutte quante, felici o infelici, pensierose o allegre, guardandosi in cagnesco, serbandosi rancore, invidiandosi, amandosi, avevano aspettato le tre, per leggere la sentenza, il risultato officiale dell’esame affisso nel cortile. Tutte, più o meno, lo sapevano, questo risultato, ma un’ultima curiosità le mordeva. E De Sanctis restò stupefatta, avendo preso dei cinque, dei quattro, persino degli zeri, in tutte le materie: e la meraviglia di tutte fu che Isabella Diaz, avendo avuto il massimo dei punti, era riuscita la prima.
IV.
Tre anni dopo, da un taccuino di note, di memorie, di ricordi:
.... la Judicone ha fatto il concorso, è riuscita fra le prime, e ha insegnato per un anno nella scuola elementare del quartiere Porto, in prima inferiore. Dopo, ha subito sposato un impiegato del Banco di Napoli, e in due anni, ha avuto due figliuoli. Si è molto ingrassata.
.... Emilia Scoppa ha fatto il concorso per maestra, non è riuscita; ha concorso ai telegrafi, neppure è riuscita. Si è allogata come commessa nei magazzini di Miccio, al riparto delle confezioni e quando vede le sue antiche compagne di scuola si vergogna, e si nasconde.
.... la Pessenda non potendo aspettare il concorso, ha subito accettato il posto di maestra rurale, nel comune di Olevano, nel Cilento, con cinquecento franchi all’anno di retribuzione. Nel grave freddo di due anni fa, non avendo potuto ottenere una indennità per il fuoco, in casa, dopo avere invano scritto più volte all’ispettore scolastico e al provveditore, per qualche sussidio, la vecchia madre le si è ammalata di bronchite e le è morta. Nell’anno seguente, il comune di Olevano, avendo dovuto sopportare qualche spesa maggiore nel bilancio, ha diminuito di cento lire la retribuzione della maestra elementare; la Pessenda è rimasta, contentandosi di quello, in mancanza di meglio, visto che non vacavano altri posti di maestra rurale e che i concorsi in città si facevano sempre più difficili. Nell’estate ultima, la Pessenda non ha usufruito delle vacanze non avendo forse mezzi per recarsi in Piemonte: nell’agosto è stata presa dal tifo petecchiale, che è stato mal curato dal medico condotto. Essendosi nel paese diffusa la voce che la sua malattia era contagiosa, ella è stata abbandonata da tutti, anche dalla contadina che veniva a fare i grossi servizi; quindi non si può bene accertare il giorno della sua morte, avendola poi ritrovata morta e quasi nera, sul letto, in una stanza senza mobiglio, con le finestre aperte e un lume spento, per terra, in un angolo.
.... Caterina Borrelli e Annina Casale non hanno fatto il concorso per maestre: hanno concorso ai telegrafi, sono riuscite, vi sono da tre anni. La Borrelli è una impiegata intelligente ma insolente: la Casale è, invece, eccellente nel lavoro e nella condotta.
.... Cleofe Santaniello ha fatto il concorso, è riuscita fra le ultime, fa la maestra nella scuola elementare di Montecarlo, nella prima classe inferiore. Ella è senza forza morale, senza nessuna energìa, le sue alunne la fanno dannare e la fanno sempre sfigurare agli esami: di più, è sempre malaticcia, manca spesso, nell’inverno. Un giorno ha avuto un deliquio in classe. La direttrice della sua scuola e i suoi superiori sono malcontenti di lei: hanno dovuto darle un aiutante, per un mese, a sue spese. È sopportata per la sua dolcezza e per la miseria in cui versa.
.... Lidia Santaniello non ha fatto il concorso, essendo ammalata di bronchite. Guaritasi, le hanno concesso il posto di maestra d’asilo nel quartiere Mercato, con l’annua retribuzione di lire seicento. Le alunne e gli alunni erano centotrentaquattro: ella ha chiesto invano un aiuto, nella sua sezione, non potendo reggere a quella immensa fatica. La continua vociferazione, il dover insegnare le canzoncine a centotrentaquattro piccini, cantando ella stessa, il dover loro insegnare la ginnastica, gesticolando, battendo i piedi in terra, battendo palma a palma, il doverli condurre in ricreazione in un grande cortile umido, girando per un’ora intorno a un pozzo, hanno finito di demolire una salute già minata. Ella ha continuato ad andare in iscuola malgrado la sua infermità, non avendo il coraggio di abbandonare le creaturine, che amava moltissimo, contentandosi d’insegnar loro, a voce fiochissima, senza potersi levare dal suo posto, le brevi canzoni infantili: e spesso i piccini e le piccine sono stati quieti tutta una giornata, solo perchè la loro maestra li aveva pregati di star tranquilli, sentendosi molto male, poichè quelle creaturine l’amavano moltissimo. Quando si è dovuta mettere a letto, non potendone più, alla sua povera casa è stato un viavai di bimbi e di bimbe che venivano, zitti zitti, a visitare la maestra: ella, non potendo parlar loro, perchè questo la stancava, li faceva seder attorno al suo letto e li guardava sorridendo loro: essi tacevano per non disturbarla. Quando è morta, sei mesi fa, il municipio ha fatto le spese dell’esequie: i bimbi si sono quotati d’un soldo, per portarle dei fiori e hanno seguito tutti il feretro, due per due, tenendosi per mano, come quando essa li conduceva in ricreazione attorno al pozzo; e hanno cantato le canzoncine che ella aveva loro insegnato con la sua voce consumata.
.... la De Donato, non arrischiandosi a fare il concorso, è andata a dirigere la scuola elementare di Avellino; dà qualche lezione di canto alle ragazze più agiate del paese, e canta ella stessa le romanze di Tito Mattei, Non tornò e Non è ver, alla Filarmonica avellinese.
.... Carmela Fiorillo non ha fatto il concorso, è stata per un anno maestra rurale a Gragnano, ma essendosi innamorato di lei il figliuolo di un ricco fabbricante di paste, ha dovuto partire dal paese e recarsi a far la maestra in un villaggio dell’Alta Savoia, con la retribuzione di quattrocento lire annue. Non essendovi casa nel villaggio dove era la scuola, ella abitava al villaggio vicino, e doveva far quattro miglia ogni mattina e ogni sera, per andare e venire. Nell’ultimo inverno, un giorno verso le tre, ritornandosene a casa, è stata sorpresa da una tempesta di neve: e sia il freddo, sia la stanchezza, sia il difetto di cibo, perchè non aveva mangiato dal giorno prima, ella è caduta sulla via e si è lasciata morire, per debolezza, per assideramento: gli alpigiani l’hanno raccolta due giorni dopo. Il municipio le ha decretata una piccola lapide di marmo, visto il suo zelo e l’amore alle sue umili fatiche.
.... Giustina Marangio ha fatto il concorso, è riuscita una delle prime, insegna nella scuola elementare del quartiere Chiaia, nella terza classe, e ha ottenuto finanche che la direttrice della scuola fosse traslocata a Portici, assumendo lei la direzione, con una indennità. È lei che inventò un nuovo metodo di punizione delle bambine: metter loro sul capo lo strofinaccio sudicio d’inchiostro, di polvere di gesso, con cui si puliscono i banchi e le lavagne. Ed è anche lei che ha inventato un nuovo metodo, per non far tardare le alunne, alla scuola: si mette alla porta, con l’orologio in mano, e a chiunque arriva dopo le otto, sequestra la colezione implacabilmente. Molte bimbe hanno disertato, dopo questo.
.... Bellezza, Fraccacreta, Jaquinangelo, hanno ripetuto il terzo anno di corso: Fraccacreta è chiusa nel convento delle monache a Sant’Agostino alla Zecca, e vi fa la maestra. Nessuna notizia di Bellezza e di Jaquinangelo. De Sanctis ripete, per la terza volta, il terzo anno di corso.
.... Teresina Ponzio, l’innamorata del sole, ha fatto il concorso, è riuscita, ha insegnato, nella scuola del quartiere Vicaria, in prima superiore, con risultati mediocri, per disattenzione. Nel medesimo tempo ha pubblicato delle poesie amorose in un giornaletto letterario, intitolato l’Alcione, e una novella sentimentale, intitolata Amor sprezzato, in un opuscolo, dall’editore Carluccio di Napoli, con la dedica: a te, che non devi amarmi. Due volte essa è stata chiamata dal provveditore e biasimata per queste sue pubblicazioni esaltate, ma nulla si è ottenuto. Un giorno mentre l’ispettore scolastico visitava la sua classe, esaminando le alunne e trovandole molto indietro nello studio, come trascuratissime nella condotta, la vide nascondere in fretta un foglio bianco sotto il registro di presenza: richiesta di consegnarlo, si è turbata, ha pianto, ha dato il foglio. Era un lettera d’amore a un noto uomo napoletano, ammogliato e con prole: e sebbene si trattasse di un amore non corrisposto, pure esso denotava nella Ponzio un colpevole traviamento, incompatibile con le sue delicate funzioni di educatrice. Ella è stata destituita. Perdute le sue traccie.
.... Luisetta Deste. Entrata come istitutrice in una famiglia ricca: ne sposerà, fra giorni, un vecchio parente che ha, per lei, diseredato quattro nepoti. Sempre carina.
.... Mazza: recita in una compagnia di terz’ordine, nei teatri di provincia. Era ad Albenga, ultimamente.
.... Mercanti. Insegna nel Ritiro di suor Orsola Benincasa; sua matrigna e sua cognata avendo fatto di tutto per cacciarla di casa. Nelle giornate di vacanza fa dei fiori artificiali: è stata premiata all’ultima Esposizione di Milano.
.... la Barracco. Non ha potuto aspettare l’esito del concorso, è andata come maestra in un comune di Calabria Citra. Pare che il clima un po’ rigido nell’inverno le avesse danneggiato molto i nervi: ha fatto due o tre volte la domanda per essere traslocata, ma non ha potuto ottenere nulla. Ella ha scritto delle lunghe lettere all’ispettore, al provveditore, al ministro, scongiurando tutti quanti, che la togliessero da quel tormento: ma in tutto quello che scriveva si notava un principio di forte eccitamento nervoso. Quando l’ispettore è capitato nel suo villaggio, essa gli si è buttata ai piedi, piangendo, convulsa, perchè l’aiutasse in qualche modo a uscire da quell’inferno: l’ispettore, commosso, ha promesso di adoperarsi per lei. Dopo, pare l’abbia dimenticata. L’anno scorso, di marzo, ella ha comperato, in tre volte, dallo speziale, tre paste di cantaridi per vescicanti, col pretesto di infermità: e le ha mangiate tutte tre. Ella ha sofferto due giorni di spasimi atroci, si è pentita di quel suicidio, ha invocato le sorelle, i fratelli, le amiche: ma non è stato possibile di salvarla. Dopo morta, hanno ritrovato il suo giornale; non avendo neppure a chi scrivere le sue pene, ella si dirigeva a un essere immaginario. Il giornale è stato mandato alla sorella più grande; esso è straziante.
.... Maria Valente. Riuscita al concorso, fa la maestra nella scuola elementare del quartiere Avvocata, in prima superiore, con buon risultato, ma senza aver avuto ancora avanzamento, visto la mancanza di appoggi.
.... Abbamonte. Riuscita al concorso fa la maestra elementare nel Regio Educandato dei Miracoli: nulla a dire.
.... Checchina Vetromile. Riuscita al concorso: ha fatto la maestra per un anno, con lode, poi ha sposato un negoziante di calzoleria, che ha una fabbrica nazionale di scarpe e ne manda anche all’estero. Checchina tiene i conti, tiene la corrispondenza e sorveglia la vendita: quando le sue compagne di scuola vanno a comperare le scarpe da lei, fa loro risparmiare qualche cosa e annoda lei stessa il pacchetto, con un nastro azzurro.
.... la Scapolatiello. Non ha fatto concorso, non ha ripetuto il terzo corso, non ha fatto esame di riparazione, non ha preso neppure il posto in qualche asilo. Nel settembre, sua sorella si è maritata ed è rimasta in casa: essendo povera gente, non sono andati a viaggiare, gli sposi hanno fatto la luna di miele in casa. La Scapolatiello ha manifestato l’intenzione di farsi suora di carità, ma le mancavano i quattrini per la dote. Un giorno che, dopo tre o quattro tentativi inutili per riuscire a qualche cosa, ella stava sul balcone, al quarto piano, con sua sorella e suo cognato, ha detto loro: «vado un momento sul terrazzo». È salita al quinto piano, sul terrazzo, ha scritto sopra un pezzettino di carta: vi voglio tanto bene, non mi dimenticate, ha arrotolato questo fogliettino, ha chiamato da sopra sua sorella, le ha sorriso, le ha mandato un bacio, ha buttato prima il fogliolino nel balcone, poi si è buttata giù, lei, nella strada. La sorella e il cognato se la son vista precipitare innanzi, come un fagotto di cenci. Dev’essere morta prima di giungere in terra, per la congestione cerebrale.
.... Isabella Diaz, La prima riuscita nel concorso. Passata subito a insegnare in quarta classe, alla scuola del Gesù. Risultati eccezionali. Semplificato il metodo di sillabazione, modificato l’insegnamento della geografia, in meglio. Fondato un giardino d’infanzia a Portici e un asilo a Pozzuoli, riordinate le scuole di Sarno. Sempre orrenda. Prima medaglia d’oro, all’ultima esposizione pedagogica. Direttrice della scuola più popolosa di Napoli: da lei parte la prima abolizione dei vecchi metodi punitivi.