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scuola normale femminile 219


Era Giustina Marangio, la fanciulla livida, dalle labbra sottili, dagli occhi bianchi. Una meraviglia dolorosa colpì le ragazze, per quella defezione, per quel tradimento: lo stesso direttore aggrottò un po’ le sopracciglia, come infastidito. E Giustina Marangio salì prestamente sulla cattedra, guardò la macchina di Atwood, con un piglio beffardo; con la sua vocetta di lima stridente, senza fermarsi mai, senza sbagliare mai, descrisse quel sistema di ottone e di acciaio, minutamente, precisamente, non tralasciando nulla, applicando la teoria alla pratica, girando attorno alla forca, attaccandosi ai più piccoli pezzi di quel meccanismo. Alla fine, quando Giustina Marangio inclinò la macchina per mostrarla meglio alla classe e vi stese, sopra, il piccolo pugno chiuso, dall’indice teso, ella parve più forte e più malvagia di essa.

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Per la ricreazione, la classe si era vuotata. Le convittrici erano andate a passeggiare in convitto: le esterne passeggiavano in quel corridoio-budello. In tutto, non vi erano che trenta minuti di ricreazione, da mezzogiorno alla mezza, per andare su e giù, nella penombra, in file di quattro o cinque, o in coppie di due. Qui le simpatie, le amicizie si pronunziavano. Amelia Bozzo era scappata via dal primo corso, e passando accanto a Caterina Borrelli, le aveva consegnato un biglietto che diceva: se non mi vuoi bene, o impazzisco o muoio. Le sante, in fila, ancora tutte contrite dello scandalo avvenuto durante la lezione di scienze naturali, cercarono di distrarsene, parlando della prossima Settimana Santa e delle commoventi funzioni religiose. Scapo-