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216 scuola normale femminile


nate lungo la persona, guardando la macchina, con occhi pieni di desiderio e di dolore. Non era arrivata neppure a descriverne una terza parte. Il professore si carezzava la barbetta bionda, con un moto nervoso che gli era abituale: un po’ d’impazienza e un po’ di collera, gli si ammassava nell’animo buono e paziente di uomo che ha vissuto. A questa importante ma difficile lezione della gravità, a queste leggi sulla caduta dei corpi, a questa indiavolata macchina di Atwood, la classe si era impuntata da una settimana, senza poter andar avanti, confusa, stordita, non intendendo più nulla. Già tre volte egli aveva rifatta lungamente la stessa lezione, applicando la teoria alla pratica, smontando il congegno pezzo per pezzo: aveva lasciata la macchina in classe, perchè le alunne potessero esercitar visi, analizzarla liberamente. Ma pareva tutto inutile. Senza dire nulla a Judicone, egli immerse la mano nell’urna e cavò fuori un altro nome: tutta la classe teneva gli occhi fissi su quel fatale rotoletto di carta, ognuna temeva per sè, la macchina di Atwood era troppo diabolica:

— Cleofe Santaniello. —

La piccolina intelligente, studiosa, lasciò il suo posto, dopo aver guardato un’ultima volta il proprio quaderno, dove la macchina era disegnata: Judicone tornò al suo, chinando la faccia nel registro, per nascondere il rossore. Cleofe Santaniello contemplò un minuto la macchina, la tastò due o tre volte con la sua scarna mano di rachitica e incominciò rapidamente, senza guardare in nessun posto, per paura d’imbrogliarsi.

Andò bene per un pezzetto, ma disgraziata-