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scuola normale femminile 199


soffrendo nel loro cuore, senza coraggio per narrare a nessuno la propria pena. Giulia Pessenda pensava a sua madre, una povera vedova piemontese che andava a curar malati e puerpere per due franchi al giorno e arrossiva ancora di aver dovuto presentare la fede di povertà, perchè almeno la scuola le comperasse i libri; Sofia Scapolatiello si struggeva di amore taciturno per il fidanzato di sua sorella; Giuseppina Mercanti era costretta a vivere in casa con un’amante di suo padre, accanto a sua cognata che tradiva suo fratello, fra un fiato di corruzione che divorava l’ingenuità dei suoi sedici anni; Lidia Santaniello, a diciotto anni, sapeva di esser tisica e pregava Iddio che almeno la facesse vivere cinque o sei anni ancora, per lavorare, per aiutare la sua casa, fino a che il fratello crescesse. Non potevano cantare tutte costoro. Ma quella che non cantava mai, era Giustina Marangio, quella faccetta livida di vecchietta diciottenne, quella testolina viperea che sapeva sempre e tutte le lezioni, che non le spiegava mai a nessuna compagna, che non prestava mai i suoi quaderni e i suoi libri, che rideva quando le sue compagne erano sgridate, che i suoi professori adoravano, che non aveva amiche, e che rappresentava la perfidia somma, la immensa cattiveria giovanile, senza vena di bontà, senza luce di allegrezza.

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Dopo il canto, un grande movimento era accaduto, come nella formazione dei ranghi militari: ottantacinque ragazze, tutto il primo corso, erano scomparse nella biblioteca, un vastissimo salone, tutto a scaffali