Il miracolo/Parte seconda/IV
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CAPITOLO IV.
Palmina diceva, servendo a tavola, che presto qualcuno sarebbe morto nei dintorni; perchè la civetta da più notti sentiva odore di carne morente e lo annunziava nel suo brutto linguaggio. Infatti Domitilla Rosa profetizzava di sè nelle divagazioni del suo delirio, che in breve il Divino Sposo l'avrebbe chiamata alla gioia de' suoi dolcissimi amplessi. L'amore di Gesù le dava sussulti e spasimi, ed essa trovava nel delirio frasi di passione quasi peccaminosa per esprimere l'ardore della sua sete spirituale. Si chiamava l'innamorata del dolore, invocava per le sue carni le pene del crocifisso, protendeva le mani aperte, attendendo con sorrisi di estasi che Gesù la onorasse nelle palme del sacrosanto segno delle sue stimate, e, qualunque cosa le offrissero a lenimento de' suoi mali, torceva il capo e mormorava:
— Levate, levate....
Ai primi di settembre, nel cuore della notte, essa, che di solito rimaneva quieta per nulla disperdere del suo patire, cominciò a dare in forti smanie, implorando con voce di pianto di venir coricata sulla nuda terra e di avere intorno alla fronte una corona di spine. Il dolce sposo, fasciato di gloria, stava per arrivare dal cielo e Domitilla Rosa voleva accoglierlo con le membra adorne di abiezione, acciocchè egli l'esaltasse, trasformando il duro suolo in tappeti molli di porpora e la corona di spine in serti aulenti di rose gemmate.
Serena, per placarla, le cinse il capo con una benda e le disse:
— Ecco, povera zia Domirò, eccoti la corona di spine. Domitilla Rosa, beata, si strinse con le mani la benda e mormorò:
— Oh! come punge! Oh! Gesù dolce quali trafitture! Fammi soffrire ancora, Gesù, inebriami delle tue pene! Io sono l'innamorata del dolore; ma il dolore che mi concedi è poco! Ti mostri avaro, sposo dolce, nel farmi gustare gli strazi del tuo martirio!
Serena, porgendole una tazza di latte, la secondò nell'amorosa follìa:
— Ecco, zia Domitilla, questo è fiele. Bevilo in memoria del fiele bevuto da Gesù.
La morente votò la tazza con labbra avide.
— Quanto, quanto è amaro! Di questo ti abbeveravi sulla tua croce, o Gesù amante. È fiele, è fuoco, le viscere mi si torcono. Oh! Gesù buono, tu mi ami, se mi dai strazio!
Il mattino del venerdì, giorno consacrato alla passione del Redentore, Domitilla Rosa, trasfigurata, chiamò Serena e le disse:
— Figliuola, mai più provai consolazione uguale dentro all'anima mia! Di tutto ringrazio il caro Gesù! - e le narrò che, all'approssimarsi dell'alba, Gesù era entrato sotto spoglie umili di pellegrino per l'uscio chiuso, annunziandole che ella sarebbe stata finalmente libera del suo mortale involucro e Gesù avrebbe con lei celebrato nozze fra i cori angelici del Paradiso.
Serena, accarezzandole il viso, le domandò:
— Allora, zia Domitilla Rosa, non vorresti nutrirti un poco per apparire più florida agli occhi del tuo Gesù? - e le porse latte, che la morente bevve con sorriso ignaro.
— Non hai niente da dirmi prima di volare in cielo, zia Domitilla Rosa? Non hai parole da lasciarmi in memoria? - Serena le chiese, prendendole con tenerezza una mano. Domitilla Rosa, che seguiva le sue visioni con l'anima vagante, crollò sui guanciali il capo lievemente.
L'orfana, arrivata un giorno dalle Americhe lontane, e che ella aveva accolta con pietà passiva, come una gabbia aperta accoglie l'uccellino sospinto dal freddo e dalla fame, non la interessava, non la riguardava. Era ombra, era vapore di fango terreno, e zia Domitilla Rosa, involandosi verso i celesti fulgori, non lasciava in dono all'abbandonata giovinetta nemmeno una lacrima di rimpianto.
La domenica, festa della Natività di Maria Vergine, Domitilla Rosa spirò di buon mattino, mentre sulle cime degli alberi cadevano pulviscoli d'oro e la finestra aperta a oriente brillava nella giocondità dei primi raggi.
Aveva vaneggiato l'intera notte, con balbettìo infantile. Chiamava l'amato, invitandolo a sè con detti misteriosi, e forse l'amato era apparso, col giungere del mattino, e si era mostrato a lei dalla finestra, circonfuso di raggi, simile in volto al sole nascente, che rideva all'estrema linea del cielo. Forse ella aveva veduto, fra un corruschìo di aurate frecce, balenar la gloria di Gesù dolce, Gesù amore, perchè aveva fatto cenno di sollevare le palme e aveva bisbigliato:
— Troppa luce! Quanta bellezza! - e gli occhi aperti si erano fissati attoniti, senza più sguardo, come resi vitrei per l'eccesso dei fulgori.
Serena, che le stava accanto, tenendole una mano, sentì le dita diventare fredde, poi rigide e si chinò a mirarla. Capì, ebbe una paura folle, e si mise a correre, uscendo all'aperto con rauchi gridi.
Bindo Ranieri ed Ermanno passeggiavano pel prato a passi lenti e si precipitarono verso di lei, che guardava con orrore la campagna, spaventata nel vedere che non la foglia di un albero aveva cessato di ondeggiare ai sospiri dell'aria. Aprì la bocca per imprecare all'indifferenza delle cose, ma invece chiamò a gran voce zia Domirò e cadde svenuta sull'erba.
La notte seguente, a mezzanotte, i galli cantavano, rispondendosi dai casolari lontani, ed i loro squilli si prolungavano, Chicchirichì! Il suono, simile a una sonora stella filante che solcasse il silenzio, echeggiava interminabilmente e poi languiva. C'era allora negli alberi come una breve sospensione di attesa, finchè un altro chicchirichì filava attraverso la campagna bianchissima nel chiarore lunare.
Dentro la stanza Domitilla Rosa giaceva composta nel suo letto di morte, con le mani incrociate sul petto e il crocifisso d'avorio in mezzo alle mani. I capelli disciolti le ombreggiavano il viso e due ceri ardevano stanchi, palpitanti appena con le fiammelle pallide, quando il soffio notturno, entrato per la finestra, volava pigro cercando l'uscio.
Bindo Ranieri, disteso in una vecchia poltrona, dormiva, russando, e un fazzoletto di tela gli copriva la faccia per evitargli le punture delle zanzare; Villa, seduta al capezzale della morta, recitava il rosario con bisbigliare sommesso e ogni poco la corona le cadeva in grembo, la testa le si piegava. Essa allora, scuotendo il sonno, spruzzava di aceto aromatico la stanza e si avanzava sull'uscio per vedere che cosa facesse Serena, la quale era nel portico, affacciata al muricciuolo, coi gomiti puntati sulla dura pietra, la testa riccioluta sorretta dalle mani. Villa guardava per un attimo la tonda luna con occhio indifferente e, credendo che Serena dormisse, riprendeva il suo posto e il bisbiglio delle sue orazioni.
Ermanno, a tarda notte, venne per dare il cambio ai Ranieri e vegliare anche lui quella povera Domitilla Rosa, ch'egli si era abituato a vedere quasi ogni giorno dall'epoca del primo discernimento e che adesso la terra avrebbe inghiottita; la terra che ci sostiene, ci nutre, ci divora, che noi chiamiamo nostra madre e che si preoccupa degli umani, sciami fuggenti e incalzantisi, come delle formiche in fila nera sbucanti dal tronco di un albero annoso per immergersi nella screpolatura di una muraglia crollante. Povera Domitilla Rosa! Egli l'aveva conosciuta sempre uguale, sempre vestita di nero, coperta di antichi gioielli nei giorni festivi, camminando a piccoli passi con le sue scarpette di prunello, tenendo le dita intrecciate, gli occhi smarriti nel vuoto. Invece Serena egli l’aveva vista mutevole, mai somigliante a se stessa. Un cuffiotto bianco, a vela, due gambette nude galoppanti con moto perenne; poi una boccuccia sdentata, pronta all’ira, al riso, allo scherno; più tardi una personcina priva di linee, sotto un ombrellone che ondeggiava all’impeto della pioggia; poi un cappellino a cometa, una selva scapigliata di riccioli, fugaci rossori, lampeggiamenti di pupille, velati subito dalle ciglia ombreggianti, e adesso una figura snella, una svelta andatura, una fronte pensosa, una bocca ridente, uno sguardo limpido che porge il pensiero con arditezza impulsiva, talvolta dominata a tempo, talvolta balzante irrefrenabile, ma resa leggiadra da un pavido sorriso di confusione.
Ermanno attraversò il prato, salì i brevi gradini del portico e si fermò dietro le spalle di Serena, che non si mosse. Entrò allora nella stanza, ma l’atmosfera greve era colma di emanazioni disgustose, che l’aceto aromatico assorbiva, non distruggeva. Il respiro di Bindo nel sonno pareva il rumore di una porta che cigoli e la voce orante di Villa pareva il lavorìo di un topo roditore.
Uscì in fretta all’aperto e rimase in piedi, appoggiando le palme sul muricciuolo del portico, al fianco di Serena, che stava piegata e immobile.
La luna empiva di sè tutto il cielo, ed Ermanno, a distanza, scorgeva la corda del pozzo pendere a guisa di serpe dalla carrucola e due piccoli rami navigare alla superficie della secchia piena. Tutto era visibile, nitidamente, tutto era limpidissimo; l'azzurro trasparente del cielo, i raggi diafani della luna, eppure Ermanno non giungeva a comprendere che cosa ci fosse dentro il pensiero di Serena, nè a discernere che cosa ci fosse dentro il proprio pensiero. Questo era melanconico anche più della morte di Domitilla Rosa. Sentirsi vivere e pulsare il sangue, veder due bianche mani sorreggere una bruna testa, avere gli occhi pieni di luce amabilmente blanda, noverare a una a una le foglie sui rami e trovare fasciati di buio impenetrabile i cuori amici, fasciato di buio impenetrabile il proprio cuore, è mistero anche più sconsolante del mistero di un petto che non respira più. Serena dormiva ed Ermanno sospirò per esalare la sua pena confusa.
Un sospiro lungo di Serena gli fece eco.
— Non dormi? - egli domandò.
Serena sollevò la fronte e gli mostrò la faccia. No. Non dormiva; piangeva, e le gote apparivano roride, le pupille fulgenti tra il luccicare delle lacrime.
— Non piangere - Ermanno disse.
Essa crollò il capo e cercò con le mani sul muricciuolo.
— Che cosa cerchi?
— Ho perduto il fazzoletto.
Ermanno le porse il suo; ella vi nascose la faccia e cominciò a singhiozzare.
Ermanno non sapeva che cosa dirle per infonderle coraggio.
Con la punta delle dita le toccò i capelli e le tirò piano un ricciolo; faceva così quando erano piccoli ed egli voleva consolarla di qualche dispiacere. Serena, come quando erano piccoli, smise di singhiozzare e si asciugò le gote.
— Non disperarti, Serena.
— No, no, non mi dispero.
— Allora perchè piangi?
— Perchè zia Domitilla Rosa è là, nel suo letto, e non si muove. Ieri, a quest'ora, mi chiamava. Adesso non mi chiama più. La sua voce è morta; tutto è morto in lei; questo mi dà passione.
Nuovamente egli non seppe dirle nulla.
Tacquero, e la campagna taceva con essi.
— Cosa farai? - egli le domandò.
— Non so ancora, non ci ho pensato bene. Ci rifletterò domani.
— Ti trovi sola al mondo - Ermanno disse.
Serena lo guardò con occhi di stupore.
— Perchè mi dici così?
— Perchè al mondo non hai nessuno, povera Serena.
— E tu? - ella gli chiese, posandogli sul braccio una mano Ermanno rimase colpito da quelle parole semplici. Oh! certo egli doveva proteggerla, la sua cara, piccola compagna.
— Mia madre vorrà aiutarti: forse vorrà prenderti con sè. Ella ebbe un riso breve e fece di no col gesto.
— Perchè non vuoi?
— Da te sì; dagli altri no.
— Allora cosa farai?
— Lavorerò; imparerò molte cose.
-Quali cose?
-Non so bene ancora. Ho qualche migliaio di lire; andrò a Firenze a studiare; mi perfezionerò nell'arte di riparare gli arazzi antichi. Si guadagna molto.
— A Firenze ti sposerai - egli disse.
— Io non voglio sposarmi a Firenze. Ho già risposto di no al signor Pericle.
Tutto il chiarore della luna raggiò al chierico nella memoria; ma egli cercò affannosamente di non vedere, non ricordare le parole dell'amico, limpidissime adesso; cercò di non ricordare, ma ogni filo d'erba cantava in dolce musica le parole di Pericle Ardenzi: «Tu hai scompaginata la mia vita». Era come il ritornello di una canzone gioconda, che saliva dai prati, echeggiava pei cieli.
Ermanno disse iracondo:
— Hai avuto torto di rifiutare Pericle Ardenzi; è bravo, buono; ti avrebbe resa felice.
Serena rispose:
— Non si è felice con chi non si ama e io amo te, non lui.
Ermanno fu preso da sbigottimento. Oh! la terribile ragazza! Ella projettava su tutto fasci di luce col taglio luminoso delle sue impulsive espressioni!
— Anche Bindo Ranieri lo sa - ella disse, guardando lontano.
— Cosa? - domandò Ermanno in tono di corruccio.
— Quello che ti ho detto.
— Hai detto un'assurdità.
Serena parlò dolcemente, con la gota appoggiata a una palma.
— Perchè un'assurdità? Io sempre pensavo che tu avresti esercitato la professione del dottore. L'ozio non mi piace, e poi guarire i mali della gente che soffre è opera bella. Allora pensavo che tu avresti esercitato la professione del dottore in una grande città e avresti alleviati molti patimenti! I ricchi ti avrebbero offerto danaro; ai poveri tu avresti offerto cure e medicine. Forse avresti scritto libri utili, cercando l'origine dei mali, e io ti sarei stata sempre accanto. I nostri figli sarebbero andati superbi di te come tu vai superbo de' tuoi avi.
Ermanno tremava. Le parole di Serena gli volavano intorno a guisa di strali e gli si conficcavano dentro le vive carni.
Avrebbe urlato per lo spasimo, avrebbe voluto implorare misericordia da lei che parlava con tanta dolcezza assennata, nella pace della notte lunare.
— Cosa speri? - egli disse con voce aspra.
— Tante cose; se io non avessi la speranza, vorrei distendermi al posto della povera zia Domirò.
— Non bisogna vagheggiare sciocche chimere!
Ella attendeva immobile, sentendo ch'egli avrebbe proseguito ed egli infatti proseguì:
— Il mio avvenire è segnato. Io mi sono vincolato a Dio. Pensaci. Non inseguire fantasmi. Il nostro avvenire niente può avere di comune. Pensaci.
Ella, inneffabile di pacatezza, disse:
— L'avvenire? Tu hai ventidue anni, io ne ho diciotto. Il nostro avvenire somiglia a questo cielo. Vedi? Il chiarore della luna pare che illumini tutto, e invece nasconde le stelle: ma le stelle ci sono, a miliardi, e allo scemare della luna esse brilleranno e noi torneremo a vederle. Quanti pensieri in te, che tu ancora non vedi, ma che ci sono e ti daranno gioia allo scemare dell'unico pensiero che ti sei imposto!
Egli la interruppe con violenza.
— Io ho per me la mia fede.
— Tutti abbiamo la nostra fede - Serena disse con profondo accento, come scrutandosi - ma io ho dovuto capire che Iddio assume per ciascuno di noi la fisonomia dei nostri desideri e del nostro carattere. Io ti conosco perchè ti amo. Il tuo desiderio è di rendere illustre il tuo nome; il tuo carattere t'impone di esercitare il tuo ingegno in opere utili; così, quando tu diventerai proprio tu, la fede sarà per te lavoro e Iddio assumerà per te la forma di un essere buono, che dispensa vita e la benedice.
Ermanno l'ascoltava esterrefatto, tremando sempre più forte. Di dove le veniva tanta scienza del cuore e tanta lucidezza di mente? Forse dal silenzio dell'ora, dalla trasparenza vasta dell'aria? No, da lui, da Ermanno stesso, dal pensiero di lui che, ora per ora, le aveva illuminato il pensiero; dal cuore gagliardo e animoso di lui, alle cui pulsazioni ella aveva uniformato i battiti del suo vigile cuore d'innamorata.
Egli sentiva questo, ed era sollevato dall'orgoglio, travolto dall'ambascia. Avrebbe voluto fuggire e rimaneva inerte, con le palme appoggiate sull'orlo del muricciuolo; avrebbe voluto rivolgerle parole acerbe d'ira o di scherno, e nemmeno un suono riusciva a trarre dalla gola stretta e arida. S'immersero nel silenzio, interminabilmente, finchè un brividìo appena sensibile scese con fruscìo di ala paurosa pei vertici degli alberi, solcò, leggero come piuma che voli, l'erba dei prati e l'acqua della secchia; l'erba esalò profumi, l'acqua nella sua breve cerchia s'increspò lieve ed ebbe sorrisi.
L'alba si avvicinava, e Villa apparve nel portico, annunziando che i due ceri, consumati, non ardevano più. Serena col gesto indicò il biancore dell'alba; Villa rientrò.
— Fra giorni io tornerò in seminario.
— E io partirò - Serena rispose - andrò a Firenze.
— Così non ci vedremo più. - affermò il giovane e scesi i pochi gradini, attraversò il prato e si allontanò pel viottolo, senza nemmeno salutarla; nè ella pensò a rammaricarsene. A che valeva salutarsi? - Non ci rivedremo più. - Ermanno aveva detto, e invece essa lo avrebbe atteso con sicura fede, con fermo cuore, ed egli sarebbe tornato, con libera volontà, a prenderla per mano. Quando? Fra mesi o fra anni? Il tempo non importava; ma si sarebbero ritrovati, si sarebbero uniti con dolcezza piena e per sempre. A che valeva dunque salutarsi?
Entrò nella stanza e sfiorando con le dita i capelli sparsi della povera zia Domirò, le disse, a bassa voce, quasi a confidarle un secreto:
— Gesù che tu amavi, benedice all'amore!
Ermanno frattanto veniva sbattuto da una bufera di odio: odiava sè, le nubi fiammanti dell'aurora, i voli canori degli uccelli, i calici variopinti, colmi di rugiada, dei fiori campestri, odiava gli occhi di Serena, che avevano pianto e la bocca di lei, che aveva parlato insidiose parole; odiava le cose di bontà e di bellezza, perchè gli si mostravano nemiche e turbatrici della sua pace; ma egli non si sarebbe lasciato smuovere e avrebbe calpestato l'iniquo mondo. Non voleva mostrarsi vile e rinnegarsi. La storia di ogni santo narra di tentazioni formidabili, sostenute con animo invitto dai predestinati alla gloria. L'antica Tebaide non risuonava forse nella notte di urli e gemiti innalzati da monaci asceti in lotta contro le astuzie di Satana? I monaci s'imponevano allora penitenze spaventose, scavandosi buche sotterra, a guisa di fiere, e quivi si maceravano, cibandosi di radici amare e mischiando l'acqua fangosa degli orci con le copiose lacrime della contrizione. Così pensava Ermanno, mentre nubi di fuoco galoppavano da oriente per l'ampiezza tranquilla dei cieli e si disperdevano, lasciandosi dietro solchi di petali rosati; così pensava Ermanno, e affrettava il passo per non lasciarsi raggiungere dalla parte cosciente di sè, ch'egli sentiva fraterna e vigile sulle proprie orme e che talora l'obbligava a sostare per contemplare la grazia infantile di un fiorellino sbocciato coll'alba o per ascoltare il chiacchierio delle fronde, che si dicevano la pacata letizia di accoglier fra loro i primi raggi del sole. Ermanno era infelice; due coscienze si dibattevano in lui, due volontà in lui si contrastavano il dominio, e nessuna valeva ad imporsi. Ed egli vagolava senza indirizzo, ora sciogliendo fieramente il volo per gli spazi raggianti dell'idea, ora abbattendosi impaniato.
Giunse nella sua villa che tutti ancora dormivano, chiuse rabbioso le imposte, perchè raggio di luce non riuscìsse a insinuarsi e fu vinto dal sonno.
Quando si svegliò, dopo molte ore, si sentiva placato e tutto in signoria della sua balda giovinezza, che gli trasfondeva impeto e forza. Spalancò le finestre e stupì nel vedere il sole già alto, a sommo del cielo. Era mezzogiorno? Guardò l'orologio! Sì, a mezzogiorno mancavano pochi minuti.
Chiamò, facendosi sull'uscio.
— Mamma, mamma.
Accorse Palmina, che sguisciò dentro di traverso e girò con volubilità la testa schiacciata di lucertola.
— Ben alzato, don Ermanno.
Essa lo chiamava così per cortigianeria verso la sua padrona.
-Mia madre dov'è?
La faccia grinzosa di Palmina ebbe guizzi di maliziosità contenuta.
— Credo in giardino, don Ermanno.
— Chiamala.
— No, non posso chiamarla, ha visite - e rise involontariamente di una risatina stridula; poi, spaventata, assunse un fare serio e compunto.
Ermanno sentì calore alla fronte e cacciò via Palmina.
— Vattene.
Rimasto solo, scese a pianterreno, e di tra le imposte socchiuse guardò nel giardino.
Sotto la pergola, Vanna sedeva e accanto a lei sedeva il professore Corrado Gigli, vestito di grigio, con le scarpe nuove di bulgaro e una bellissima cravatta color di mare. La paglietta, fasciata di seta azzurra, giaceva sopra un angolo del sedile, e il professore gesticolava animatamente, sollevando e abbassando un grande ombrellino chiaro, mentre Vanna, vaporosa tra nubi di mussolina bianca, non aveva un gesto e ascoltava col mento appoggiato sul petto, le palpebre abbassate; ma il professore bébé, nella sua adorazione le prese un lembo dell'ampia manica e glielo baciò.
Vanna ritrasse il braccio, alzandosi; Corrado anche si alzò, agitando l'ombrellino.
Ermanno di corsa arrivò al cancello del giardino e lo spinse con furia.
La ghiaia del viale strideva sotto il precipitare de' suoi passi e Vanna, scorgendolo in tanta ira, diventò pallida, nel presentimento di una catastrofe; ma il professore bébé, inconsapevole, ebbe un sorriso angelico e disse festoso:
— Buongiorno, don Ermanno.
— Buongiorno. Cosa fa lei quì?
Il professore, interdetto, rispose:
— Niente, facevo una visita.
— È inutile; io non sento il bisogno delle sue visite, mia madre anche meno.
Il professore bébé rimase con l'ombrellino brandito in aria e balbettò:
— Si direbbe che lei ha intenzione di offendermi.
— Precisamente; è questa la mia intenzione. Lei mi annoia; le sue visite mi annoiano. La prego di andarsene, la prego di non tornare e se torna io le farò saltare una finestra. È chiaro? Mi ha capito?
Vanna, smorta, appariva senza più sangue nelle vene.
— Ermanno, Ermanno! Cosa fai, Ermanno?
Il figlio non le badava.
— Cosa vuole dunque, cosa aspetta? - egli disse al professore, prendendolo per le spalle e sospingendolo verso l'uscita.
Corrado Gigli si divincolò dalla stretta e, squassando l'ombrellino, si dette a gridare:
— Sissignore, vado. Non mi tocchi. Vado e non torno. Si figuri! - e, nella furia di scappare, dimenticò la paglietta. Varcato l'ingresso egli si fermò iroso ed esclamò:
— Il cappello; rivoglio il mio cappello.
Ermanno corse a prenderlo, glielo gettò al disopra del muro di cinta, attese che il professore non si vedesse più e tornò, come pazzo, alla madre, che si era abbandonata sopra il sedile e tremava, battendo i denti.
-Vedi? Vedi? Il mio nome è Monaldeschi. Il mio nome io devo difenderlo.
Ella si strinse le tempie nelle mani:
— Cosa pensi, Ermanno, cosa pensi?
Il figlio ansava, accasciato anche lui sopra il sedile, anche lui stringendosi la testa nelle mani. A un tratto le si rivolse ed ebbe un grido, in cui nel sommovimento della passione, tutto il fondo dell'anima saliva a galla:
— Ma allora a che ti serve la tua religione? Perchè ti confessi? Perchè vai in chiesa?
Ella si rizzò altera e gl'impose:
— Non voglio più insulti. Non ho niente da rimproverarmi con quel ragazzo. Il Signore ti perdoni; io, in questo momento, non posso perdonarti. Va via.
Egli risalì nella sua stanza, agitato ancora dall'ira, straziato già dal rimorso, e i due sentimenti, uniti insieme, gli dettero la rivelazione intera dell'umano dolore; del dolore quando ci torce le viscere, ci stringe in una morsa, ci opprime e ci travolge, lasciandoci storditi, indolenziti, ma temprati maggiormente per le future battaglie.
Nel bruciore dell'orgoglio ferito, rivolse fra sè alla madre detti di cruccio; ma la sua diritta coscienza lo redarguiva e la memoria gli rievocava la immagine materna soave in ogni atto e di nobili sensi.
Povera, povera madre! Ricca di bellezza e bontà, in cui la passionalità stessa del temperamento vigoroso avrebbe potuto trasformarsi in opere di bene, e che invece attraversava l’esistenza sempre in balìa dell’altrui desiderio! Povera madre!
A poco a poco un dolore diverso, più vasto e profondo, lo martoriava. Il dolore d’immaginare che milioni di fratelli a lui sconosciuti soffrivano forse in quel punto quanto egli soffriva, senza che gli riuscisse di porgere ad essi lenimento. Dalla coscienza del dolore umano gli sorse completo il sentimento dell’umana fratellanza, ond’egli comprese di essere uomo fra uomini, legato indissolubilmente alle vicende della specie.
Si picchiò all’uscio leggermente e, prima ancora ch’egli avesse risposto, monsignore apparve nel vano della soglia.
— Perchè state al buio, figliuolo? Aprite la finestra e parliamo.
Ermanno balzò dal letto, ove giaceva bocconi, e spalancò la finestra. Il sole tramontava. Quanto tempo dunque era egli rimasto ludibrio del suo dolore e de’ suoi turbolenti pensieri?
Monsignore chiuse l’uscio dietro di sè, rimanendo presso la soglia.
— Scusi, monsignore - disse Ermanno, infilandosi in fretta la giacca, scaraventata via poco prima. - Le chiedo scusa di farmi sorprendere così.
— Non vi agitate, figliuolo. La dignità consiste nella compostezza, e tutto invece è scomposto intorno a voi.
Ermanno, umiliato, disse:
— Scendiamo in giardino, monsignore.
— Ho bisogno di parlarvi da solo e con tranquillità. Restiamo quì.
— Allora, se permette, chiamerò un momento qualcuno a riordinare la stanza.
— Non è necessario, figliuolo - e, mentre Ermanno raccoglieva il cappello dal pavimento, monsignore stesso ricollocava a posto una seggiola rovesciata.
— Non avete niente da dirmi, figliuolo mio? - interrogò monsignore con austera dolcezza.
Ermanno lo guardò e non rispose.
— Mi pareva che vostra madre piangesse, quando io sono giunto quì, mandato a chiamare da lei a Settecamini. Sono accorso subito nel timore di una sventura. Voi sapete quanta affezione io vi porti, mio buon Ermanno.
Il giovane accennò vivamente di sì, torcendosi le mani e stringendo i denti.
A quale scopo sua madre gl'infliggeva questo nuovo supplizio? Con quale vantaggio lo metteva in condizione umiliante di fronte all'uomo ch' egli stimava di più sulla terra e la di cui stima valeva per lui al disopra di ogni tesoro?
— Perchè avete fatto piangere vostra madre, Ermanno?
— Non glielo ha detto ella stessa? - Ermanno domandò, celando la confusione sotto l'apparenza del corruccio.
— No, figliuolo, non mi ha detto niente. Piangeva e si accusava: ecco tutto.
— Di che si accusava? - chiese Ermanno spaventato.
— Del vostro fallo. Così è il cuore delle madri. Esse prendono le colpe dei figli e le riversano sopra di sè.
Ermanno si lasciò cader seduto sulla sponda del letto, e singhiozzi rari, poi più frequenti, gli salirono dai recessi del petto, scuotendogli le spalle.
Il chierico, abituato alla sommessione, alle contrizioni lacrimose sospirate nell'ombra dei confessionali, alla recitazione quotidiana del Confiteor, e a genuflettersi ed annientarsi, riebbe sopravvento in lui, ond'egli mormorò:
— Monsignore, monsignore, quanto sono colpevole, quanto sono infelice!
Monsignore gli sedette accanto e gli prese una mano.
— Non esagerate le vostre colpe, frutto di sangue impetuoso e giovane, e non parlate della vostra infelicità. Offendereste Iddio, che vi ha largito tutt'i suoi doni: salute, ingegno, nobiltà di nome, larghezza di censo.
— Non ho la pace dell'anima, monsignore, e senza la pace dell'anima, il resto è vanità.
-Sapete in che cosa consiste la pace dell'anima, figliuolo? Consiste nell'equilibrio fra noi e il nostro ambiente; consiste sopratutto nella esplicazione completa delle nostre migliori facoltà - tacque, esitò, gli strinse forte la mano e, come cercando a una a una le parole, proseguì con lentezza, acciocchè nulla di quanto egli voleva dire sfuggisse al discepolo:
— Non bisogna ostinarsi, figliuolo. Se taluno vi ha spinto a percorrere una strada, asserendovi che quella era per voi la strada migliore, e se anche dopo lungo cammino, anche presso la mèta, vi sorgesse il dubbio che altre vie ci sono, per le quali il vostro passo è più adatto, bisogna avere il coraggio di tornare indietro. Guai, guai a ostinarsi per puntiglio o pigrizia? Sarebbero in avvenire battaglie infeconde al cospetto di voi stesso, sconfitte e vittorie, dove il meglio delle vostre forze andrebbe disperso.
Ermanno, attonito, lo contemplava in silenzio.
La fronte di monsignore, diventata più vasta per la recente calvizie, si contraeva, si distendeva nell'ondeggiare tumultuoso dei pensieri, liberi finalmente per la insolita concitazione dell'anima; sopra le gote, devastate da solchi profondissimi, fiammelle di rossore guizzavano, e la voce, la bella voce pastosa, dal puro accento senese, oscillava nello sforzo di contenere le parole e misurarle.
— Esaminatevi, figliuolo, o avrete tristi sere, in cui le tenebre saranno popolate di rimpianti, e fosche notti, in cui il silenzio risuonerà per voi di richiami, ai quali non potrete rispondere. Chi è nobile di sangue e di sensi non tradisce la parola data e serba fede agl'impegni assunti; le transazioni sono viltà e noi s'impone a noi stessi di vincere la fragilità nostra.
Monsignore s'interruppe, abbandonò per un istante la testa sul petto, poi proseguì con accento di sconforto:
— Volendo costantemente si vince; ma talvolta da tutto il nostro essere sorgono maledizioni contro chi ci ha lanciato, noi inconsapevoli, in quel martirio, e si pensa con ira a tutta la bontà di noi che va perduta, a tutte le virtù nostre che giacciono inerti! Per carità, figliuolo, riflettete a questo, non vi ostinate. Io vi ho abbandonato per due mesi in balìa di voi medesimo, acciocchè aveste il tempo di conoscervi; non per tutti si è preso cura di fare altrettanto - e di nuovo s'interruppe, nel pudore forse delle sue pene secrete.
Ermanno non trovava parola! Seguendo la trama sottilissima de' suoi ricordi infantili e di quelli della sua adolescenza, una certezza incrollabile gli sorgeva dentro, una certezza che lo empiva di ammirazione e sgomento: monsignore aveva amata sua madre; forse l'amava ancora; forse la passione gli era sorta in cuore dal punto in cui Vanna, giovanetta, bianca, risplendente al pari di un giglio, si era presentata sposa nella casa amica dei Monaldeschi e gli aveva sollevati in volto i chiari occhi, miti sotto le ciglia altere. E quell'uomo magnanimo aveva saputo portare la sua piaga, lungo il corso di anni interminabili, senza che una goccia di sangue stillasse, nè gemito gli uscisse dalle labbra.
Nessun atto di fugace rivelazione, durante gli incontri quasi giornalieri, e la parola non aveva mai rivelato, sia pure involontariamente, le profondità paurose del cuore.
La stessa affezione verso il figlio della donna adorata, Dio sa fra quali spasimi, era stata perennemente calma, soffusa di paterna dignità, scevra di debolezze, priva di espansioni.
Il giovane sollevò la mano di monsignore e la baciò devotamente.
— Lei mi è più che padre, signor rettore; da lei ho avuto esempio di tutte le nobiltà - e, poiché la giovinezza è inconsulta nelle sue deduzioni, assurda nelle sue conclusioni, Ermanno si giurò di battere la via di triboli che monsignore aveva battuto e di raggiungere l'elevatezza spirituale che monsignore aveva raggiunto. Anch'egli avrebbe esercitato il sacerdozio con luminosità e mansuetudine, anch'egli avrebbe gemuto dentro il cuor suo, senza che i gemiti avessero mandato una eco, e avrebbe parlato dolcemente austero con Serena, e, forse, un giorno sarebbe apparso augusto ai figliuoli di lei, come oggi monsignore si ammantava per lui di magnanimità! Il sacrificio gli balenò all'immaginazione circonfuso di bellezza, scopo unico della vita.
— I suoi consigli non andranno perduti, monsignore. Io le sarò degno discepolo. Domani stesso rientrerò in seminario per ordinarmi suddiacono, e giacchè monsignor vescovo mi onora della sua parzialità, lo pregherò di ordinarmi diacono alle tempora di dicembre.
Monsignore, annientato, lo fissava, e l'intelletto, sapiente per l'esercizio del magistero a scrutar negli spiriti giovanili, gli fece comprendere l'errore della sua condotta generosa: aveva sollevato un lembo del manto sotto cui celava il proprio martirio, acciocchè il discepolo scorgesse il vivo sangue e brividisse, e il discepolo si esaltava invece, inebriandosi. Monsignore disse:
— Una volta ordinato suddiacono incontrereste la scomunica, se voleste ritrarvi.
— So bene, monsignore.
— L'ordinazione dei suddiaconi si farà nel prossimo sabato; avete dunque ancora per voi alcuni giorni di riflessione.
— Non servono.
— Fra il suddiaconato e il diaconato deve intercedere lo spazio di un anno.
— Monsignor vescovo è disposto a valersi delle sue facoltà per ridurmi a due mesi tale periodo di prova.
— E voi siete fermo nel proposito di approfittare della parzialità di monsignor vescovo?
— Sì, monsignore.
L'ombra si era ammassata nella stanza, nè Ermanno potè vedere che monsignore, agitatissimo in volto, stava per gridargli qualche cosa.
— Vorrei chiedere perdono a mia madre.
— È giusto; andiamo figliuolo.
— Mamma - Ermanno chiamò, scorgendola seduta nella sala a pianterreno e avvolta di tristezza, nell'ora crepuscolare.
Ella si alzò e gli mosse incontro, aprendogli le braccia:
— Oh! Ermanno!
— Perdonami - egli le disse - ho mancato verso di te a' miei doveri di figlio e di cristiano.
Vanna, stringendolo al petto, gli rispose:
— Sì, ti perdono Ermanno, con tutto il cuore - ed egli sentì il pianto di lei bagnargli le gote.
Il perdono di Vanna era sincero, profondo il rammarico di Ermanno, eppure entrambi avvertirono che un lieve soffio gelido alita va nei loro petti e impediva la fusione completa dei loro cuori. Che cosa era accaduto? La madre aveva tremato di vergogna davanti al figlio; il figlio si era alzato giudice davanti alla madre e la confidenza reciproca era caduta, simile al frutto bacato quando piomba dal ramo.
— Signora Vanna, buona sera; a rivederci dunque figliuolo - e monsignore si allontanò frettoloso.
Il sabato delle tempora di settembre, Ermanno Monaldeschi fu ordinato suddiacono.