Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/318

— Così non ci vedremo più. - affermò il giovane e scesi i pochi gradini, attraversò il prato e si allontanò pel viottolo, senza nemmeno salutarla; nè ella pensò a rammaricarsene. A che valeva salutarsi? - Non ci rivedremo più. - Ermanno aveva detto, e invece essa lo avrebbe atteso con sicura fede, con fermo cuore, ed egli sarebbe tornato, con libera volontà, a prenderla per mano. Quando? Fra mesi o fra anni? Il tempo non importava; ma si sarebbero ritrovati, si sarebbero uniti con dolcezza piena e per sempre. A che valeva dunque salutarsi?

Entrò nella stanza e sfiorando con le dita i capelli sparsi della povera zia Domirò, le disse, a bassa voce, quasi a confidarle un secreto:

— Gesù che tu amavi, benedice all'amore!

Ermanno frattanto veniva sbattuto da una bufera di odio: odiava sè, le nubi fiammanti dell'aurora, i voli canori degli uccelli, i calici variopinti, colmi di rugiada, dei fiori campestri, odiava gli occhi di Serena, che avevano pianto e la bocca di lei, che aveva parlato insidiose parole; odiava le cose di bontà e di bellezza, perchè gli si mostravano nemiche e turbatrici della sua pace; ma egli non si sarebbe lasciato smuovere e avrebbe calpestato l'iniquo mondo. Non voleva mostrarsi vile e rinnegarsi. La storia di ogni santo narra di tentazioni formidabili, sostenute con animo invitto dai predestinati alla gloria. L'antica Tebaide non risuonava forse nella notte di urli e gemiti innalzati