Il miracolo/Parte seconda/V
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CAPITOLO V.
I rami secchi degli alberi, disposti intorno all'ampio cortile, si dibattevano come braccia di forsennati agli urti del vento, ed il terreno, coperto da uno strato di ghiaccio, rifletteva la purezza melanconica del cielo decembrino.
Nel parlatorio correva un bisbigliare di voci sommesse e le sottane violacee dei seminaristi passavano, strisciando silenziosamente, fra seggiole sparpagliate, secondando le piccole riverenze dei chierici.
Era la terza domenica di dicembre, le feste del Santo Natale si avvicinavano, e maggiore era l'affluenza dei parenti, delle madri e delle sorelle in particolar modo.
Ermanno Monaldeschi, in piedi vicino a una finestra, ascoltava in silenzio i discorsi di Pericle Ardenzi, il quale era andato a salutarlo prima di partire da Orvieto definitivamente, per intraprendere un viaggio in Persia, con una Commissione archeologica spedita dal Governo. Dietro gli occhiali di Pericle Ardenzi brillava l'allegrezza di un ideale scientifico da lui vagheggiato e sul punto adesso di venir conseguito; sotto i risvolti fulvi della pelliccia gli batteva un cuore animoso, impaziente di spingersi alla conquista delle rovine per frugarle e trar loro il secreto di sepolte civiltà. Sin da ragazzo l'Oriente aveva fiammeggiato per lui a guisa di fiaccola e, sotto la fiamma ondeggiante, egli aveva scorto con occhio di passione mostri di granito dalle teste bifronti ornate di corna, colonne di porfido istoriate a caratteri cuneiformi, tombe di re dalle sonanti porte metalliche, reti di canali diventati aridi, terreni sabbiosi arsi di sete e coprenti città, dove cento e cento carri avevano trasportato in lunghe file mucchi d'oro pei favoriti, mozze teste di nemici. E adesso egli andava, armato della sua scienza, a strappare dalle fronti granitiche dei mostri secreti di anime spente; a ricostruire, interrogando i caratteri cuneiformi, la discendenza di qualche grandiosa dinastia, a seguire il corso intricato dei canali allo scopo di stabilire in che cosa il compasso di oggi è più sapiente del compasso adoperato in epoche per noi nebbiose.
Questo egli diceva a Ermanno, tirandosi la barba, stropicciandosi le mani, fra il rumore discreto delle seggiole smosse, ed Ermanno guardava, al di là della finestra, i secchi rami contorcersi ai capricci furiosi del vento, mentre i raggi scendevano lividi a orlare di tristezza la sommità della muraglia giallastra. Tutto era gelo, tutto si cristallizzava fuori di lui, dentro di lui. La fede nei dogmi era morta, uccisa dall'idea, e nessun'altra fede egli voleva che sorgesse nei campi devastati della sua coscienza. Una stanchezza irosa, una invincibile nausea lo stringevano da tre mesi; dal giorno in cui aveva voluto rientrare in seminario e farsi ordinare suddiacono. L'accidia sola dello spirito gli pareva desiderabile, perocchè l'accidia, come la ruggine, divora anche il metallo e riduce in polvere l'ordigno più saldo. Non pensare, girar la pietra della macina, simile a Sansone, cieco per opera dei filistei; ecco quanto egli voleva! Ma a Sansone cresceva la chioma, con la chioma il vigore, e nell'anima di Ermanno sorgeva il rimpianto, e col rimpianto il dolore. Ebbene, a somiglianza di Sansone, egli avrebbe sradicate colonne per ischiacciare sè e con sè i desiderî nemici.
Pericle Ardenzi gli disse, ridendo:
— Cosa trovi d'interessante nelle convulsioni di quegli alberi? Mira la mia barba invece! Sarà forse canuta quando la rivedrai.
Ermanno girò il capo e lo guardò.
— Hai l'aria di un funerale; sei ammalato di nuovo? - l'amico gli chiese.
— No, sto benissimo.
— Tanto meglio - e Pericle Ardenzi volle scrutare il cuore di Ermanno. - Mi tratterrò due giorni a Firenze. Desideri che io ti saluti il Perseo con relativa testolina di Medusa?
Ermanno finse di non capire.
— Sai, Medusa aveva una testolina piena di riccioli. Dicono che i riccioli fossero serpentelli e che la testa facesse impietrare di paura. Io, viceversa, mi sono impietrato di stupore nell'accertarmi adesso a Firenze che per ogni ricciolo c'è una idea assennata e un progetto realizzabile. Desideri che te la saluti?
Pericle Ardenzi abbandonò le metafore.
— Volevo condurla in Persia; mi sarebbe piaciuto vederla alle prese con lo Shah. Oh! sarebbe stato tipo da chiedergli in dono i brillanti del pennacchio.
Ermanno rise di una risata schietta e involontaria, poi tornò accigliato.
— Cosa fa?
— Lavora di arazzi. È meravigliosa; uscita ieri dal guscio è già disinvolta, sicura di sè. Scrive quasi ogni giorno a Bindo Ranieri: non te ne ha parlato?
— Sì, sì - Ermanno rispose con impazienza, e, dopo una pausa, domandò brusco:
— Perchè dunque non la sposi?
— Perchè non mi vuole; anzi, in queste ultime settimane trascorse a Firenze, mi ha pregato di non andarla nemmeno a visitare. La incontravo spesso in via Calzaioli. Indossa una giacchetta di astrakan e un berrettino uguale, piantato di traverso. Vola sempre ed ha sempre la punta del naso rossa per il freddo. Insomma l'avrei volentieri condotta in Persia - e s'interruppe per esclamare:
— Ecco monsignore. Voglio salutarlo.
Monsignore infatti si aggirava cortese fra i visitatori, dispensando qualche parola e raccogliendo ossequio.
— Ho sentito che lei ci lascia, caro professore — egli disse all'Ardenzi, il quale affermò giovialmente:
— Già, vado lontano; vado in Persia a cercare se mi riuscisse di trovar un altro sacerdote della sua pasta.
— Bene; bene — disse monsignore, sorridendo paterno. — Si faccia onore; faccia onore a questo nostro paese, e non si parli del resto — poscia si rivolse a Ermanno per avvertirlo, che la madre lo attendeva nella saletta della direzione.
Pericle Ardenzi uscì, stringendosi al petto la pelliccia, e Ermanno salì al primo piano, dove sua madre lo attendeva.
Ogni gradino gli sembrava faticoso enormemente a superare, e si fermava, appoggiandosi col fianco al muro. In alto, perduta nelle immensità dell'azzurro, Serena volava; in lontananza travolto dalle immensità dello spazio, Pericle Ardenzi correva; nebbiosamente, l'immagine di se stesso camminava alacre, rivestita di un lungo camice bianco, attraverso le corsie di un ospedale. Le file dei letti fuggivano, forme pallide si protendevano verso di lui e imploravano aiuto con gesti dolenti. Tenendo sotto il braccio la busta dei ferri, un assistente lo precedeva; carica di bende e farmachi, una infermiera lo seguiva, ed egli, frattanto immobile nella realtà, inceppato dalla sottana violacea, provava stordimento, e, salendo i gradini, col fianco si appoggiava al muro. Non è vero che il tempo non si arresta mai; sopra di lui il tempo avrebbe sospeso il volo a guisa di pipistrello, e dalle ali senza penne i minuti sarebbero piombati, in lento stillicidio scavandogli una piccola buca nel cranio, una piccola buca nel cuore. Bindo Ranieri sarebbe morto in placida vecchiezza; don Vitale sarebbe morto irosamente; le figurine di alabastro, che gli avevano sorriso durante l'infanzia, sarebbero intristite nel fondo di qualche vecchia cassa; le figure della facciata sarebbero apparse sbiadite agli occhi suoi, resi sbiaditi dai veli dell'età, e il buon Maurizio, che in quell'istante suonava le quattro, avrebbe battuto un numero di volte incalcolabile sui fianchi della campana, senza che Ermanno porgesse orecchio agli ammonimenti di lui.
Da te a me, campana fuoro pati.
Tu per gridar ed io per far i fati.
Quali fatti? Quali fatti? Polvere sei, polvere tornerai! Tutto per Ermanno era vano e vacuo, della vacuità incommensurabile che si prolunga oltre la vita. Una successione di punti oscuri, un battere uguale di martello sui chiodi della bara, un risuonar di cantici per le navate del Duomo, un tonfo sordo dentro la terra, e la successione dei punti oscuri sarebbe continuata dentro il suo cranio vuoto, intorno al suo cuore flaccido, nè egli l'avrebbe avvertito, e nemmeno la cosa più umile avrebbe esalato un gemito per lo spegnersi in lui di una forte razza, ardita e illustre nei secoli.
Frattanto Serena volava, Pericle correva e sua madre stava in attesa nella saletta della direzione.
Egli la vide seduta sul piccolo divano e le fece riverenza come di costume, in seminario, al cospetto dei genitori.
— Stai bene? - le domandò.
— No, figliuolo - ella rispose, porgendogli la mano guantata di nero. - Sto male anzi; ho la tosse.
Ermanno prese una seggiola e sedette.
— Allora non dovevi uscire con questo freddo.
Vanna tossì, portandosi alla bocca il manicotto.
— Hai ragione; è un freddo che taglia, ma io avevo bisogno di parlarti.
Ermanno pensò con amarezza di scherno che, quando sua madre aveva bisogno di parlargli, essa lo faceva per esporgli qualche assurdità.
— Parla, parla pure.
— Ho pregato appositamente monsignore di ricevermi qui nella saletta. Staremo più tranquilli.
Ermanno fissava tra gli scacchi della finestra lembi di cielo di un turchino ghiaccio e sentiva la malvagità ringhiargli nel petto. Il sentirsi malvagio gli aumentava livore. Mellifluo ripetè:
— Parla, parla - in sè gioioso dell'antitesi fra lo scherno suo interiore e l'ossequio simulato.
— Ho avuto un'idea, figliuolo.
Ermanno rise impensatamente, ond'ella gli domandò:
— Perchè ridi adesso?
— Perchè la tua idea te l'avrà suggerita Palmina.
— Che c'entra Palmina? - disse Vanna, sollevando la veletta nera.
Egli rise di nuovo più brevemente:
— Ho osservato che in questi ultimi tempi, Palmina si prende la fatica di pensare per tuo conto.
Vanna, senza riflettere a malizia, osservò:
— Mi è affezionata, mi è fedele, povera donna.
— Sta bene - Ermanno interruppe. - Dimmi la tua idea.
— Anzi Palmina questa volta mi è contraria - Vanna disse, e di nuovo tossì, nella speranza che Ermanno la interrogasse: ma Ermanno taceva, ed ella riprese:
— Figliuolo, io mi trovo sola e triste.
Egli si voltò con ira verso di lei.
— Ah! ti trovi sola? Perchè non mi hai tenuto con te? Il mio posto era nella mia casa.
La faccia di lei, bellissima e triste, s'illuminò di un dolce riso ironico, come quando, bambino, egli diceva sciocchezze:
— Tenerti con me? Don Ermanno, sei sciocchino. Per la santa carriera da te scelta, io dovevo sacrificarmi e metterti in seminario.
Ermanno la guardò stupefatto. Quando mai egli se l'era scelta la sua santa carriera? E chi mai aveva imposto a sua madre il sacrificio di metterlo in seminario? Disse con impazienza:
— Sentiamola dunque la tua idea.
— Avrei pensato di ritirarmi dentro un convento per dedicarmi con tranquillità alle cose dell'anima. Tu provvederesti alle mie poche spese e io ti lascerei l'uso intiero del patrimonio.
Ermanno scattò. L'egoismo inconsapevole di sua madre lo rendeva egoista.
— E io? Hai pensato che io non avrò famiglia, non avrò casa? Uscito dal seminario, dove potrei andare? Chi avrebbe cura di me? Se io ammalassi dovrei languire solo, come un lebbroso?
Ella rispose dolcemente:
— No, Ermanno, a questo io non avevo pensato.
— Ebbene, bisogna pensarci - egli affermò con durezza. - Fra te e me corrono appena diciotto anni; tu puoi dunque vedermi invecchiare.
— Io volevo ammassar bene per la vita futura. Avrei pregato per te.
Ermanno sollevò le spalle con violenza sprezzante:
— Pregare! Pregare! Si prega lavorando, alleviando miserie! Fa del bene, muoviti, agisci. I Montemarte erano gente di azione. Perchè smentisci il tuo sangue? - e, alzandosi concitato, si dette a camminare per la stanza, sdegnoso di menzogne, nauseato dell'ipocrisia entro le cui pieghe, gli avevano inculcato, ch'era dovere di cristiano ammantarsi.
Vanna, bianca in volto per lo sgomento, teneva le mani intrecciate, abbandonate sul manicotto. Misericordia! Ermanno insultava alle preghiere, Ermanno parlava di agire, di lavorare, di muoversi, alleviare le altrui pene, anzichè provvedere a scongiurare per la propria anima le pene dell'Inferno! Don Vitale aveva ragione di guardare Ermanno di malocchio, d'inveire contro di lui oscuramente, con acerbe parole misteriose. Ahimè il mondo stava per inabissarsi e l'Anticristo si appressava con le sfrenate schiere dei suoi demoni. Ella ammonì severa:
— Bada, figlio mio, tu dici bestemmie.
Ermanno si moderò, smise di camminare e, fermandosi davanti a lei, disse con accento reciso:
— Il capo della famiglia sono io e non voglio che la polvere della nostra casa vada dispersa come la polvere di una stirpe maledetta. Rimani al tuo posto, dal momento che io rimango al mio.
Monsignore entrò nella saletta:
— Perchè alzate la voce, figliuolo?
Ermanno si scusò e chinò la testa per evitare lo sguardo interrogativo di monsignore.
Dal suo ritorno in seminario, egli sfuggiva di incontrarsi da solo col maestro, e intanto lo tacciava fra sè di noncuranza.
Perchè non trovava per lui la parola che illumina e che solleva?
— Dissuadevo mia madre dall'attuare un progetto che io non trovo logico. Ecco perchè nel calore della discussione ho alzata la voce. Mi perdoni, signor rettore.
Monsignore, assumendo il suo fare paterno e appoggiando una mano sul braccio del discepolo, disse:
— Da qualche tempo voi siete troppo irascibile, Monaldeschi. Giudicate nemici gli altri, forse perchè voi siete nemico di voi stesso.
Ermanno aggrottò le ciglia corrucciato, ma si tenne immobile, nella posa di sommessione che la gerarchia ecclesiastica stabilisce per il chierico di fronte ai superiori.
Vanna, in piedi, mandò un lungo sospiro.
— Quante amarezze nella vita! - essa mormorò, crollando il capo tristamente - e dopo una lunga pausa disse:
— È duro, assai duro, sentire ch'è ruvida la mano da cui speravamo sostegno.
Un insulto di tosse la squassò, poi disse, col pianto nella voce:
— Rinuncio alla mia idea. Hai ragione tu, Ermanno. Ciascuno di noi deve rimanere al proprio posto.
Monsignore la guardava, sottile nelle sue vesti nere, bianca la fronte sotto il cappello nero, decorosa di alterezza nella sua umiltà, così doviziosa ancora di bellezza e grazia, ch'ella gli apparve, in visione reale, quella stessa che nelle implacabili visioni di sogno gli era apparsa per anni a ogni ora, obbligandolo a lottare con tutte le asperità di una vita austera, sconfiggendolo talora con la sola rimembranza di un profumo o la eco di una parola.
Ed egli, sublime di eroismo, aveva tratto conforto dall'idea di proteggerla, senza profanarla nemmeno coll'ombra di un pensiero peccaminoso, di crescerle fiero e dolce l'unico figliuolo da lui giudicato, sino dall'infanzia, bello di persona, alto d'intelletto, e di affidarla a lui perchè egli le desse gioia con la sua giovinezza attiva e vittoriosa. Invece li vedeva ostili, separati da un malinteso spirituale, irreconciliabile malinteso, che egli aveva preveduto e che inutilmente aveva tentato di scongiurare, perchè ella, inconsapevole, aveva imposto al figlio un sacrificio sterile, e il figlio, consapevole adesso, chiamava vendetta con tutto il corruccio del suo silenzio.
Quantunque monsignore sapesse che ogni atto, per riuscire efficace ed utile, dev'essere suscitato dall'impulso della nostra volontà, e quantunque, nella sua equità perfetta, egli giudicasse disdicevole a sè respingere con soverchia insistenza una recluta già inscritta nell'esercito della chiesa, fu indotto da misericordia a tentare in favor loro una prova suprema.
— Signora Vanna - egli disse - non giudichi a torto il suo figliuolo. Io l'osservo con occhio scrutatore e gli leggo nell'anima., che credo turbata dalle ansietà dell'incertezza.
Vanna, al colmo della meraviglia, girò l'occhio da monsignore ad Ermanno, poi disse, candidamente:
— Confesso di non capire, monsignore. Su che cosa Ermanno potrebbe essere incerto? Perchè dovrebbe essere ansioso? No, non capisco.
Monsignore si apprestò, con parole caute, a spiegare meglio il suo concetto:
— Mi pareva di avere inteso che lei accusasse il nostro Ermanno di poca pietà filiale. Io posso garantirle invece che il cuore del nostro giovane è aperto a tutte le bontà, come la sua mente è alacre per tutti i sani pensieri. Il suo figliuolo nutre per lei sensi di vivo affetto; non è vero, Monaldeschi?
Ermanno, sollevato nella sua naturale atmosfera di nobiltà generosa da quelle savie parole, esclamò:
— Certo, monsignore; certo, mamma.
Vanna gli sorrise.
— Non ne dubito, figliuolo, ma qualche volta mi fai soffrire.
Monsignore intervenne.
— Questo accade, forse, perchè il giovane non è tranquillo.
— Ma perchè non è tranquillo? - domandò Vanna.
Monsignore sfuggiva le aperte frasi; voleva bensì ch'essi scorgessero la via, non voleva, non poteva precederli.
— Non tutti i terreni, per quanto fertili, sono adatti a nutrire le stesse piante. Lei avrà osservato che si può gettare buon seme in buona terra, senza ottenere buon frutto. Il saggio agricoltore allora comprende che quel seme, per quanto buono, è inadatto a quella terra, per quanto fertile. Vi fa nuova seminagione e miete riccamente.
Il petto di Ermanno andava e veniva con forza, sollevando nella celerità del respiro i bottoni rossi della veste violacea; Vanna, paurosa di comprendere, s'irrigidiva, serrando le labbra, perchè detti d'indignazione non le sfuggissero. Voleva assicurarsi dell'evidenza del fatto mostruoso, voleva essere ben certa che un sacerdote, un rettore di Seminario si facesse consigliere di spergiuro e sacrilegio.
Monsignore si rivolse direttamente a Ermanno:
— Parlate, Monaldeschi, parlate. A chi potreste aprire il cuor vostro se non a colei che vi ha dato la vita? Ella è qui, piena di bontà e d'indulgenza. Parlate, figliuolo.
Ermanno ebbe sopra la fronte l'impressione di un'ala poderosa che gli battesse nel volto e gli aprisse intorno orizzonti sconfinati di aria libera; ebbe nei polmoni il senso di assorbire puro ossigeno, a ondate, e il moto del sangue gli si accelerò; la vita ampia, varia, solcata di bagliori, ondeggiante e sonante gli si spalancò allo sguardo inebriato, ed egli stava per mandare a gran voce il grido della liberazione, quando Vanna, terribile, si avanzò di un passo verso di lui e lo impietrò col gesto solenne della mano, con la espressione aggrondata del ciglio.
— No - ella disse - un Monaldeschi non è bugiardo; un Monaldeschi non è spergiuro.
— Pensi - ammonì grave monsignore - che un sacerdote senza vocazione è turibolo privo d'incenso, è altare spoglio di ceri.
Essa lo interruppe violenta:
— Io penso che mio figlio andrebbe incontro alla scomunica, ritirandosi oggi dal grembo della Chiesa, e io non voglio aver dato al mondo un reprobo.
Monsignore tacque: Ermanno si coprì in volto di pallore cinereo.
— Mia madre ha ragione; un Monaldeschi non è bugiardo - egli disse con voce roca.
— Allora, figliuolo, accompagnate fino al cortile vostra madre.
Vanna uscì senza baciargli la mano, ed Ermanno, richiudendo dietro di lei il battente del portone verde la vide preda ai furori del vento, che l'agitava forse meno di quanto il furore delle sue paure religiose le scompigliasse nel cuore ogni senso di pietà.
La settimana trascorse plumbea. Nevicava ininterrottamente, ed Ermanno, levandosi di letto, scorgeva una mobile parete bianca limitargli all'occhio perfino l'angusto spazio del cortile. I chierici della camerata, ancora sonnolenti, con le sottane già infilate come il regolamento vuole, somigliavano a spettri, così violacei nel chiarore sparuto del giorno che nasceva, e le piccole lampadine accese somigliavano a pupille di moribondi, così pallide nel lividore della scialba luce.
In cappella, mentre il sacerdote celebrava la Messa coi gesti simbolici del rito e mentre i seminaristi, inginocchiati nei banchi, bisbigliavano preci, Ermanno pensava di assistere alla cerimonia del proprio funerale. Il campanello del chierico servente la messa squillava in acuti rintocchi affrettati e il suono trasvolava imperioso, facendo piegare le teste degli oranti; Ermanno anche piegava la testa, non già il pensiero; egli frugava intanto nella storia, a rintracciare l'origine del rito, poi soffriva per l'indagine, che gli appariva sacrilega, poi s'irrideva per la fede ch'egli tentava d'imporsi, a volta a volta superbo del suo intelletto libero; iroso contro la sua mente vigile, ch'egli avrebbe voluto schiava.
Sul mezzogiorno, sempre all'ora medesima, il sole si affacciava tra il velario delle nubi bianche, e le bianche nubi opache non valevano a smorzarne lo splendore, perchè il globo si disegnava nella sua interezza, quantunque ammantato, e inaspettatamente una freccia d'oro squarciava il velario denso per cadere nel mezzo del cortile, sullo strato della neve, e suscitare bagliori.
I seminaristi più piccoli, in ricreazione, galoppavano fra la neve con le sottane rialzate, Ermanno, in piedi alla finestra della camerata, contemplava il sole sopraffatto dai vapori invernali, contemplava le nubi in apparenza vittoriose, e rifletteva che le nubi si sarebbero disperse, che il sole rimaneva immoto, illuminando, riscaldando frattanto altre terre, poichè il sole, come la verità, feconda remoti campi, in quella appunto che i campi a noi prossimi languiscono per la mancanza del suo calore.
Monsignore gli si accostava dicendogli:
— Cosa fate, Monaldeschi?
— Niente, signor rettore; guardo la neve.
— A che pensate?
— A niente, signor rettore.
Monsignore si allontanava dopo averlo fissato, ed Ermanno provava umiliazione di avergli mentito; quantunque fosse deciso oramai di ostinarsi nella menzogna.
Il sabato, terzo giorno delle tempora di dicembre, Ermanno Monaldeschi sarebbe stato ordinato diacono, con solennità nella cattedrale, senz’attendere l’interstizio di un anno dal suddiaconato. La sua ordinazione costituiva una gioia ineffabile per il cuore paterno di monsignor vescovo, il quale, tre giorni prima, visitando il seminario, gli aveva detto:
— La mia anima di pastore esulta nell’accogliere dentro il recinto dell’ovile, a cura della mia greggia, un pastore nuovo, che sarà vigile e ci darà sicurezza. Cingetevi di magnanimità, figliuolo; i tempi corrono avversi ed i lupi si aggirano insidiosi. Vegliamo dunque, acciocchè la greggia non rimanga menomata.
Ermanno si era genuflesso, ed il vescovo aveva alzata la mano sopra di lui, benedicendo.
Ma quella mattina dell'ordinazione, in cappella, durante la Messa, aveva risentito al petto, un urto improvviso e ne era rimasto sconvolto.
Chi dunque lo chiamava? Chi lo scuoteva dal letargo volontario? La coscienza forse, ch'egli aveva tentato di soffocare e che insorgeva per rivelargli il lezzo di menzogna entro cui egli si andava aggirando, per indicargli l'orrore del sacrilegio che egli era sul punto di commettete?
O non era forse la voce malvagia di Satana che, appiattato dentro di lui, ingaggiava contro di lui la battaglia suprema? La mente di Ermanno era offuscata; le tenebre, nell'istante di dissiparsi, ondeggiavano, diventavano ombra, permettevano bensì la visione degli oggetti, ma una visione paurosa, in cui gli oggetti assumevano forme strane di chimere, e lo sgomento imperava, fantasticamente, sbigottendogli lo spirito ben più che il buio non avesse fatto.
Ermanno, perduto in quel caos, voleva orizzontarsi. Nell'uscire di cappella, disse al prefetto:
— Bisogna che io parli col signor rettore.
E quando si trovò nella saletta della Direzione, in presenza di monsignore, che stava seduto alla scrivania, gli disse concitato:
— Signor rettore, bisogna che io parli subito con monsignor vescovo. Vorrebbe accompagnarmi?
Monsignore si alzò e rispose:
— Andiamo.
Uscirono, sfidando la neve, che scendeva a larghissime falde, perpendicolarmente. Orvieto era morta. Alti mucchi bianchi si allineavano ai lati delle vie, e già la neve caduta aveva tutto ricoperto; gli architravi delle finestre, le sommità dei campanili, i rilievi dei portali, i gradini delle chiese, i muricciuoli degli orti. Monsignore, vestito di nero, Ermanno Monaldeschi, vestito di viola, sparivano nascosti dalle spesse falde; il suono dei loro passi non si udiva, attutito.
— Signor rettore? - Ermanno chiamò a uno svolto, non iscorgendo più la guida fidata.
— Sono con voi, non temete - la paterna voce di monsignore gli rispose, ed arrivarono così alla Sede vescovile, collocata a fianco della Cattedrale.
Nell'androne si crollarono di dosso la neve, ed entrati nella vasta anticamera, si rivolsero a un cameriere vestito di nero, che si avanzò loro incontro silenziosamente; li accolse con sorriso di ossequio, poscia li condusse attraverso la fuga dei saloni, addobbati con magnificenza severa. Nella sala, precedente la stanza dove il vescovo riceveva, il cameriere si fermò, e disse a bassa voce, dopo una riverenza:
— Comandino pure.
— È visibile monsignor vescovo?
— Poco fa stava in meditazione; ora sarà accessibile forse.
— Ditegli, in cortesia, che l'ordinando Ermanno Monaldeschi, accompagnato dal rettore del seminario, supplica la sua benignità per una udienza.
Il cameriere, camminando sulla punta dei piedi, infilò un piccolo corridoio a sinistra e, nel silenzio, suonò il rumore cauto ch'egli fece, picchiando alla porta della stanza privata.
La sala, dove Ermanno attendeva con monsignore, aveva seggioloni a braccioli in broccato rosso e oro: una tavola massiccia, coperta di tappeto rosso, andava quasi dalla finestra alla porta, drappeggiate entrambe di cortinaggi riccamente frangiati. Un grande orologio a pendolo segnava le nove e un quarto del mattino, e pareva che fosse già sera per l'oscurità.
Il cameriere si affacciò all'ingresso del piccolo corridoio e disse:
— Monsignor vescovo si degna ricevere il signor rettore e il signor Monaldeschi. Favoriscano.
Monsignore precedè, Ermanno vacillò un istante, ma si riprese, ed entrò, sulle orme del maestro, nella stanza, dove monsignor vescovo li accolse amabilmente, seduto in una poltrona ampia, ricoperta di cuoio.
Le cortine della finestra altissima erano sollevate; una lampada ardeva davanti a un Crocifisso di ebano, appeso al disopra di un cassettone, di ebano anch'esso, ad intagli.
Monsignore baciò la mano del vescovo; Ermanno fece atto di genuflettersi, ma il vescovo, con gesto affabile, glielo impedì.
— Io chiedo scusa per questo mio discepolo di essere venuto a importunarla, monsignore, e in ora non propizia; ma il giovane desidera confortarsi della parola del suo pastore, e io non ho creduto porre indugio, molto più che fra poco avrà luogo la cerimonia della ordinazione.
— Lei ha agito saggiamente, signor rettore. Sant'Alfonso raccomanda ai chierici di cibarsi spesso del verbo episcopale - e, rivolgendosi a Ermanno, soggiunse:
— Ecco, il vostro pastore vi ascolta con cuore paterno. Dite, figliuolo.
Monsignore fece riverenza per ritirarsi; ma Ermanno, atterrito, gli disse:
— Rimanga, signor rettore.
— Se monsignor vescovo non ha nulla in contrario - osservò monsignore umilmente.
Il vescovo, che aveva aggrottate le sopracciglia all'esclamazione di Ermanno, spianò la fronte.
Monsignore sedette alquanto in disparte. Ermanno rimase in piedi.
Il vescovo attese un istante, appoggiando le mani paffute sui braccioli della poltrona.
Tale era l'immobilità delle cose che la croce d'oro, fregiante il vescovo e sospesa sul petto con una catena a doppio padiglione, sembrava irrequieta, secondando il moto del pacato respiro.
— Dunque parlate - il vescovo disse con una sfumatura lievissima di corruccio.
Ermanno balbettò:
— Mi sia benigno, monsignor vescovo. Ho l'animo turbato; la parola mi dà sgomento.
Il viso largo del vescovo assunse espressione di rigidezza; ma il suono della voce rimase incoraggiante:
— La parola infatti è spada pericolosissima e che va usata perciò con cautele infinite; ma, tenuta in cuore, potrebbe anche uccidere i vostri migliori propositi. Io sono qua per ascoltarvi e guidarvi. Parlate.
Ermanno Monaldeschi alzò il capo e, lentamente, con accento in cui tutto lo sforzo della volontà tremava, disse:
— Io dubito, e contro il mio dubbio lotto da tre anni. Con sincerità ho voluto credere tutto, con fervore ho voluto annichilirmi....
Il vescovo, immoto e tacito, premeva con le palme i braccioli della poltrona; monsignore, pallidissimo, teneva le mani aperte abbandonate sopra i ginocchi.
Ermanno esponeva le fasi del suo martirio spirituale.
— Per meglio affermare ho voluto scrutare, per meglio stabilire la saldezza delle verità rivelate, ho voluto ricercarne le basi. Molto allora si è sgretolato....
Il vescovo fece per alzarsi e protendersi, investito da sacra indignazione, ma riuscì a contenersi ed a riacquistare mansuetudine:
— Molti hanno dubitato prima di voi. La fedeltà di Pietro vacillò; oscillò la fede di San Tommaso. Ma dalla Chiesa emana luce. Io vi dico, in verità, che anche i ciechi vedono quando vogliono vedere, nè contro i bagliori della nostra fede le tenebre hanno predominio. Umiliatevi al cospetto della verità rivelata.
— Mi sono umiliato, mi sono umiliato.... disse Ermanno, abbassando la voce. Dopo una pausa aggiunse - Ma inutilmente....
— Umiliatevi al cospetto del vostro orgoglio. Rinnegate gli errori della vostra mente circoscritta.
— Ho voluto, ho voluto, ma inutilmente.
— Non avete dunque una fede? - il vescovo esclamò, battendo forte la destra sul bracciolo. - Voi siete dunque la pomice secca e sterile, dove niente fruttifica!
Ermanno ebbe un grido.
— Sì. Nutro una fede. Io non sono la pomice arida; tutto nell'anima mia potrebbe fruttificare. Ma sento che il mio raziocinio non posso calpestarlo, nè rinnegarlo.
Il vescovo si era alzato e, stendendo il braccio verso di lui con l'indice teso, gli disse:
— In voi parla Satana. Io v'impongo di umiliarvi, non di fronte a me, vermiciattolo, ma di fronte alla podestà di cui la Chiesa mi ha rivestito. Inginocchiatevi, chierico Monaldeschi, inginocchiatevi davanti al vostro vescovo, che ha pietà e orrore di voi.
Ermanno s'inginocchiò.
— Curvate il capo, incrociate sul petto le mani.
Ermanno incrociò le mani e curvò la testa.
— Accusatevi di orgoglio e di fallacia.
— Mi accuso - Ermanno balbettò, smarrito, col petto ansante.
— Dite che il vostro pensiero venne pervertito da false idee, che la vostra coscienza venne intorbidata da malvagi sofismi. Avvilitevi, annientatevi nella polvere, di cui siete plasmato.
La persona di Ermanno, curva, fu squassata da un sussulto, e dalla gola gli uscì un sospiro, che pareva un rantolo.
— Annientatevi nella polvere - il vescovo ripetè, ergendosi maestosamente sull'alta, pingue statura, per meglio calpestare, in nome della sua podestà, la satanica ribellione del chierico.
Ermanno si accasciò, come se una raffica spaventosa imperversasse nella stanza ed estirpasse in lui ogni radice di forza.
Allora monsignore, vedendolo così inginocchiato, con le mani incrociate sul petto, la testa giovanile piegata a toccare il suolo, intervenne e disse con accento persuasivo, quasichè volesse appoggiare con la sua paterna autorità gli anatemi collerici del vescovo:
— Pensate anche, figliuol mio, alla somma di coraggio umano che vi sarebbe necessaria per abbandonare oggi il grembo della Chiesa militante.
Ermanno si rizzò sul busto.
— Pensateci, figliuolo. Tutto il sangue ardito dei Monaldeschi forse non basterebbe a sostenervi oggi in questa prova acerba.
Le mani di Ermanno, incrociate, si disciolsero, le braccia gli caddero lungo i fianchi.
Il vescovo, dubbioso, guardò il rettore; ma il rettore, con faccia di pietà, mirava il discepolo, e gli occhi non rivelavano che sollecitudine ansiosa di padre.
Il vescovo si mosse per accostarsi al giovane.
— Ermanno Monaldeschi - egli disse - io vi giudico impegolato nella pece dell'eresia, e da pastore sollecito del vostro bene, sollecito del bene della mia greggia, vi ordino di non avere per il momento nessuna comunione coi vostri condiscepoli.
Ermanno si alzò.
— Vi ordino di appartarvi e restare in continua meditazione.
Ermanno, sollevò lentamente in faccia al vescovo gli occhi luminosi.
L'uno giudicava inviolabile il diritto del dominio, per secolare tradizione d'impero; l'altro giudicava inviolabile il sacrario della coscienza.
— Andate, meditate e pregate Iddio che vi aiuti per abbattere l'orgoglio del vostro pensiero.
— Non posso - disse Ermanno, dolorosamente, ma con fermezza.
— La chiesa vi ripudia.
— Iddio, che legge nei cuori, mi sarà misericordioso. - Ed egli, per il primo, riacquistò padronanza, riassumendo atteggiamento d'umiltà, che in quella stanza e sotto quella veste ancora gli s'imponeva.
Anche il vescovo aveva riacquistato calma e, senza più parlare al reprobo, senza nemmeno far mostra di averlo di fronte, si rivolse grave a monsignore, e gli disse:
— Provveda immediatamente, signor rettore, acciocchè la pecora guasta non contamini il restante del gregge.
Monsignore si piegò con inchino lunghissimo e baciò umilmente la mano del vescovo, il quale indicò col dito la porta.
Ermanno fece cenno di ossequio, aprì il battente e lo tenne fermo al passaggio di monsignore, inchinandosi con tutta la persona davanti al maestro rispettato ed amato e rendendogli così, al cospetto del vescovo, l'omaggio della sua imperitura devozione.
Il rettore doveva pagare con trasloco quasi immediato quell'atto di filiale gratitudine rivolto a lui da Ermanno Monaldeschi, l'eretico.