Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/322

— Ermanno, Ermanno! Cosa fai, Ermanno?

Il figlio non le badava.

— Cosa vuole dunque, cosa aspetta? - egli disse al professore, prendendolo per le spalle e sospingendolo verso l'uscita.

Corrado Gigli si divincolò dalla stretta e, squassando l'ombrellino, si dette a gridare:

— Sissignore, vado. Non mi tocchi. Vado e non torno. Si figuri! - e, nella furia di scappare, dimenticò la paglietta. Varcato l'ingresso egli si fermò iroso ed esclamò:

— Il cappello; rivoglio il mio cappello.

Ermanno corse a prenderlo, glielo gettò al disopra del muro di cinta, attese che il professore non si vedesse più e tornò, come pazzo, alla madre, che si era abbandonata sopra il sedile e tremava, battendo i denti.

-Vedi? Vedi? Il mio nome è Monaldeschi. Il mio nome io devo difenderlo.

Ella si strinse le tempie nelle mani:

— Cosa pensi, Ermanno, cosa pensi?

Il figlio ansava, accasciato anche lui sopra il sedile, anche lui stringendosi la testa nelle mani. A un tratto le si rivolse ed ebbe un grido, in cui nel sommovimento della passione, tutto il fondo dell'anima saliva a galla:

— Ma allora a che ti serve la tua religione? Perchè ti confessi? Perchè vai in chiesa?

Ella si rizzò altera e gl'impose:

— Non voglio più insulti. Non ho niente da rimproverarmi con quel ragazzo. Il Signore ti perdoni;