Il miracolo/Parte seconda/III

Capitolo III

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CAPITOLO III.

Ermanno passava di meraviglia in meraviglia. Fin dalla sera avanti le stanze della villa, ove egli da anni non era più stato, perchè il seminario possiede una villeggiatura sua propria a Settecamini, gli si erano mostrate ospitali, amabilmente, e il chiosco di verzura, il melo dell'orto, la secchia gocciolante del pozzo avevano assunto per lui atteggiamenti amichevoli e gli avevano narrato episodii gentili della sua infanzia, trasfondendogli un senso di stupore e delizia. Quanti ricordi minuti giacevano nel fondo della sua memoria, ch'egli aveva obliati e che si riaffacciavano adesso uno alla volta, inducendolo al sorriso per la loro schietta semplicità!

Il melo dell'orto gli rammentava un giorno remoto, in cui suo padre stava in piedi sul tronco più eccelso e sua madre, vestita di rosa, aveva tolta la scala a piuoli e poi gridava dal basso, ridendo:

— Gentile, vieni; Gentile, scendi - e suo padre, [p. 275 modifica]ridendo anche lui, faceva l'atto di precipitarsi: allora la mamma spaventata gridava: - Non fare pazzie, Gentile - e chiamava il contadino che l'aiutasse a rialzare presso il tronco la scala. Egli e Serena guardavano i pomi occhieggiar di tra il verde e piangevano per averli. Ermanno non rammentava se questo era accaduto di mattina o di sera: ma rivedeva con precisione l'abito rosa di sua madre e la comica smorfia, nel pianto, del musetto di Serena.

La secchia del pozzo gli narrava di un misero gattuccio da poco nato, ch'egli e Serena avevano immerso nell'acqua per fargli prendere un bagno; il gattuccio era morto e Serena lo aveva deposto dentro il suo cuffiotto; così, processionalmente, essi lo avevano portato a Titta, il quale aveva buttato via il piccolo mucchietto viscido e aveva appeso il cuffiotto allo spino di una siepe.

Dovunque, sempre, quel cuffiotto biancheggiava nel ricordo e, sotto le ali ampie, il viso mobile, la personcina irrequieta di Serena.

Ermanno, guardando, pensando, ritrovava sè stesso, e la giovinezza gli si riattaccava all'infanzia con mille fili.

Un'altra sensazione, stranamente gradevole, gli conferiva stupore e benessere; la sensazione di udire voci femminili, di mirare gesti di mani femminili.

Durante gli anni del seminario, egli non era stato davvero soggetto a clausura; aveva passeggiato giornalmente per le vie di Orvieto, era stato [p. 276 modifica]di frequente a pranzo in famiglia, chiacchierando con Serena e le amiche di sua madre, vedendo in parlatorio, nelle ore di visita, cappellini, mantiglie, abiti di ogni foggia e muliebri ornamenti di ogni stile; ma era tutt'altra cosa.

Aveva incontrato moltissime donne in istrada, in salotto, in parlatorio; non vedeva, da anni, la donna poetizzata dal riflesso degli oggetti domestici, rivestita di grazia nella blanda luce della casa, in comunione indistruttibile con i velarii che, davanti alle finestre, si atteggiano docili a pieghe e festoni sotto il giuoco lieve delle sue dita, con i fiori e le frutta, che si ripiegano intorno agli orli delle coppe o si dispongono dentro le conche delle fruttiere, per secondare le vezzose bizzarrie dell'industria casalinga.

Come supporre che il fruscìo delle vesti materne, udito attraverso il battente di una porta socchiusa, valesse a sedargli il tumulto dei pensieri, largendogli pace?

Come supporre che il gesto grave della contadina, togliente il pane odoroso da una canestra, potesse conferire lustro di religiosità famigliare al candido latte, al cremoso burro, pronti per il pasto del mattino?

Palmina stessa, entrando nella stanza per deporre sopra una seggiola gli abiti spazzolati, si moveva, si piegava, girava una vigile occhiata intorno ed usciva, senza che della sua rapida apparizione egli risentisse fastidio.

Il cuore gli si agghiacciava, rivedendo, con la [p. 277 modifica]immaginazione, i muri delle camerate bianchi di calce, le tavole strette e lunghe del refettorio, i corridoi deserti, il cortile affollato, i servi con grosse mani e ruvidi gesti.

— Ancora due anni - egli si disse ad alta voce, come per consolarsi; ma subito pensò che la sua impazienza di abbandonare il seminario era colposa, era sterile, perocchè l'intiera sua vita doveva trascorrere in solitaria astinenza.

Vanna entrò, aprì le cortine e si mise a ridere.

— Perchè ridi così? - egli le disse, mirando con gioia il colore azzurrino delle pareti, la cornice a intagli dello specchio.

— Perchè sei tu a farmi ridere. Oh! lo sciocchino! Guardati la cravatta - e lo condusse davanti allo specchio, ov'egli si vide con la cravatta annodata di traverso.

— Capisco bene che bisogna aiutarti, come quando eri piccino - e, aggiustatagli la cravatta, lo prese sotto braccio per condurlo a colazione.

Il portico era ancora tutto immerso nell'ombra, e intorno alle quattro colonne i rami del gelsomino rampicante si attorcigliavano, mandando profumi; il chioschetto verde, già nel sole, pareva uscito da un lavacro per l'umidore della rugiada.

— Come si sta bene - disse Ermanno, sorseggiando con lentezza il caffè e latte.

— Divinamente - Vanna assentì, e nemmeno la sfiorò l'idea, pur così ovvia, che quel benessere avrebbe potuto durare per lei fino all'ora della morte e ch'ella avrebbe potuto circondarsi [p. 278 modifica]di gioia nuova, rimirando le fattezze infantili del caro figliuolo nei cari figliuoli di lui. Pensava a questo talvolta, durante le tristi serate invernali, sola nella vastità muta della sua casa cittadina; ma s'impauriva per tale pensiero, si chiamava spergiura, sacrilega, rinnovava il voto di mai togliere a Dio quanto gli aveva liberamente donato; il puro fiore della sua anima, il vivo frutto delle sue viscere.

Ermanno uscì con un libro e si perdette pei campi senza scopo nè itinerario. Egli ignorava completamente l'ebbrezza sconfinata che può largire la solitudine della campagna ad uno spirito alacre. Per anni egli non si era appartato mai; nelle camerate, nelle classi, durante la passeggiata e la ricreazione, per le funzioni religiose ed i pasti, nelle ore di studio, perfino in sacrestia, era circondato dai compagni, sorvegliato instancabilmente dal prefetto, i regolamenti vietando con rigidità al chierico di restar solo. Perchè? Perchè dall'isolamento pullulano le tentazioni ed i cattivi pensieri, ammoniscono Sant'Alfonso e San Francesco di Sales, mentre Ermanno, camminando quella mattina pei solchi e per viottoli in libera solitudine, sentiva germogliarsi pensieri di bontà solerte e riceveva da tutte le cose ammonimento di operosità.

Vide un contadino dentro un orto, che sradicava un giovane albero grandicello e gli domandò.

— Perchè la sradichi questa povera pianta?

— Perchè sta troppo vicina a quest'altro [p. 279 modifica]albero che lei vede; le radici s'incontrano e le due piante intristirebbero, non darebbero frutti.

Ermanno si allontanò, scavalcando una siepe.

— Le due piante intristirebbero, non darebbero frutti - egli si ripetè e si dette a riflettere.

Così dell'uomo! Bisogna possedere uno spazio a sè, e che le radici del proprio essere non s'inceppino nelle radici degli altri esseri! Ebbe allora improvvisa, imperiosa la rivelazione dell'io, non già meschino ed angusto, ma libero, ampio, pronto a dar luce e riceverne in uno scambio sempre rinnovato di feconda simpatia umana.

Il tempo gli volava: di buon mattino si metteva in giro e, incontrando un ruscello, v'immergeva le mani; imbattendosi in un vecchio albero che desse ombra, si distendeva sull'erba e contemplava il viluppo delle fronde. Riedificò a proprio modo l'edificio della propria coltura in quelle ore di solitaria meditazione, e rimase attonito quando si accorse che molte delle sue deduzioni somigliavano adesso alle deduzioni semplici di Serena.

Non voleva convenirne, e si arrabbiava, contraddicendola per progetto nei loro dialoghi, allo scopo di contraddire se stesso.

Si vedevano ogni giorno nel pomeriggio, poichè Serena aveva dovuto trasportare la zia in campagna, durante i calori dell'agosto, tanto la povera Domirò si finiva di struggere a guisa di cera, dentro le stanze afose della casetta orvietana. Si nutriva appena di qualche pezzettino di ghiaccio [p. 280 modifica]e qualche sorso di latte, non aveva più forza di muoversi, e Serena sollevava di peso il diafano corpo per deporlo dal letto alla poltrona. Una febbre lentissima le succhiava il sangue, le spolpava le ossa, ed ella gioiva, esaltando il Signore che le permetteva di vivere per patire e che, misericordioso, le faceva assaporare la morte, largendole tormenti con paterna, amorosa prodigalità. Sentirsi ardere, poi gelare; tossire affannosamente e rimanere poi senza respiro, con la persona affranta cosparsa di sudore, le procacciava delizia, ed innalzava coll'anima inni di grazia a Gesù dolce, Gesù amore, che la rendeva degna di gustare nelle sue carni misere una porzione dello strazio da lui sofferto nelle carni divine.

— Oh! Gesù - ella diceva di notte, mentre Serena dormiva il buon sonno della giovinezza in una stanza attigua e mentre il raggio lunare batteva in pieno sui vetri della finestra - Oh! buon Gesù, concedi che io patisca ancora in memoria delle tue sante piaghe! - E quando Serena, scalza, entrava nella stanza per offrirle da bere, ella, pure ardendo di sete, fingeva di dormire, perchè Serena non la obbligasse ad accostar le labbra al bicchiere.

Serena la contemplava per qualche istante al chiarore lunare e si accorgeva ch'ella era desta; ma preferiva lasciarla tranquilla e non tediarla con le proprie insistenze, a cui d'altronde la morente opponeva una ostinazione implacabile di mutismo e sorrisi. [p. 281 modifica]

Di ciò s'intratteneva con Ermanno, allorché di sera egli accompagnava la madre a visitare l'inferma. Di solito, Bindo Ranieri e Villa si trovavano con Serena, e avevano adagiata Domitilla Rosa in una poltrona a sdraio, per tenerla sotto il portico a respirare la buon'aria colma di ossigeno.

— Come va oggi? - Vanna Monaldeschi le chiedeva dolcemente.

Domitilla Rosa alzava le braccia scarne e mormorava:

— Il Signore è bontà. Egli conosce la nostra debolezza e ci misura il patire.

Bindo Ranieri le offriva latte ghiacciato dentro una tazza.

— Bevete, Domitilla Rosa! Il medico vi ordina di bere molto latte - e Domitilla Rosa beveva docilmente, se la nausea la stringeva alla gola; torceva il capo, se le labbra aride invocavano il refrigerio della bevanda.

— L'ostinazione è prova di santità e voi siete una santa - le diceva Bindo Ranieri, deponendo la tazza, e Domitilla Rosa, inorridita nel sentirsi chiamare santa, si faceva il segno della croce, accusandosi d'innumerevoli peccati, profetizzandosi con parole d'orrore le pene eterne, se Cristo Gesù non intercedesse per lei e non placasse l'ira acerba del Padre.

— Ecco, vedi, si è martirizzata tutta la vita per acquistarsi, il Paradiso, e adesso muore con la paura dell'inferno - diceva Serena a Ermanno, passeggiando sul prato davanti alla casa. [p. 282 modifica]

Ermanno taceva, interdetto, non sapendo che risponderle.

— L'Inferno è assurdo - ella insistè, chinandosi a ogni passo per cogliere erbe aromatiche.

— Non vorresti tu che ci fosse un luogo di punizione pei tristi? - le domandò egli, nella speranza d'imbarazzarla e attendendo che la risposta di lei gli desse agio di orizzontarsi fra il viluppo de' suoi dubbi.

— Prima di tutto l'Inferno ce lo siamo inventato noi a somiglianza delle nostre paure. Fuoco, fiamme, pece bollente, corna di diavoli, code di mostri; tutto questo non è originale.

— Anche gli antichi pagani ammettevano luoghi di punizione - ed Ermanno si pentì di tali parole, che potevano servire di appiglio a Serena per fortificarsi nelle sue eresie. Ma Serena invece disse:

— E poi perchè il Signore punisce i tristi? Se, come giura zia Domitilla Rosa, tutto nel mondo accade per predisposizione divina, i tristi ubbidiscono alla sua volontà, ed è ingiustizia punirli.

Ermanno allora, per convincerla, si dette ad esporle con metodo la teoria del libero arbitrio.

Le stelle, a miriadi, brillavano in cielo, la via lattea distendeva sull'azzurro una zona di velati bagliori; le rane gracidavano pei fossi in lontananza e un grillo zirliva invisibile fra l'erba, mentre le siepi si punteggiavano di gaie fiammelle mobili e il figlio del villano cantava una strana [p. 283 modifica]canzone, discesa chissà da quale zampillo di poetica vena popolare:

Lucciola, lucciola, calla, calla, Metti il piè sulla cavalla La cavalla del figlio del re, Lucciola, lucciola, vieni da me.

Ed Ermanno, fra tutta quella pace, prendeva dalla memoria le argomentazioni della scolastica per allinearle davanti ai begli occhi di Serena, e provava sgomento nell'accorgersi che quelle argomentazioni gli apparivano puerili e che il suo lucido pensiero le debellava a una a una nel punto stesso in cui egli le difendeva con tenacia accanita.

Serena trovava le parole di Ermanno terribilmente difficili a comprendersi e, per aiutare la propria intelligenza, insinuò cauta una mano sotto il braccio di lui.

— Capisci? - egli le spiegava, appoggiandosela meglio al braccio, perchè meglio ella si inoltrasse negli oscuri meandri del suo discorso. - Capisci? Il Signore ci ha fatti schiavi della sua volontà, ma nello stesso tempo noi abbiamo facoltà di scernere il bene dal male. Se la nostra scelta è errata, noi siamo colpevoli.

Serena fissava una stella piccolissima, di cui ogni palpito le si ripercuoteva nel cuore. Si mise a ridere senza ragione.

— Tu ridi? - Ermanno le disse, fermandosi per mirarle in viso l'origine della sua allegria; [p. 284 modifica]ma il viso, ch'ella teneva chino, rimaneva nell'ombra dei folti riccioli scapigliati.

— Non andare in collera, Ermanno! Io non rido per te; rido per queste cose.

— Quali cose?

— Le cose che tu mi dici.

Egli tentò d'indignarsi; ma fu vinto da pietà per tanta ignoranza.

— Sciocca, non sono cose, ma sono idee.

Essa buttò indietro il capo, perchè l'aria della notte le sgomberasse dal cervello le nebbiosità dell'errore, ed Ermanno sentì accarezzarsi la gota da un soffio tepido.

— Le idee sono le cose - ella affermò imperterrita, dopo averci riflettuto, ansiosa di apprendere, ansiosa sopratutto di prolungare all'infinito la dolce lezione di Ermanno.

— Tu sei molto sciocca - egli le ripetè dolcemente, e le spiegò come, secondo il sistema di Platone, le cose non sono che ombre pallide, immagini sbiadite delle idee.

— Sei convinta? - le domandò.

Ella accennò di sì vivamente col capo e intrecciò l'altra mano alla mano che già gli teneva infilata nel braccio.

Oh! certo, era convintissima, e la filosofia di Platone doveva essere davvero santa, magnifica, se riusciva così a farle apparire più numerose e fulgide le stelle del cielo.

— Mi piacciono queste cose - ella mormorò con lungo sospiro; ma si corresse e ripetè: - Mi piacciono queste idee. [p. 285 modifica]

Ermanno si stupiva di averla convinta, giacchè nel suo spirito invece tutto era tenebroso, ed egli nutrì per un attimo il reo sospetto che la vita fosse bella e nobile in sè, all'infuori dei fallaci sistemi che l'intelletto umano si affatica a edificare gli uni sopra le rovine degli altri, ma sempre col materiale stesso, dannati sempre alla medesima caducità.

— Ermanno - ella disse.

— Cosa vuoi, Serena?

— Niente - ed ella ebbe un riso di bambina. - Ti chiamavo per sentirti rispondere.

Anch'egli avrebbe voluto fare altrettanto; ma un uomo, un chierico di ventidue anni e qualche mese, non può mostrarsi fanciullesco come una scherzosa ragazzina diciottenne, ond'egli tacque, e la voce del villanello ricominciò a cantarellare la strana canzone:

Lucciola, lucciola, calla, calla, Metti il piè sulla cavalla La cavalla del figlio del re, Lucciola, lucciola, vieni da me.

— Cosa vorrà dire? - Ermanno domandò.

Serena alla sua volta si mostrò ornata di rara sapienza:

— Sai, in queste cose non bisogna guardare il senso delle parole. È il suono che conta. Chiudi gli occhi e ascolta il suono; allora vedrai tante lucciole, tante lucciole e contadini in giro che battono le mani. Chiudi gli occhi. [p. 286 modifica]

Ermanno ubbidì e una dolcezza meravigliosa lo avvolse, trasportandolo con Serena fuori del tempo.

— Vedi? - ella mormorò.

— Sì, vedo.

— Che cosa vedi?

— Tante lucciole.

— Anch'io! Sono grandi come stelle. Dio mio, com'è bello il mondo! È bello di giorno, è bello di notte! Io amo la terra, il cielo, tutte, tutte le cose! Ma non come zia Domirò! Io amo le cose per me, per la felicità che mi dànno, e quando noi due non ci fossimo più, non m'importerebbe che il mondo sparisse.

— Allora tu sei egoista - Ermanno le disse e, strano fatto, l'egoismo di Serena non gli apparve nè brutto nè biasimevole.

— Già, già, sono egoista - ella affermò con orgoglio -quando le cose non servono a te, non servono a me, io le trovo stupide e le disprezzo.

— Non vi basta ancora di chiacchierare, ragazzi? Vi guardavamo dal portico. Avrete fatto almeno cento giri. La signora Vanna rideva - disse Bindo Ranieri, guardandoli placido nella sua imperturbabile bonarietà, mentre Vanna, vedendoli tornare, continuava a ridere soavemente nella sua cecità incommensurabile.

Serena non era una donna; Serena era Serena, «madamigella grano di pepe», la farfallina del buon Dio; nè Ermanno era un uomo; era [p. 287 modifica]Ermanno, il suo figliuolo, il chierico destinato alla vita austera del sacerdozio.

— Sarete stanchi? — Vanna domandò, e i due giovani, di comune accordo, asserirono che non erano stanchi e che di notte, al fresco si cammina assai bene.

Si cammina assai bene, ma non si dorme, di notte al fresco; nè Ermanno dormì, rientrato nella sua stanza. Si pose alla finestra, guardò la campagna e ne ascoltò le voci misteriose. Una civetta singhiozzava, a intervalli, con melanconia nè il singhiozzare della civetta aveva per lui nulla di lugubre. Il brutto uccello notturno è l’emblema della sapienza, ed Ermanno lo considerava a guisa di amico. Non lo incitava forse a riflettere, a meditare intorno ai pericoli di certi prolungati colloqui sull’erba del prato, sotto le stelle del cielo?

Ermanno crollò il capo. Anche per lui Serena era Serena. Ma frattanto il respiro gli pesava e una irrequietezza gradevole gl’impediva di coricarsi e prender sonno.

A ventidue anni, il chierico era di una castità assoluta, conservata intatta grazie al suo carattere altero, al rigore della disciplina ch’egli medesimo si era imposta, alla mancanza d’occasioni propizie, alla operosità assidua dell’intelletto, alla illibatezza dei costumi, alla parsimonia del cibo. Era casto, ma non più ingenuo, perché lo studio delle sacre carte lo aveva edotto circa le origini e l’essenza del peccato che gli si era affacciato [p. 288 modifica]sempre alla immaginazione come un castigo turpe inflitto dal Signore alla miseria della nostra carne. La donna poi era l'essere di nequizia e d'impurità, alleata di Satana, brutta di astuzie, talmente sgradevole al cospetto del Signore che, volendosi servire di lei pel riscatto del mondo, egli aveva dovuto rigenerarla e renderla madre conservandola vergine.

Ma Serena era un'altra cosa. Forse perchè l'aveva conosciuta tanto piccola o perchè rideva, mostrando il candore immacolato dei minuti dentini, o perchè camminava senza quasi toccare il suolo? Per queste e per altre valide ragioni, Serena era un'altra cosa ed egli ci pensava senza alcun ribrezzo, e vedeva con piacere il suo fantasma biancheggiare tra gli alberi, il suo profilo disegnarsi incerto fra i velati bagliori della via lattea.

Non si coricò affatto, e all'alba uscì per vagabondare nella campagna.

Vanna sorbiva dunque sola il caffè e latte, in piedi fra le quattro colonne del portico, allorquando una voce sonora, dall'accento esotico, gridò gioiosamente di dietro la siepe:

— Monna Vanna, monna Vanna - e, schiantando rami, sfidando pruni, Fritz Langen si precipitò verso di lei, superò di un sol passo i cinque gradini e le fu dinanzi a capo scoperto.

Vanna, come paralizzata, lo fissava, supponendo di sognare, e tenendo sospesa in mano la tazza del caffè e latte.

— Prego! Prego! [p. 289 modifica]Non si muova, monna Vanna. Lei così mi pare Ebe, dea dell'eterna giovinezza.

— Il signor professore Fritz Langen? - ella interrogò smarrita, entrando in fretta nel salotto per deporre la tazza e trovare il tempo di ricomporsi.

Egli le tenne dietro, buttò il cappello sopra una seggiola e si asciugò la fronte.

— Come? Lei mi chiede le mie generalità? Ah! monna Vanna, lei avrebbe dato per caso, un tuffo nel fiume Lete?

Vanna lo invitò a sedere, gli sedette al fianco e lasciò cadersi scoraggita le mani in grembo. Cosa dirgli, Dio mio, cosa dirgli? Non trovava il coraggio di parlare, nè di guardarlo in viso, mentre egli invece parlava abbondantemente, e l'ammirava con soddisfazione.

— Prego! Prego! Le figure dipinte sopra la facciata del Duomo mi sembrano più invecchiate di lei. Dodici anni; si ricorda? Sono dodici anni!

— Già, dodici anni e quasi un mese - ella disse, macchinalmente, rivedendosi in visione fugace sulla piazza del Duomo quando Bindo Ranieri le aveva annunziato la partenza del professore. Dio mio! Dio mio! E adesso tornava! I morti tornano dunque?

Ma Fritz Langen non era morto, nè vagheggiava di morire. Svelto, a quarant'anni, per l'esercizio razionale della bicicletta, vestito di tela bianca, allegro, disinvolto, contentissimo di sè e della vita, egli rideva di gioia, fissando Vanna, [p. 290 modifica]e tirava su il respiro lungamente come persona che abbia percorso un faticoso tragitto e sia lieta di toccare la mèta.

— Quando è arrivato? - gli chiese Vanna, togliendosi dal dito e rinfilandosi un anello di perle e rubini.

— Ah! monna Vanna, monna Vanna - egli esclamò - vaso d'ingratitudine. Desidera lei sapere cosa ho fatto in queste due ore? Ho bussato al portone di piazza Gualterio, scongiurando inutilmente l'ombra del buon vecchio Titta; poi ho invocato schiarimenti da Bindo Ranieri, che tornava allora dalla campagna e mi segue; poi ho requisito tre animali, due cavalli e un cocchiere, poi ho adoperato la frusta io medesimo, perchè la carrozza volasse; ma la carrozza non volava; quella vecchia carcassa non divideva la mia impazienza, e allora io ho riconosciuto le quattro colonne della sua villa e sono corso a piedi. I cavalli arriveranno, forse, tra un'ora, io eccomi qui per deporre tra le sue candide manine il mio cuore fedele.

Vanna si mise a ridere.

— Lei non è affatto cambiato, signor professore.

— Sì, al mio paese sono moltissimo cambiato. Al mio paese sono professore, ho moglie e quattro figli.

Vanna chinò il capo di nuovo e sospirò:

— Quattro figli?

— Sicuramente, e senza pregiudizio per l'avvenire. [p. 291 modifica]Sà, in Germania si pensa alla grandezza della patria! ci vogliono uomini; ma io, sventuratamente, ho quattro donne. Bellissime del resto. La seconda, la mia prediletta, somiglia a lei, e si chiama anche Vanna.

Essa lo guardò stupita.

— Sicuramente, si chiama Vanna; anzi io la chiamo monna Vanna. Ho raccontato tutto a mia moglie, ed è contenta. Una brava donna superiore mia moglie. Tutte in Germania sono brave donne superiori! Ma parli di lei e mi offra la sua manina. Non ci siamo ancora stretta la mano. - e poichè Vanna non si moveva, egli le prese la sinistra, la baciò, se la portò sopra un ginocchio e se la tenne ferma.

— Mi dica di lei!

— Io? Niente - Vanna rispose, ed un rimpianto accasciato le tremò nella voce.

— Non si è innamorata mai più?

Vanna fece atto di ritrarre la mano, ond'egli la baciò di nuovo e la tenne più stretta.

— No, no, mi dica, dolce monna Vanna. Di chi si è innamorata dopo di me?

— Perchè vuole mortificarmi? - ella chiese. - Perchè mi tiene di questi discorsi?

— Prego! Prego! - Fritz Langen le disse umilmente. - Non ho intenzione di offenderla. Ho sempre pensato a lei; non l'ho dimenticata mai; bellissima nel mio pensiero. Dolce sciocchina! Ricorda? - e le baciò con delicatezza l'unghia del dito mignolo. [p. 292 modifica]

— Sì, ricordo; sì ricordo; mi lasci.

— Bella Italia! - Fritz Langen mormorò commosso profondamente, com'egli si commoveva; ossia ridendo in atto di schernirsi.

— Ricorda la gita etrusca di Settecamini? Ho viaggiato molto, ho visto i panorami più grandiosi; ma quella spianata in primavera, col Duomo rosso lontano e lei accanto, vestita di viola, mai niente di simile ho potuto rivedere. Quando ci pensavo mi faceva male.

— Tutto ricorda lei - Vanna disse con riconoscenza.

— Prego! Prego! Tutto ho scritto in italiano sopra un mio libro. E ogni tanto rileggo. So a memoria queste cose.

— Dio mio, dodici anni! - ella ripetè crollando il capo.

— No, no, ieri; è stato ieri - disse Fritz Langen con foga. - Dove sono i dodici anni? Sopra di me? Non li sento. Sopra di lei? Non li vedo. Lei è sempre l'uguale monna Vanna; la mia dolce sciocchina. Mi dia un bacio - Vanna si alzò di scatto per allontanarsi, ma Fritz Langen, che la teneva per mano, l'obbligò a risedersi.

— Dove fugge? Non abbia paura.

— Mi lasci - ella supplicò con voce soffocata, perchè la memoria dei sensi, pronta e vigile, si ridestava terribile in lei.

— Stia qui; mi ascolti. Oh! lei trema, dolcezza. Non tremi così - e le cinse col braccio la vita. [p. 293 modifica]

Ella si divincolò disperatamente, balzò in piedi e corse a rifugiarsi nel vano di una finestra.

Fritz Langen si passò le dita fra i capelli, si arricciò i baffi e, più calmo, le si avvicinò.

— Sta bene, sta bene; come lei vuole, monna Vanna. Riparto fra poco. Vengo da Firenze e vado a Roma, fra una settimana debbo trovarmi a Lucerna, dove passerò il resto delle vacanze con la famiglia. Non mi tenga il broncio, monna Vanna. Lei è regina nel mio ricordo. Lei è il simbolo della mia giovinezza.

Vanna, piangendo, si nascose il volto fra le mani. Dio mio, Dio mio! quando avrebbe ella trovato pace? Perchè la tentazione era sempre più forte della volontà? Se Fritz Langen avesse voluto, ella sapeva che, a malgrado di pudori e terrori, gli si sarebbe abbandonata esultante nelle braccia. Dio mio! Dio mio! Che cosa triste! Fritz Langen le prese con tenerezza il bianco viso nelle palme e, dopo avere scrutato coll'occhio all'intorno, la baciò sulle palpebre adagio adagio.

Vanna, affannosa, gli offerse le labbra, e stavano per baciarsi forsennatamente, quand'essa lo respinse con folle impeto, rientrò nella stanza, si lasciò cader seduta sopra il divano e gli disse in preda all'orgasmo:

— Ermanno, viene Ermanno! Per carità gli vada incontro.

Fritz Langen, sconvolto anche lui, guardò verso l'ingresso, ma fu rapidissimo a ricomporsi ed accolse [p. 294 modifica]l'apparizione di Ermanno con gioviale disinvoltura.

— Salute, o Ermanno Monaldeschi, magnifico signore di Orvieto! È lecito di farle riverenza?

Il magnifico signore non parve disposto a largire onori eccessivi all'ospite straniero.

— Il professore Fritz Langen, se non isbaglio?

— No, vossignoria non può mai sbagliare e io sono il professore Fritz Langen, domiciliato a Colonia, in viaggio con biglietto circolare nella patria di Dante.

— Si accomodi - ed anche Ermanno prese posto, dopo avere gettato alla madre una involontaria occhiata scrutatrice.

La prima interrogazione di Ermanno fu poco gentile, e mostrò limpidamente in quale stato di animo il giovane si trovasse.

— Riparte oggi stesso lei, signor professore?

— Prego! Prego! Ripartirò subito. Ho compreso Orvieto fra le mie tappe per rivedere lei, la sua mamma, la facciata del Duomo e l'illustrissimo Bindo Ranieri. Avrei desiderato salutare anche il vecchio Titta; ma egli ha voluto morire e io non ho il tempo di andare a piangere sulla sua tomba. M'incontrerò con lui nella valle di Giosafatte e lo riconoscerò dal suo cappello.

Ermanno diventò più incoraggiante e si stabilì una conversazione generica, di cui Fritz Langen faceva quasi per intiero le spese, giacchè Ermanno parlava poco e monna Vanna non parlava affatto, immobile nel mezzo del divano, bianca più della [p. 295 modifica]sua veste candida, atterrita in viso, pure sforzandosi di apparire sorridente, fissando ostinata il grosso rubino del suo anello, che mandava piccoli bagliori sanguigni. Ambascia e vergogna la divoravano e, chinando il capo, avrebbe voluto annichilirsi per la presenza del figliuolo. Che supplizio! Oh! potersi alzare, e chiamare Palmina per darle un ordine; potersi avvicinare alla finestra e fingere di guardare la campagna! Forse Ermanno allora avrebbe smesso di gettarle, a quando a quando, rapidissime occhiate involontarie, ch'ella non vedeva, ma di cui sentiva il bruciore sulla fronte e sopra le mani. Invece no, ella non osava muoversi, perchè ogni più lieve gesto poteva diventare formidabile come una rivelazione, e perchè le pareva che la immobilità sola valesse a rendere impenetrabile il tumulto de' suoi pensieri. Soffriva tanto che per un attimo smarrì la coscienza di sè e fu sul punto di svenire, ma la voce di Ermanno la rinvigorì, producendole l'effetto di una sferzata.

— Mamma, il professore ti chiede perchè non fai qualche viaggio.

Ella rise, e con voce stranissima disse:

— Già, figliuolo, avevo capito. No, non voglio viaggiare: la campagna è assai più bella - poi tacque improvvisamente, nella certezza spaventevole che Ermanno le scrutava in cuore pel tramite della sua strana voce.

Bindo Ranieri entrò, soffiandosi il naso, ed ella trovò finalmente la forza di muoversi e si avviò per uscire. [p. 296 modifica]

— Non fugga, monna Vanna - Fritz Langen le disse, volgendosi - non fugga e si rimetta a sedere - e la povera monna Vanna non fuggì, tornò anzi a sedersi docilmente.

Bindo Ranieri asseriva di non trovare parole per felicitarsi della superba improvvisata fatta agli amici dal signor professore, e di parole invece ne trovava tante che Vanna lo contemplava in una vera estasi di riconoscenza.

Oh! il bravo e caro uomo! Come sapeva bene parlare, dicendo cose inutili, e come nella sua ingenua bonarietà riusciva a trasfonderle pace con la placida espressione del volto, la placante schiettezza della sua gioia comunicativa.

Il signor professore interrogava; Bindo Ranieri prolissamente rispondeva.

— Zia Domitilla Rosa? Andava agonizzando un pochino a ogni ora e sarebbe dileguata uno di quei giorni come la eco di un suono. Madamigella Pfefferkorn? Una perla, una vera donnettina. Si credeva che nel cervello avesse aria, mentre le idee, poche o molte, vi stavano allineate in bell'ordine e nessuno al mondo sarebbe capace di rimuoverle. Don Vitale? Era meglio non parlarne troppo. Sacerdote esemplarissimo; ma di uno zelo cieco, rabbioso. Monsignore? Il ragguardevole personaggio era decoro del venerabile seminario orvietano, era lustro del clero cittadino. Forse alla sede vescovile si pensava di lui che... Ma qui Bindo Ranieri cambiò rotta con disinvolta rapidità. La sede vescovile era uno [p. 297 modifica]scoglio e gli scogli sono sempre irti di pericoli. Il Paterino? Diventava ben pensante in odio al sindacalismo, invenzione sociale inaccessibile alle sue facoltà mentali.

Fritz Langen, ascoltandolo con vivo piacere, a ogni poco ripeteva:

— Sehr gut - poscia, tormentato da un dubbio atroce, domandò inaspettatamente a Bindo Ranieri:

— Prego! Sono io diventato un filisteo?

Bindo Ranieri, il quale non aveva idee precise intorno al filisteismo, vilipeso da Heine, temuto da Fritz Langen, capì, dall'accento del professore, che certo si trattava di taccia ignominiosa, onde esclamò con indignata convinzione:

— Lei? Ma cosa dice mai, signor professore? Lei? Una così dotta persona? Non ci pensi, per carità; si fa torto.

Fritz Langen rinnovò la domanda, indirizzandosi a Vanna:

— Prego! Sono io diventato un filisteo?

Vanna ricordò, in confuso, che ai tempi delle loro dolcezze, Fritz Langen diceva filisteo per indicare le persone stupide e prive di audacia; ond'ella rispose con sorriso forzato:

— No, davvero; lei non è filisteo.

Fritz Langen, soddisfatto, prese congedo, abbreviando la visita. Da uomo superiore, aveva compreso immediatamente che Ermanno, ricordando, gli serbava ira; nè ciò gli spiacque, giudicando anzi logico e rispettabile il sentimento del serio giovane. Restare a colazione? Mille, grazie no. Voleva rivedere il Duomo e i canarini della sua [p. 298 modifica]padrona. Bere qualche cosa? Grazie, no. Di mattina non aveva sete. Si licenziò dunque con molte belle espressioni e, nella sua impulsiva spavalderia di moschettiere disse rapidamente a Vanna, in tedesco, stringendole con forza la mano:

— Auf vieder sehen, süsses Dummerchen. A ben rivederla, dolce sciocchina.

Ella, ghiaccia per terrore, inchinò il capo senza parole.

Risalito nella carrozza, in compagnia di Bindo Ranieri, il signor professore scrisse a matita sopra un libriccino:

— Bella Italia. Orvieto. Dieci ore di fermata. Ottimo tempo. Minuti divini. Incantevole monna Vanna. Accoglienza ostile del figlio. Questo mi piace. Degno epilogo del poema. Mai più tornare. Sehr gut - e, aperto l'ombrellino da sole, cominciò a dir celie in dialetto orvietano con Bindo Ranieri.

— A che ora desideri il pranzo? - Vanna disse al figliuolo, appena furono soli, senza trovare il coraggio di avvicinarglisi.

— Quando tu vuoi - Ermanno rispose, ed evitò di guardarla.

Rimasero così in piedi, l'uno di fronte all'altra e separati dal tavolo. Il silenzio greve assunse, a poco a poco, vaste proporzioni di tragicità.

Durante l'intiera mattina, Ermanno non uscì. Di che cosa temeva? Evitò di scrutarsi a tale proposito [p. 299 modifica]ma, per la prima volta, riconobbe la responsabilità che il nome impone e sentì con orgoglio di riallacciarsi per esso ai fastigi degli avi. Quanti valorosi condottieri nella sua casata, quanti podestà seduti a consiglio nel palazzo del popolo, quanti fra i documenti adunati negli archivi portavano in rotonde lettere il nome dei Monaldeschi. E quante altere donne nella sua prosapia, per la integrità del cui onore fiumi di sangue erano corsi, rovine ed incendi avevano devastato le contrade!

Un sentimento misto di orgoglio e collera lo sollevava a simili memorie: di orgoglio per l'antichità storica del suo nome, di collera al pensiero cocente che altri avesse osato di macchiarlo. Oh! se allora egli fosse stato quello di oggi, con quale impeto si sarebbe frapposto tra la debole creatura a lui diletta, legata a lui col più sacro dei vincoli e lo straniero rapace, venuto di lontano a gettare fuliggine sopra il suo nobile casato!

Ermanno camminava a gran passi attraverso la campagna, e un furore lo sospingeva; un furore di misurarsi, di cimentarsi, di assicurarsi che il sangue in lui non era degenere, ch'egli era coraggioso e fiero, pronto ad uccidere e lasciarsi uccidere, se taluno lo insultasse o tentasse menomare la compattezza dei suoi diritti. [p. 300 modifica]Dov'era la rassegnazione cristiana che predica il perdono dell'offesa e la dolcezza verso i nemici? No, Ermanno non perdonava a Fritz Langen, e lo avrebbe schiaffeggiato poc'anzi, se pietà di sua madre non lo avesse vinto! Povera madre, così buona, così amabile e mite! Ella era la piuma che vola ad ogni vento e il figliuolo si struggeva per lei di tenerezza accorata, resa pungente da uno sprezzo inconsapevole. Accadeva in lui una rivoluzione impreveduta, che lo disperava e gli dava gioia. Era come se gli avi lo incalzassero ed egli fuggisse per sottrarsi alla furia loro e, nel calore del moto accelerato, il lievito di mille istinti gli fermentasse: istinto di vivere, istinto di dominare, istinto di rintuzzare violenti, istinto di soffrire e godere per qualche cosa che non fosse la nebbiosità delle sue teorie, la pesantezza vacua delle disquisizioni scolastiche. Credeva fuggire dagli avi incalzanti e fuggiva invece dal suo proprio fantasma, inseguendo la propria coscienza. A un certo punto ebbe paura e si arrestò. Non lo chiamava qualcuno? Era la voce della sua infanzia candida ovvero la voce della sua adolescenza torbida? O non era forse la madre che, scorgendolo a una distanza per lei non superabile, invocava ch'egli le ritornasse? Ermanno percosse col bastone il tronco di un arboscello; i rami oscillarono; le cicale interruppero il loro alto schiamazzo. L'ubbriacatura dell'ira cedeva; ma il tumulto del sangue non voleva sedarsi. Sulla campagna le ore torride imperavano schiaccianti e il [p. 301 modifica]giovane ardeva. Si ricordò che a poca distanza doveva esserci un fosso profondo, scavato a pendio, dove l'acqua, balzante da una rupe, correva limpidissima sopra un letto sassoso. Volle trovare l'acqua e si smarrì, sbucò da una siepe, forandosi alle mani, tagliò la strada maestra, si perdè nella silenziosità dei campi bruciati, passò davanti a un casolare deserto, inseguito da un cane che abbaiava furente, si lasciò rotolare da un greppo, che poi risalì, e più camminava inutilmente più si accendeva nella rabbia. Gli pulsavano le tempie, il cuore lo urtava in petto a colpi ineguali. Avrebbe bramito come il cervo anelante d'amore nelle foreste e si ostinò, sotto la canicola, alla ricerca dell'acqua.

Una quercia isolata, forse millenaria, lo aiutò finalmente a orizzontarsi, e in pochi salti fu sull'orlo del fosso che, ombreggiato di rami, tracciava un solco verde e fresco in mezzo alla desolazione della campagna riarsa.

Ermanno, avido, sì gettò bocconi per immergere nell'onda la faccia, e restò immobile, col petto alzato e ansimante, gli occhi sbarrati, a mirare un corpo di donna, diritta nel mezzo del fosso, immersa nell'acqua fino alle anche, emergente nudo il bel torso giovanile, simile al torso di una dea fusa nel bronzo. La donna alzava le braccia con gesto lento, poi le rilasciava cadere a piombo, e le mani, cadendo impetuose nell'acqua, sollevavano spruzzi; la donna rideva, squassando la chioma di una biondezza chiara di canapa in fiezze. [p. 302 modifica]

Gli occhi di Ermanno erano carboni ardenti; il respiro aveva sibili di saetta che fugga; la bestia in lui stava per irrompere, e l'uomo gemeva invano, tentando sottrarsi al dominio dell'istinto.

Il giovane chiuse gli occhi e, tornato bambino, tornato chierico, implorò grazia dal Signore.

— Gesù, Gesù! Indietro, Satana, indietro! - riguardò spaurito, nel terrore, nella speranza che l'immagine lasciva fosse scomparsa, e riconobbe la vedova dei campi, la quale si era voltata dalla sua parte e lo fissava impudica, con le pupille socchiuse, mostrando nel riso la porpora viva delle gengive. Ermanno balzò in piedi, poi raccoltosi tutto sui garretti, si lanciò sulla preda, la ghermì pei capelli, traendosela dietro sull'erba, dove l'abbattè, stringendola alla gola, folle della feroce lussuria dei padri antichi, quando nelle selve i gridi trionfanti del maschio si mescevano ai gridi spaventosi della femmina agonizzante.

La vedova dei campi, ridendo sempre, s'immerse di nuovo dentro l'acqua e si allontanò, secondando il pendìo della corrente; Ermanno, in ginocchio, guardava il cielo, attonito di non essere incenerito ancora. Aveva violato il suo vôto di castità, il più santo fra i vôti, era un chierico fedifrago, un essere spregevole dinanzi all'occhio irato del Padre. Ma il sangue fervido gli esultava intorno al cuore e tutte le cose gli gridavano, turbinando con gioioso fragore: tu, uomo, hai ubbidito alla legge per cui l'uomo s'integra e si moltiplica.