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uguale, sempre vestita di nero, coperta di antichi gioielli nei giorni festivi, camminando a piccoli passi con le sue scarpette di prunello, tenendo le dita intrecciate, gli occhi smarriti nel vuoto. Invece Serena egli l’aveva vista mutevole, mai somigliante a se stessa. Un cuffiotto bianco, a vela, due gambette nude galoppanti con moto perenne; poi una boccuccia sdentata, pronta all’ira, al riso, allo scherno; più tardi una personcina priva di linee, sotto un ombrellone che ondeggiava all’impeto della pioggia; poi un cappellino a cometa, una selva scapigliata di riccioli, fugaci rossori, lampeggiamenti di pupille, velati subito dalle ciglia ombreggianti, e adesso una figura snella, una svelta andatura, una fronte pensosa, una bocca ridente, uno sguardo limpido che porge il pensiero con arditezza impulsiva, talvolta dominata a tempo, talvolta balzante irrefrenabile, ma resa leggiadra da un pavido sorriso di confusione.

Ermanno attraversò il prato, salì i brevi gradini del portico e si fermò dietro le spalle di Serena, che non si mosse. Entrò allora nella stanza, ma l’atmosfera greve era colma di emanazioni disgustose, che l’aceto aromatico assorbiva, non distruggeva. Il respiro di Bindo nel sonno pareva il rumore di una porta che cigoli e la voce orante di Villa pareva il lavorìo di un topo roditore.

Uscì in fretta all’aperto e rimase in piedi, appoggiando le palme sul muricciuolo del portico, al fianco di Serena, che stava piegata e immobile.