Il crepuscolo degli idoli/Oziosità inattuali
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OZIOSITÀ INATTUALI.
1.
Le mie impossibilità. — Seneca: o il toreador della virtù. — Rousseau: o il ritorno alla natura in impuris naturalibus. — Schiller: o il Moral-Banditore von Soekkingen. — Dante: o la iena che fa dei versi nelle tombe. — Kant: o il cant come carattere intelligibile. — Victor Hugo: o il faro in riva al mare del non-senso. — Liszt: o la scuola della facilità dello stile corrente... dietro alle donne. — Giorgio Sand: o lactea ubertas, il che vuol dire la vacca lattifera del bello stile. — Michelet: o l’entusiasmo in maniche di camicia. Carlyle: o il pessimismo per effetto di una cattiva digestione. — John Stuart Mill: o la luce che offende. — I fratelli De Goncourt: o i due Aiaci in lotta con Omero (Musica di Offenbach). — Zola: o «il piacere di puzzare».
2.
Renan.— La teologia è la perversione della ragione per effetto del peccato originale (il cristianesimo). Ne è prova Renan, che non appena s’azzarda a un sì o a un no di ordine generale, sbaglia il colpo con una regolarità scrupolosa. Egli vorrebbe, per esempio unire strettamente la scienza e la nobiltà: ma la scienza fa parte della democrazia, questo è palpabile. Egli desidera rappresentare, non senza qualche ambizione, un'aristocrazia dello spirito: ma nello stesso tempo egli s’inginocchia davanti alla dottrina contraria: il vangelo degli umili. A che serve ogni libero pensiero, ogni modernità, ogni ironia, ogni flessibilità, quando, con le viscere, si è rimasti cristiani, cattolici, anzi preti? Renan possiede, proprio come un gesuita e un confessore, una certa facoltà inventiva nella seduzione; alla sua spiritualità non manca il largo sorriso bonario del pretume; come tutti i preti, egli non diventa pericoloso se non quando ama. Nessuno lo uguaglia nel suo modo di adorare: un modo di adorare che mette in pericolo la vita... Lo spirito di Renan, uno spirito che irrita, è una calamità di più per la povera Francia, ammalata nella propria volontà.
3.
Sainte-Beuve. — Non ha nulla che appartenga all'uomo; e pieno di piccolo odio contro tutti gli spiriti virili. Erra qua e là, raffinato, curioso, annoiato, in ascolto; è un essere femminile, in fondo, con delle vendette da donna e delle sensualità da donna. Come psicologo, è un genio della maldicenza, inesauribile nei mezzi di collocarla. Nessuno sa come lui mescolare il veleno con l’elogio. I suoi istinti inferiori sono plebei e parenti del risentimento di Rousseau; dunque, egli è romantico, poichè sotto il romanticismo fa smorfie e sta in agguato l’istinto di vendetta di Rousseau. — Rivoluzionario ma abbastanza contenuto dal timore. Privo d’indipendenza davanti a tutto ciò che possiede della forza (l’opinione pubblica, l’Accademia, la Corte, senza eccettuare Port-Royal). Irritato contro tutto ciò che crede in sè stesso. Sufficientemente poeta e semi-donna per sentire ancora la potenza di ciò che è grande, ed incessantemente raggomitolato come il verme, che teme sempre gli si cammini addosso. Senza misura nella critica, senza punto d’appoggio e senza spina dorsale, parla spesso con la lingua del libertino cosmopolita, ma senza nemmeno avere il coraggio di confessare il suo libertinaggio. Privo di filosofia come storico, privo della potenza dello sguardo filosofico, rifiuta di giudicare, in tutte le questioni essenziali, facendosi una maschera con «l’obbiettività». Assolutamente diverso è il suo atteggiamento di fronte alle cose nelle quali un gusto raffinato e duttile diventa giudice supremo. In tal caso egli ha veramente il coraggio ed il piacere di essere sè stesso; in tal caso è maestro. — Sotto certi aspetti, è un precursore di Baudelaire.
4.
L’imitazione di Gesù Cristo è uno dei libri che io non posso prendere in mano senza provare in me stesso una resistenza fisiologica: esso esala un profumo di eterno femminino, pel quale bisogna essere francese o wagneriano... Questo santo ha un modo di parlare dell’amore che rende curiose anche le parigine. — Mi si dice che il più avveduto dei gesuiti, Augusto Comte, che voleva condurre i francesi a Roma per la strada indiretta della scienza, s’ispirò a questo libro. — Lo credo: la religione del cuore...
5.
G. Eliot. — Essi si sono sbarazzati del Dio cristiano, e credono ora, tanto più, di dover esser ligi alla morale cristiana. È questa una deduzione inglese, e non vogliamo biasimarne le femmine morali alla Eliot. In Inghilterra, per la minima piccola emancipazione dalla teologia, bisogna atteggiarsi fino ad ispirare spavento, come fanatici della morale. Questo è laggiù un modo di far penitenza. Per noi, il caso è diverso. Se si rinuncia alla fede cristiana ci si toglie contemporaneamente il diritto alla morale cristiana. Ciò non va assolutamente da sè; bisogna incessantemente rimettere in luce questo punto, ad onta di codesti inglesi dallo spirito superficiale. Il cristianesimo è un sistema, un complesso di idee e di opinioni sulle cose. Se se ne strappa un concetto essenziale, la fede in Dio, si spezza nello stesso tempo il tutto: non si tiene più fra le dita nulla di necessario. Il cristianesimo ammette che l’uomo non sappia, non possa sapere che cosa sia buono, che cosa sia cattivo per lui: crede in Dio, che solo lo sa. La morale cristiana è un comandamento; la sua origine è trascendente; essa è al di là di ogni critica, di ogni diritto alla critica; essa non contiene che la verità, ammettendo che Dio sia la verità; essa esiste e cade insieme con la fede in Dio. Se gl’inglesi credono infatti di sapere, intuitivamente, che cosa sia bene o male, se credono quindi di non aver bisogno del cristianesimo come garanzia della morale, ciò non è per se stesso che la conseguenza della sovranità dell’evoluzione cristiana e un’espressione della forza e della profondità di tale sovranità: cosicchè l’origine della morale inglese venne dimenticata; cosicchè l’estrema dipendenza del suo diritto di esistere non è più sentita. — Per l’inglese la Morale non è ancora un problema.
6.
George Sand. — Ho letto le prime Lettere di un viaggiatore. Come tutto ciò che trae origine da Rousseau, sono false, fittizie, tronfie, esagerate. Io non posso sopportare codesto stile da ricamo come nemmeno l’ambizione volgare che aspira ai sentimenti generosi. Ciò che, tuttavia, rimane di peggio, è la civetteria femminile con delle virilità, con dei modi da monello maleducato. — Come dev’essere stata fredda, nondimeno, questa artista insopportabile! Ella si ricaricava come una pendola e scriveva... Fredda come Hugo, come Balzac, come tutti i Romantici non appena si sedevano al loro scrittoio. E con quanta presunzione doveva sdraiarsi, quella terribile vacca da scrivere, che aveva in sè qualche cosa di tedesco nel peggior senso della parola, come lo stesso Rousseau, suo maestro, la qual cosa certamente non sarebbe stata possibile se non in un tempo in cui il buon gusto francese andava alla deriva. — Ma Renan la venerava...
7.
Morale per psicologi. — Non fare affatto della psicologia da merciaiolo ambulante! Non mai osservare per osservare! È ciò che dà una falsa ottica, «un tic», qualche cosa di forzato che esagera volentieri. Vivere qualche cosa per volerla vivere — ciò non riesce bene. Non è permesso, durante l’avvento, di guardare dal suo proprio lato, ogni colpo d’occhio si muta allora in «cattivo occhio». Un psicologo di nascita istintivamente si priva di guardare per vedere: lo stesso è pure per il pittore nato. Egli non lavora mai «secondo la natura», — egli si rimette al suo istinto, alla sua camera oscura per filtrare, per esprimere il «caso», la «natura», la «cosa vissuta»... Egli non ha coscienza che della generalità, della conclusione, della resultante: non conosce quelle arbitrarie deduzioni del caso particolare. Quale resultato si ottiene allorchè si agisce diversamente? Quando, per esempio, alla maniera dei romanzieri parigini, si fa della grande e della piccola psicologia da merciaioli? Si espia in qualche modo la realtà, si riporta tutte le sere una manciata di curiosità... Ma considerate dunque cosa ne risulta — un ammasso di sgarbi, tutt’al più un mosaico, in ogni caso qualcosa di sovraccaricato, di mobile, di stonato. I Goncourt in questo genere raggiungono ciò che vi è di peggio. Essi non mettono tre frasi una accanto all’altra che non facciano male all’occhio del psicologo. — La natura, valutata dal punto di vista artistico, non è un modello. Essa esagera, deforma, lascia dei vuoti. La natura, è l’azzardo. Lo studio «secondo la natura» mi sembra essere un cattivo segno: esso tradisce la sottomissione, la debolezza, il fatalismo, — quella prosternazione davanti ai piccoli fatti è indegna di un artista completo. Vedere ciò che è — questo fa parte di un’altra categoria di spiriti, gli spiriti antiartistici, concreti. Bisogna sapere chi si è...
8.
Per la psicologia dell’artista. — Perchè vi sia dell’arte, perchè vi sia un’azione o una contemplazione estetica qualsiasi, una condizione psicologica preliminare è indispensabile: l’ebbrezza. Bisogna che prima l’ebbrezza abbia elevato l’irritabilità di tutta la macchina: altrimenti l’arte è impossibile. Tutte le specie di ebbrezze, fossero esse condizionate il più diversamente possibile, hanno potenza d’arte: prima di tutto l’ebbrezza dell’eccitazione sessuale, questa forma di ebbrezza la più antica e la più primitiva. Ugualmente l’ebbrezza che accompagna tutti i grandi desiderî, tutte le grandi emozioni; l’ebbrezza della festa, della lotta, dell’atto di bravura, della vittoria, di tutti i movimenti estremi; l’ebbrezza della crudeltà, l’ebbrezza nella distruzione; l’ebbrezza sotto certe influenze meteorologiche, per esempio l’ebbrezza della primavera, oppure sotto l’influenza dei narcotici; infine l’ebbrezza della volontà accumulata e dilatata. — L’essenziale nell’ebbrezza è il sentimento della forza accresciuta e della pienezza. Sotto l’impero di questo sentimento ci si abbandona alle cose, si forzano a prenderci, si violentano. — Si chiama questo processo: idealizzare. Sbarazziamoci di un pregiudizio: idealizzare non consiste, come generalmente si crede, in una deduzione, in una sottrazione di ciò che è piccolo ed accessorio. Ciò che vi è di decisivo è, al contrario, una formidabile erosione dei tratti principali, in modo che gli altri tratti spariscono.
9.
In questo stato tutto si arricchisce della sua propria pienezza: ciò che si vede, ciò che si vuole, lo si vede gonfiato, serrato, vigoroso, sovraccaricato di forza. L’uomo così condizionato trasforma le cose fino a che esse riflettono la sua potenza, — fino a che esse divengono dei riflessi della sua perfezione. Questa trasformazione forzata, questa trasformazione in ciò che è perfetto, è dell’arte. Tutto, anche ciò che non esiste, diviene lo stesso per l’uomo la gioia in sè; nell’arte, l’uomo gioisce della sua persona in quanto perfezione. Sarebbe permesso figurarsi uno stato contrario, uno stato specifico degli istinti antiartistici, una maniera di comportarsi che impoverirebbe, diminuirebbe, anemizzerebbe tutte le cose. E, infatti, la storia è ricca in antiartisti di questa specie, in affamati della vita, per i quali è una necessità impadronirsi delle cose, consumarle, renderle più magre. Per esempio, è questo il caso di un vero cristiano, di un Pascal; un cristiano che nello stesso tempo sia anche un artista non esiste... Che non si faccia la fanciullaggine di oppormi Raffaello o non importa qual cristiano omeopatico del diciannovesimo secolo. Raffaello diceva sì, Raffaello creava l’affermazione, dunque Raffaello non era un cristiano...
10.
Cosa significano le opposizioni d’idee tra apollinei e dionisiaci, che ho introdotte nell’estetica, tutte e due considerate come delle categorie dell’ebbrezza? — L’ebbrezza apollinea produce innanzitutto l’irritazione dell’occhio che dà all’occhio la facoltà di visione. Il pittore, lo scultore, il poeta epico sono dei visionari per eccellenza. Nello stato dionisiaco, al contrario, tutto il sistema emotivo è irritato e amplificato: in modo ch’esso scarica in un sol colpo tutti i suoi mezzi di espressione, espellendone la sua forza d’imitazione, di riproduzione, di trasfigurazione, di metamorfosi, ogni specie di mimica e di arte di imitazione. La facilità della metamorfosi rimane l’essenziale, l’incapacità di non reagire (— allo stesso modo che presso certi isterici, i quali, obbedendo a tutti i gesti, entrano in tutti i ruoli). L’uomo dionisiaco è incapace di non comprendere affatto una qualunque suggestione, non lascia sfuggire nessun segno di emozione, possiede al più alto grado l’istinto comprensivo e divinatorio, come possiede al più alto grado l’arte di comunicare con gli altri. Sa rivestire tutte le apparenze, tutte le emozioni: si trasforma incessantemente. — La musica, come noi oggi la comprendiamo, non è egualmente che una irritazione ed un completo scarico delle emozioni, ma non rimane meno solamente il frammento di un mondo di espressioni emotive ben più ampio, un residuo dell’istrionismo dionisiaco. Per rendere possibile la musica, in quanto arte speciale, si è immobilizzato un certo numero di sensi, prima di tutto il senso muscolare (almeno fino ad una certa misura: giacchè da un punto di vista relativo, ogni ritmo parla ancora ai nostri muscoli): in modo che l’uomo non possa più imitare e rappresentare corporalmente tutto ciò ch’egli sente. Tuttavia è questo il vero stato normale dionisiaco, in ogni caso lo stato primitivo; la musica è la specificazione di questo stato, specificazione raggiunta lentamente, a detrimento delle facoltà vicine.
11.
L’attore, il mimo, il danzatore, il musicista, il poeta lirico sono fondamentalmente parenti nei loro istinti e formano un tutto le cui parti si sono specializzate e separate a poco a poco — finanche alla contraddizione. Il poeta lirico rimane più lungamente unito al musicista, l’attore al danzatore. — L’architetto non rappresenta nè uno stato apollineo nè uno stato dionisiario: in lui è il grande atto di volontà, la volontà che muove le montagne, l’ebbrezza della grande volontà che ha il desiderio dell’arte. Gli uomini più possenti hanno sempre ispirato gli architetti; l’architetto fu incessantemente sotto la suggestione della potenza. Nell’edificio, la fierezza, la vittoria sulla pesantezza, devono essere rese visibili: l’architettura è una specie di eloquenza del potere con le forme, talvolta convincente ed anche carezzante, talvolta imperiosa. Il più alto sentimento di potenza e di sicurezza trova la sua espressione in ciò che è di grande stile. La potenza che non ha più bisogno di dimostrazione; che disdegna di piacere; che risponde difficilmente; che non sente nessuna testimonianza intorno a sè; che vive incoscientemente delle obbiezioni che si muovono ad essa; che riposa su sè stessa, fatalmente, una legge tra le leggi: è ciò che parla di sè in grande stile.
12.
Ho letto la vita di Tommaso Carlyle, farsa involontaria, interpretazione eroico-morale delle affezioni dispeptiche. — Carlyle, uomo dalle parole forti e dagli atteggiamenti forti, retore per necessità, tormentato incessantemente dal desiderio di una forte fede e dalla sua incapacità a conseguirla (— in questo romantico tipico!). Il desiderio di una forte fede, non ne è affatto la prova; tutt’altro! Quando si possiede codesta fede, ci si può pagare il lusso dello scetticismo: si è abbastanza sicuri, abbastanza saldi per averlo. Carlyle stordisce qualche cosa in sè stesso mediante il fortissimo della sua venerazione per gli uomini di forte fede, e della sua rabbia contro i meno stupidi; egli ha bisogno del rumore. Una slealtà verso sè stesso, costante e appassionata è ciò che gli è proprio ed è ciò che lo fa rimanere interessante. — Veramente, però, in Inghilterra lo si ammira precisamente per la sua lealtà... Ebbene: questo è molto inglese; e, se si considera che gl’inglesi sono il popolo del cant perfetto, la cosa è anche legittima e non soltanto comprensibile. In fondo, Carlyle è un ateo inglese che vuol far consistere il proprio onore nel non esserlo.
13.
Emerson. — È molto più illuminato, più errabondo, più molteplice, più raffinato di Carlyle e, anzitutto, è più felice... Egli è di quelli che si nutrono istintivamente d’ambrosia soltanto, e che lasciano da parte ciò che vi è d’indigesto nelle cose. — Opposto a Carlyle, è un uomo di buon gusto. Carlyle, che lo amava molto, diceva di lui tuttavia: «Egli non ci dà abbastanza pel nostro appetito». Cosa che può esser stata detta con ragione, ma non già a detrimento di Emerson. — Emerson possiede quella buona e spiritosa serenità che scoraggia ogni serietà eccessiva; non sa affatto quanto è già vecchio, nè quanto sarà ancora giovane; avrebbe potuto dire di sè stesso, col motto di Lope de Vega: «Yo me sucedo a mi mismo». Il suo spirito trova sempre delle ragioni d’esser felice ed anche riconoscente; e talvolta sfiora la serena trascendenza di quel brav’uomo che torna da un convegno amoroso tamquam re bene gesta. «Ut desint vires, dice con gratitudine, tamen est laudanda voluptas».
14.
Anti-Darwin. — Quanto alla famosa Lotta per la vita, dirò che essa mi sembra, provvisoriamente, affermata piuttosto che dimostrata. Essa si presenta, ma come eccezione; l’aspetto generale della vita non è l’indigenza, la carestia, ma, al contrario, la ricchezza, l’opulenza, anzi l’assurda prodigalità. Dove c’è lotta, la lotta è per la potenza... Non si deve confondere Malthus con la natura. — Ammettendo tuttavia che codesta lotta esista — e, come ho detto, infatti si presenta, — essa finisce disgraziatamente in un modo contrario a quello che la scuola di Darwin desidererebbe, a quello che forse si oserebbe desiderare con tale scuola: voglio dire a detrimento dei forti, dei privilegiati, delle eccezioni fortunate. Le specie non crescono nella perfezione; i deboli finiscono sempre col rendersi padroni dei forti, perchè hanno dalla loro il gran numero e perchè anche sono più furbi... Darwin ha dimenticato lo spirito... Occorre aver bisogno di spirito per giungere ad averne, e si perde lo spirito quando non se ne ha più bisogno. Colui che ha della forza fa a meno dello spirito. Come si vede io intendo qui, per spirito, la circospezione, la pazienza, l’astuzia, la dissimulazione, il grande impero su sè stesso e tutto ciò che è mimicry (una gran parte di ciò che si chiama virtù appartiene a quest’ultima).
15.
Casuistica di psicologo. — Questi conosce gli uomini: perchè dunque li studia? Egli non vuole ottenere su di essi dei piccoli vantaggi, e neanche dei grandi, — è un uomo politico!... Quegli conosce pure gli uomini; e voi dite che non vuol trarne niente per sè stesso; è, come voi dite, un grande «impersonale». Guardate più da vicino. Forse egli vuole un vantaggio ancor peggiore: sentirsi superiore agli uomini, aver il diritto di guardarli dall’alto, non confondersi più con essi. Codesto «impersonale» disprezza gli uomini: e il primo è della specie più umana, quel che possa farne credere l’apparenza. Egli almeno si pone da eguale, egli si pone nel mezzo...
16.
Il tatto psicologico dei Tedeschi mi sembra esser messo in dubbio da una serie di fatti di cui la mia modestia m’impedisce di presentare la nomenclatura. In un caso io non mancherò tutte le occasioni per dimostrare la mia tesi: io non serbo rancore verso i Tedeschi di essersi ingannati su Kant e la sua «filosofia delle porte di dietro» come io la chiamo. — Ciò che di altro non posso intendere, è quel «e» di cattiva lega: i Tedeschi dicono «Goethe e Schiller», — e temo anche che non dicano «Schiller e Goethe»... Non si conosce dunque ancora questo Schiller? — Ma vi sono degli «e» ancor peggiori; ho inteso con le mie proprie orecchie, è vero soltanto fra professori di università: «Schopenhauer e Hartmann».
17.
È alle anime più spirituali, ammettendo ch’esse siano le più coraggiose, che è concesso di vivere le tragedie più dolorose: ma è ben per questo che esse tengono la vita in onore, perchè essa oppone loro il suo più grande antagonista.
18.
Per la «coscienza intellettuale». — Niente oggi mi sembra più raro della vera ipocrisia. Ho grande sospetto che questa pianta non sopporta la dolce aria della nostra civiltà. L’ipocrisia fa parte delle età di forti credenze, quando, anche essendo forzati di far mostra di un’altra fede che non la propria, non si abbandonava la sua fede. Oggi la si abbandona, oppure, ciò che è ancor più frequente, si acquista una seconda credenza, — in ogni caso si rimane onesti. È incontestabile che ai nostri giorni è possibile avere un più gran numero di convinzioni di quel che si aveva una volta: possibile, cioè permesso, ciò che significa inoffensivo. È ciò che produce la tolleranza verso sè stessi. — La tolleranza verso sè stessi permette molte convinzioni: queste convinzioni vivono in buona compagnia, e si guardano bene, come tutta la gente oggi, di compromettersi. Con che cosa ci si compromette oggi? — Con dello spirito di conseguenza; allorchè si segue una linea diritta; allorchè non ci si presta al doppio senso, voglio dire al quintuplice senso; allorchè si è veridici... Io temo assai che, per certi vizi, l’uomo moderno sia semplicemente troppo comodo: ciò che fa che questi vizi si estinguono letteralmente. Tutto il male che dipende dalla volontà forte — e forse non vi è male senza forza di volontà, — degenera in virtù nella nostra molle atmosfera... I pochi rari ipocriti che ho imparato a conoscere imitavano l’ipocrisia: erano, come è oggi un uomo su dieci, dei commedianti.
19.
Bello e brutto. — Niente è più condizionale, diciamo anzi più ristretto del nostro senso del bello. Quegli che vorrebbe figurarselo, liberato dalla gioia che l’uomo causa all’uomo, perderebbe immediatamente piede. Il «bello in sè» non è che una parola, non è neanche un’idea. Nel bello l’uomo si pone come misura della perfezione; in alcuni casi scelti egli vi si adora. Una specie non può assolutamente fare a meno di affermarsi in questa maniera. Il suo istinto più basso, quello della conservazione e dell’espansione di sè, risplende ancora in simili sublimità. L’uomo s’immagina che è il mondo stesso sovraccarico di bellezze, — egli si dimentica come causa di queste bellezze. Lui solo lo ha colmato, ahimè! di una bellezza umanissima, nient’altro che troppo umana!... Insomma, l’uomo si riflette nelle cose, tutto ciò che gli riflette la sua immagine gli sembra bello: il giudizio «bello» e la sua vanità della specie... Nonpertanto un po’ di diffidenza può far arrivare questa questione all’orecchio dello scettico: il mondo è veramente abbellito perchè è precisamente l’uomo che lo considera come bello? Egli lo ha rappresentato sotto una forma umana: ecco tutto. Ma niente, assolutamente niente, ci garantisce che il modello della bellezza sia l’uomo. Chi sa quale effetto farebbe egli agli occhi di un giudice superiore del gusto? Forse apparirebbe ardito? forse anche esilarante? forse un po’ arbitrario?... «O divino Dionisio, perchè mi tiri le orecchie?» domandò un giorno Arianna al suo filosofico amante, in uno di quei celebri dialoghi sull’isola di Nasso. «Io trovo qualche cosa di ridicolo alle tue orecchie, Arianna: perchè non sono esse più lunghe ancora?».
20.
Niente è bello, non c’è che l’uomo che sia bello: sopra questa ingenuità poggia ogni estetica, è la sua prima verità. Aggiungiamoci subito la seconda: niente è brutto se non è l’uomo che degenera, — con il che l’impero dei giudizi estetici è circoscritto. — Dal punto di vista fisiologico, tutto ciò che è brutto indebolisce e rattrista l’uomo. Ciò lo fa pensare alla decomposizione, al pericolo, all’impotenza. Decisamente vi perde della forza. Si può misurare al dinamometro l’effetto della bruttezza. In generale, allorchè l’uomo prova uno stato di abbattimento, egli annusa l’avvicinarsi di qualcosa di «brutto». Il suo sentimento di potenza, la sua volontà di potenza, il suo coraggio, la sua fierezza — tutto questo si abbassa con il brutto e sale con il bello... Nei due casi noi tiriamo una conclusione: le premesse sono ammassate in abbondanza nell’istinto. Noi intendiamo il brutto come un segno ed un sintomo della degenerescenza: quel che ricorda da vicino o da lungi la degenerescenza provoca in noi il giudizio «brutto». Ogni indizio di sfinimento, di pesantezza, di vecchiaia, di fatica, ogni specie d’imbarazzo, come il crampo, la paralisi, e prima di tutto l’odore, il colore, la forma della decomposizione, fosse ciò anche nella sua ultima attenuazione, sotto forma di simbolo — tutto ciò provoca la stessa reazione, il giudizio «brutto». Qui spunta un odio: chi odia qui l’uomo? In ciò non ve nessun dubbio: l’abbassamento del suo tipo. Egli odia dal fondo del suo più profondo istinto della specie; in quest’odio egli ha un fremito, della prudenza, della profondità, della chiaroveggenza — è il più profondo odio che vi sia. È a causa di ciò che l’arte è profonda...
21.
Schopenhauer. — Schopenhauer, l’ultimo tedesco che conti qualche cosa — (che sia un avvenimento europeo, come Goethe, come Hegel, come Enrico Heine, e non soltanto un avvenimento locale, nazionale), Schopenhauer è, per lo psicologo, un caso di prim’ordine. Egli ha interpretato, successivamente, l’arte, l’eroismo, il genio, la bellezza, la grande compassione, il sapere, la volontà del vero, la tragedia come conseguenza della negazione o del bisogno di negazione della volontà — il maggior caso di fabbricazione di moneta falsa psicologica che esista nella storia, fatta astrazione del cristianesimo. Se si guarda più da vicino, egli non è, in questo, che l’erede della interpretazione cristiana: con la differenza che egli seppe anche approvare in un senso cristiano, cioè nichilista, ciò che il cristianesimo aveva negato: i grandi fatti della civiltà umana. Egli li approvò come vie della redenzione, come forme prime della redenzione, come stimolanti del bisogno di redenzione.
22.
Considero un caso isolato: Schopenhauer parla della bellezza con un ardore malinconico. Perchè, insomma? Perchè vede in essa un ponte sul quale si può andare più lontano, oppure sul quale vien sete di andare più lontano. Essa è per lui la liberazione della volontà, per qualche momento; essa attrae ad una liberazione eterna... Egli la vanta specialmente come redentrice del focolare della volontà, della sessualità. Nella bellezza, egli vede la negazione del genio della riproduzione. Santo bizzarro! Chi ti contraddice è — lo temo — la natura. Perchè c’è bellezza nei suoni, nei colori, nei profumi, nei movimenti ritmici della natura? Cos’è che spinge fuori la bellezza? Per fortuna, anche un filosofo lo contraddice, e non è dei minori. Il divino Platone (lo stesso Schopenhauer lo chiama così) sostiene con la sua autorità un’altra tesi, e cioè che ogni bellezza spinge alla riproduzione, che questo è precisamente l’effetto che le è proprio, dalla più bassa sensualità fino alla più alta spiritualità.
23.
Platone va anche più lontano. Egli dice con una ingenuità per aver la quale bisogna essere greci, e non cristiani, che non vi sarebbe filosofia platonica se non vi fossero giovani tanto belli, in Atene. Solo il vedere quei giovani trasporta l’anima dei filosofi in un delirio erotico e non lascia loro riposo finchè non abbiano sparso il seme di tutte le cose elevate su un mondo sì bello. Ecco un altro santo bizzarro! — C’è da non credere alle proprie orecchie, anche ammettendo che si creda a Platone. S’indovina, almeno, che ad Atene si filosofeggiava diversamente. Anzitutto ciò si faceva in pubblico. Nulla è meno greco che il fare, in solitudine, una tessitura di ragnatele, amor intellectualis dei alla maniera di Spinoza. La filosofia quale era praticata da Platone dovrebbe piuttosto essere definita come una specie di lizza erotica, che contenesse e approfondisse la vecchia ginnastica agonale e tutte le condizioni che precedevano. Che cosa è risultato, alla fine, da codesto erotismo filosofico di Platone? Una nuova forma d’arte dell’Agon greco: la dialettica. — Io ricordo inoltre, contro Schopenhauer e ad onore di Platone, che tutta l’alta cultura letteraria della Francia classica si sviluppò sul terreno degl’interessi sessuali. In essa si possono cercare dovunque la galanteria, i sensi, la lotta sessuale, la donna; non si ricercheranno mai invano.
24.
L’arte per l’arte. — La lotta contro il fine in arte è sempre una lotta contro le tendenze moralizzatrici nell’arte, contro la subordinazione dell’arte alla morale. Arte per l’arte vuol dire: «Vada al diavolo la morale!». Ma questa stessa inimicizia denuncia ancora la potenza preponderante del pregiudizio. Quando si è escluso dall’arte lo scopo di moralizzare e di migliorare gli uomini, non ne segue ancora che l’arte debba essere assolutamente senza un fine, senza scopo e priva di senso (Arte per l’arte, serpente che si morde la coda). — «Piuttosto nessuno scopo, assolutamente, che uno scopo morale!» così parla la passione pura. Un psicologo domanda invece: che cosa fa ogni specie di arte? non loda? non glorifica? non isola? Nonostante tutto ciò, l’arte fortifica o indebolisce certe valutazioni. Non è questo che un accessorio, un caso? qualche cosa a cui l’istinto dell’artista non parteciperebbe affatto? Oppure, la facoltà di potere dell’artista non è la condizione prima dell’arte? L’istinto più profondo dell’artista va verso l’arte, o va piuttosto verso il senso dell’arte, verso la vita, verso un desiderio di vita? — L’arte è il grande stimolante alla vita: come si potrebbe dirla senza un fine, senza scopo, come si potrebbe chiamarla arte per l’arte?
Rimane una questione: non mette in mostra, l’arte, molte cose brutte, dure, dubbie, che toglie dalla vita? — Infatti, vi furono dei filosofi che le attribuiscono questo senso: affrancarsi dalla volontà: questa l’intenzione che Schopenhauer attribuiva all’arte; disporre alla rassenazione: questa, per lui, la grande utilità della tragedia, ch’egli venerava. Ma questa è l’ottica di un pessimista. Bisogna consultare gli stessi artisti. Che cosa ci comunica di sè stesso l’artista tragico? Non afferma egli precisamente l’assenza del timore davanti a ciò che è terribile e incerto? — Questo stato è appunto un desiderio superiore; colui che lo conosce lo onora dei maggiori omaggi. Egli lo comunica, bisogna che lo comunichi, ammettendo che sia artista, genio della fiducia. Il coraggio e la libertà del sentimento, davanti ad un nemico possente, davanti a un sublime rovescio, davanti a un problema che desta terrore, — è questo stato vittorioso, che l’artista tragico sceglie e glorifica. Davanti al tragico, la corte marziale della nostra anima celebra i suoi saturnali; colui che è assuefatto alla sofferenza, colui che cerca la sofferenza, l’uomo eroico, celebra la propria esistenza nella tragedia; e soltanto alla propria vita l’artista tragico offre la coppa di questa crudeltà, la più dolce.
25.
Contentarsi degli uomini, tenere casa aperta con il suo cuore, questo è liberale, ma non è altro che liberale. Si riconoscono i cuori che non sono capaci che di ospitalità distinta dalle numerose finestre velate e dalle persiane chiuse: essi conservano vuote le loro camere migliori. Perchè? — Poichè essi aspettano degli ospiti con i quali non ci si accomoda «come si può»...
26.
Noi non ci stimiamo di più allorquando ci comunichiamo. Ciò che veramente ci accade non è affatto eloquente. Se gli avvenimenti lo volessero, essi non saprebbero comunicarsi essi stessi. È ch’essi mancano di parole per questo. Noi siamo già al disopra delle cose che possiamo esprimere con delle parole. In tutti i discorsi, vi è un grano di disprezzo. Il linguaggio, sembra, non è stato inventato che per le cose mediocri, medie, comunicabili. Con il linguaggio, colui che parla già si volgarizza. — Estratto di una morale per sordo-muti ed altri filosofi.
27.
«Questo quadro è incantevole!»... La donna letteraria, insoddisfatta, eccitata, vuota in fondo al cuore e senza viscere, ascoltando continuamente con una dolorosa curiosità l’imperativo che dalle profondità della sua organizzazione le soffia: «aut liberi aut libri»: la donna letteraria abbastanza coltivata per ascoltare la voce della natura, anche quando essa parla latino, e, d’altra parte, assai vanitosa, assai piccola oca per dirsi ancora in segreto ed in francese: «Io mi vedrò, mi leggerò, mi estasierò e dirò: Possibile che abbia avuto tanto spirito?»...
28.
Parlano gli «impersonali». — Niente ci è più facile che l’esser saggi, pazienti, superiori. Noi distilliamo l’olio dell’indulgenza e della simpatia, noi spingiamo la giustizia fino all’assurdità, noi perdoniamo tutto. È perchè noi dovremmo crearci, di tempo in tempo, una piccola passione, un piccolo vizio passionale. Ciò può esserci amaro, e tra di noi ridiamo forse dell’aspetto che ciò ci fa avere. Ma a cosa serve ciò! Non ci rimane nessun altro modo per sormontare noi stessi: è questo il nostro ascetismo, il nostro modo di fare penitenza... Divenire personale — è la virtù degli impersonali...
29.
Per una promozione al dottorato. — «Qual’è la missione d’ogni istruzione superiore? — Fare dell’uomo una macchina. Quale mezzo occorre impiegare? — Bisogna insegnare all’uomo ad annoiarsi. — Come vi si arriva? — Con la nozione del dovere. — Chi gli si deve presentare come modello? — Il filologo: egli impara a sgobbare. — Qual’è l’uomo perfetto? — Il funzionario dello Stato. Qual’è la filosofia che dà la formula superiore per il funzionario dello Stato? — Quella di Kant: il funzionario in quanto cosa in sè, posto sul funzionario in quanto apparenza».
30.
Il diritto all’ignoranza. — Il lavoratore affaticato che respira lentamente, che ha uno sguardo dolce, che lascia andar le cose come esse vanno: questa figura tipica che s’incontra adesso, nel secolo del lavoro (e dell’«Impero»! — ), in tutte le classi della società fa oggidì manbassa sull’arte, compreso il libro, e innanzitutto il giornale, — quanto più ancora sulla bella natura, sull’Italia per esempio... L’uomo della sera, con gli «istinti selvaggi addormentati» di cui parla Faust, quest’uomo ha bisogno della villeggiatura, del bagno di mare, dei ghiacciai, di Bayreuth... In epoche come la nostra, l’arte ha diritto alla regina Imbecillità — come una specie di vacanza dello spirito, della vivacità, del sentimento. È ciò che Wagner comprese. La regina Imbecillità ristabilita...
31.
Ancora un problema della dieta. — I mezzi di cui si serviva Giulio Cesare per difendersi dal suo stato cagionevole e dai mali di testa: enormi marcie, genere di vita il più semplice che possibile, soggiorno ininterrotto all’aria libera, fatiche continue — sono queste all’ingrosso le misure di preservazione e di conservazione contro l’estrema vulnerabilità di quella macchina sottile che lavora sotto la più forte pressione, di questa macchina che si chiama Genio.
32.
Parla l’immoralista. — Nulla è più contrario ai gusti del filosofo che l’uomo in quanto desidera... Se il filosofo vede l’uomo soltanto nelle sue azioni, se vede questo animale, il più coraggioso, il più scaltro e il più resistente, anche se smarrito in difficoltà inestricabili, di quanta ammirazione esso gli sembra degno! E lo incoraggia ancora... Ma il filosofo disprezza l’uomo che desidera, ed anche ciò che può sembrargli desiderabile, e in generale ogni desiderabilità, ogni ideale dell’uomo. Se un filosofo potesse essere nichilista, lo sarebbe perchè trova il nulla dietro a tutti gl’ideali. E nemmeno il nulla, — ma soltanto ciò che è futile, assurdo, ammalato, stanco, ogni specie di feccia nella tazza vuotata della sua esistenza.... L’uomo che è tanto venerabile come realtà, perchè non merita stima quando desidera? Deve dunque scontare di essere tanto capace, come realtà? Bisogna dunque ch’egli controbilanci le proprie azioni, la tensione di spirito e di volontà che è in ogni azione, con una paralisi nella immaginazione e nell’assurdo? La storia dei suoi desiderî fu, finora, la parte vergognosa dell’uomo. Bisogna guardarsi dal leggere troppo e a lungo in codesta storia. Ciò che giustifica l’uomo è la sua realtà; essa lo giustificherà eternamente. E quanto maggior valore ha l’uomo reale, se lo paragoniamo a un uomo qualunque, il quale non è che un tessuto di desiderî, di sogni, di lezzi e di menzogne? a un uomo ideale qualunque?... E soltanto l’uomo ideale è contrario ai gusti del filosofo.
33.
Valore naturale dell’egoismo. — L’amore di sè non vale che per il valore fisiologico di quegli che lo pratica: esso può valere molto o può essere indegno e disprezzabile. Ogni individuo può essere stimato secondo ch’egli rappresenta la linea ascendente o discendente della vita. Giudicando l’uomo in questa maniera, si ottiene il canone che determina il valore del suo egoismo. S’egli rappresenta la linea ascendente, il suo valore è effettivamente straordinario, — nell’interesse della vita totale, la quale fa con lui un passo in avanti, la cura della conservazione, di creare il suo optimum di condizioni vitali, deve essere pure estrema. L’uomo isolato, l’«individuo», tale e quale il popolo ed i filosofi lo hanno inteso fino ad ora, è un errore: esso non è niente in sè, non è un atomo, un «anello della catena», un’eredità lasciata dal passato, — esso è tutta l’unica discendenza dell’uomo fino a lui stesso... S’egli rappresenta l’evoluzione discendente, la rovina, la degenerescenza cronica, la malattia (— le malattie, in generale, sono già dei sintomi di degenerazione, esse non ne sono la causa), la sua parte di valore è ben debole, e la semplice equità vuole che usurpi il meno possibile su gli uomini dalla costituzione perfetta. Egli non è più altre che il loro parassita...
34.
Cristiani e Anarchici. — Quando l’anarchico, come porta parola degli strati sociali in decadenza, con bella indignazione reclama il «diritto», la «giustizia», l’«uguaglianza dei diritti», si trova sotto la pressione della sua propria incultura la quale non sa comprendere perchè infine egli soffre, — in cosa egli è povero, in vita... Vi è in lui un istinto di causalità che lo spinge a ragionare: bisogna che qualcuno ne abbia colpa s’egli si trova in disagio... Questa «bella indignazione» gli fa per sè stessa del bene, essendo un vero piacere per un povero diavolo poter ingiuriare — egli vi trova una piccola ebbrezza di potenza. Già la lamentela, soltanto il fatto di lamentarsi, può dare alla vita una attrattiva che la fa sopportare: in ogni lamento vi è una dose raffinata di vendetta, si rimprovera il proprio malessere, in certi casi anche la propria bassezza, come una ingiustizia, come un privilegio iniquo, a coloro che si trovano in altre condizioni. «Poichè io sono una canaglia dovresti esserlo anche tu»: è con questa logica che si fanno le rivoluzioni. Le doglianze non valgono mai niente: esse provengono sempre dalla debolezza. Che si attribuisca il proprio malessere agli altri od a sè stesso — agli altri il socialista, a sè stesso il cristiano — non vi è in ciò nessuna differenza. Nei due casi qualcuno deve essere colpevole ed è ciò quel che vi è di indegno, — quegli che soffre prescrive contro la sua sofferenza il miele della vendetta. Gli oggetti di questo bisogno di vendetta nascono, come bisogni di piacere, da delle cause occasionali: quegli che soffre trova dunque delle ragioni per rinfocolare il suo odio meschino, — se è cristiano, ripeto, le trova in sè stesso... Il cristiano e l’anarchico — tutti e due sono dei decadenti. — Quando il cristiano condanna, diffama e denigra il mondo, lo fa con lo stesso istinto che spinge l’operaio socialista a condannare, a diffamare e a denigrare la società: il «Giudizio finale» rimane la più dolce consolazione della vendetta, — è la rivoluzione come l’attende il lavoratore socialista, ma concepita in tempi un po’ più lontani... L’«al dilà» stesso — a cosa servirebbe questo al dilà, se non a imbrattare l’«al di qua» di questa terra?...
35.
Critica della morale di decadenza. — Una morale «altruista», una morale dove intristisce l’amore di sè è, in ogni caso, un cattivo segno. Questo è vero per gli individui, è vero, innanzitutto, dei popoli. Il migliore manca quando l’egoismo comincia a mancare. Scegliere istintivamente ciò che è nocevole, lasciarsi sedurre dai motivi «disinteressati», ecco quasi la formola della decadenza. «Non cercare il proprio interesse» — è questa la foglia di fico morale per una realtà totalmente differente, voglio dire fisiologica: «Io non so più trovare il mio interesse»... Disgregazione degli istinti! — Quando l’uomo diventa altruista è finito. — In luogo di dire ingenuamente: «Io non valgo più niente», la menzogna morale dice, nella bocca del decadente: «Non c’è niente che valga, — la vita non val niente»... Un tal giudizio finisce per diventare un grande pericolo, ha esso un’azione contagiosa, — su tutto il suolo morboso della Società abbonda una vegetazione tropicale d’idee, talvolta sotto forma di religione (cristianesimo), talvolta sotto forma di filosofia (schopenhauerismo). Succede che una tale vegetazione di alberi velenosi, nati dalla putredine, avvelena la vita con le sue emanazioni durante dei secoli.
36.
Morale per medici. — Il malato è un parassita della società. Arrivato ad un certo punto è sconveniente vivere ancora. L’ostinazione a vegetare vilmente, schiavo dei medici e delle pratiche mediche, dopo che si è perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe provocare, da parte della società, un profondo disprezzo. I medici, da parte loro, sarebbero incaricati di essere gli intermediari di quel disprezzo, — non farebbero più ricette, ma porterebbero invece ogni giorno ai loro malati una nuova dose di disgusto... Creare una nuova responsabilità, quella del medico, per tutti i casi in cui il più alto interesse della vita, della vita ascendente, esige che si scarti e che si respinga senza pietà la vita degenerescente — per esempio in favore del diritto di vivere... Morire fieramente allorchè non è più possibile vivere fieramente. La morte scelta liberamente, la morte a tempo voluto, con lucidità e con gaiezza di cuore, compiuta in mezzo ai fanciulli ed a testimoni, quando un addio reale è ancora possibile, quando quegli che ci lascia esiste ancora ed è veramente capace di valutare ciò ch’egli ha voluto, ciò ch'egli ha raggiunto, di ricapitolare la sua vita. — Tutto ciò in opposizione con la pietosa commedia che rappresenta il cristianesimo al momento della morte. Giammai si perdonerà al cristianesimo di aver approfittato della debolezza del morente per far violenza alla sua coscienza, di aver preso l’attitudine del morente come pretesto ad un giudizio sull’uomo ed il suo passato! — Si tratta, a dispetto di tutte le viltà del pregiudizio, di ristabilire l’esatto apprezzamento, cioè fisiologico, di ciò che si chiama la morte naturale: quella morte che, insomma, non è affatto naturale, ma realmente un suicidio. Non si perisce mai per un altro che da sè stesso. Non pertanto, la morte nelle condizioni le più disprezzabili, è una morte che non è libera, che non viene ad un momento voluto, una morte vile. Per amore della vita si dovrebbe desiderare una morte del tutto differente, una morte libera e cosciente, senza azzardo e senza sorpresa... Infine ecco un consiglio per i signori pessimisti ed altri decadenti. Noi non abbiamo in mano un mezzo che possa impedirci di nascere: ma possiamo riparare questa mancanza — giacchè talvolta è un errore. Il fatto di sopprimersi è un fatto stimabile tra tutti: si acquista quasi il diritto di vivere... La società; che dico, la vita stessa, ne trae più vantaggio che da non importa quale «vita» passata nella rinunzia, con i colori pallidi ed altre virtù, — si sono sbarazzati gli altri del proprio aspetto, si è liberata la vita da una obbiezione. Il pessimista puro, il pessimista verde non si dimostra che con la confutazione che i signori pessimisti fanno di sè stessi: bisogna fare un passo più avanti nella propria logica, e non soltanto negare la vita con «la volontà e la rappresentazione», come fece Schopenhauer — , bisogna avanti tutto rinnegare Schopenhauer... Il pessimismo, per dirlo en passant, così contagioso ch’esso sia, non aumenta pertanto lo stato morboso di un’epoca, di una razza nel suo insieme: esso ne è l’espressione. Vi si soccombe come si soccombe al colera: bisogna aver già delle predisposizioni morbide: il pessimismo in sè stesso non crea un decadente di più. Ricordo questa constatazione della statistica che gli anni in cui infierisce il colera non si distinguono dagli altri, in quanto alla cifra completa della mortalità.
37.
Siamo divenuti più morali? — Contro la mia nozione «al di là del bene e del male», com’era da attendersi, tutta la ferocità dell’abbrutimento morale, che, come si sa, in Germania passa per essere la stessa morale — si è scagliata all’assalto: avrei da raccontarvi sopra delle graziose storie. Prima di tutto si è voluto farmi comprendere «l’innegabile superiorità» del nostro tempo in materia di opinione morale; il nostro vero progresso su questo dominio: impossibile accettare che un Cesare Borgia, paragonato con noi, possa essere presentato, così come ho fatto io, come un «uomo superiore», come una specie di sovrumano... Un redattore svizzero del Bund, non senza esprimermi la stima che gli ispirava il coraggio di una simile impresa, arrivò fino a «comprendere» nella mia opera che io proponevo l’abolizione di tutti gli onesti sentimenti. Obbligatissimo! — Mi permetto di rispondere ponendo questa domanda: «Siamo noi veramente diventati più morali?». Che tutti lo credano, è già una prova del contrario... Noialtri uomini moderni, molto delicati, molto suscettibili, obbedienti a cento diverse considerazioni, noi infatti ci figuriamo che questi teneri sentimenti di umanità che rappresentiamo, questa unanimità acquisita nell’indulgenza, nella disposizione a soccorrere, nella fiducia reciproca è un reale progresso e che noi siamo per ciò ben al disopra degli uomini della Rinascenza. Ma ogni epoca pensa così, bisogna che pensi così. È certo che noi non oseremmo porci nelle condizioni della Rinascenza, che non oseremmo neanche immaginarvici: i nostri nervi non sopporterebbero una simile realtà, per non parlare dei nostri muscoli. Questa impotenza non prova affatto il progresso, ma una costituzione più tardiva, più debole, più delicata e più suscettibile da dove necessariamente esce una morale piena di riguardi. Scartiamo col pensiero la nostra delicatezza e la nostra tardività, la nostra senilità fisiologica, e la nostra morale di «umanizzazione» perde subito il suo valore — nessuna morale ha in sè del valore: — in modo che essa ci ispirerebbe a noi stessi del disdegno. Non dubitiamo d’altra parte che noialtri moderni, col nostro umanitarismo ben ovattato che temerebbe anche di urtarsi ad una pietra, noi offriremmo ai contemporanei di Cesare Borgia una commedia che li farebbe morire dalle risa. Infatti, con le nostre «virtù» moderne, noi siamo ridicoli oltre misura... La diminuzione degli istinti ostili e che tengono la diffidenza all’erta — e sarebbe questo il nostro «progresso» — non rappresenta che una delle conseguenze della diminuzione generale della vitalità: questo costa cento volte più di pena e di precauzioni di far riuscire una esistenza talmente sottomessa e così tardiva. Allora ci si soccorre reciprocamente, allora ciascuno è più o meno malato ed infermiere. Questo si chiama «virtù»: — tra gli uomini che conobbero una vita differente, una vita più abbondante, più prodiga, più esuberante si sarebbe chiamato diversamente, forse «viltà», «bassezza», «morale da vecchie»... Il nostro addolcimento dei costumi — è questa la mia idea, è questa se si vuole la mia innovazione — è una conseguenza del nostro indebolimento; la durezza e l’atrocità dei costumi possono essere, al contrario, la conseguenza di una sovrabbondanza di vita. Giacchè allora si può molto arrischiare, molto affrontare, ed anche molto sprecare. Ciò che una volta era il sole della vita sarebbe per noi un veleno... Per essere indifferenti — giacchè questo pure è una forma della forza — noi siamo ugualmente troppo vecchi e venuti troppo tardi: la nostra morale di compassione contro la quale io sono stato il primo a gettare l’allarme, questo stato di spirito che si potrebbe chiamare impressionismo morale, è piuttosto una espressione della sovreccitabilità fisiologica propria a tutto ciò che è decadente. Questo movimento il quale, con la morale di pietà schopenhaueriana, ha tentato di presentarsi con un carattere scientifico — tentativo disgraziatissimo — è il movimento proprio della decadenza in morale e come tale è vicino parente della morale cristiana. Le epoche vigorose, le culture nobili videro nella pietà, nell’«amore del prossimo», nella mancanza d’egoismo e d’indipendenza, qualcosa di disprezzabile. — Bisogna misurare i tempi secondo le loro forze positive — e, facendo ciò, quell’epoca della Rinascenza, così prodiga e così ricca in fatalità, appare come l’ultima grande epoca, e noi, noialtri uomini moderni con la nostra ansiosa previdenza personale e il nostro amore del prossimo, con le nostre virtù di lavoro, di semplicità, di equità e di esattezza — il nostro spirito collezionatore, economico e macchinale, — noi viviamo in una epoca di debolezza. Questa debolezza produce ed esige le nostre virtù. L’«uguaglianza», una certa effettiva assimilazione che non fa che esprimersi nella teoria dei «diritti eguali», appartiene essenzialmente ad una civiltà discendente: l’abisso tra uomo ed uomo, tra una classe ed un’altra, la molteplicità dei tipi, la volontà di essere se stesso, di distinguersi, ciò che io chiamo il pathos delle distanze è la caratteristica di tutte le epoche forti. L’espansività, la tensione tra gli estremi è ogni giorno più piccola, — gli estremi stessi si cancellano fino all’analogia... Tutte le nostre teorie politiche, e le costituzioni dei nostri Stati, non eccettuato «l’Impero tedesco» sono delle conseguenze, delle necessità logiche della degenerescenza; l’azione incosciente della decadenza si è messa a dominare fino nell’ideale di certe particolari scienze. Contro tutta la sociologia dell’Inghilterra e della Francia io faccio la stessa obbiezione, essa non conosce per esperienza che i prodotti di decomposizione della società, ed essa prende, con tutta innocenza, i suoi propri istinti di decomposizione come norma dei giudizi sociologici. La vita declinante, la diminuzione di tutte le forze organizzanti, cioè di tutte le forze che separano, che scavano degli abissi, che subordinano e preordinano, ecco ciò che oggi si formula come ideale in sociologia... I nostri socialisti sono dei decadenti, ma Herbert Spencer pure è un decadente, — egli vede nel trionfo dell’altruismo qualche cosa di desiderabile!...
38.
Il mio ideale della libertà. — Il valore di una cosa risiede talvolta non in ciò che si guadagna ottenendola, ma in ciò che si paga per acquistarla, — in ciò ch’essa costa. Cito un esempio. Le istituzioni liberali cessano di essere liberali non appena esse sono acquistate: non vi è, per conseguenza, niente di più fondamentalmente nocivo alla libertà che le istituzioni liberali. Si sa bene a cosa esse riescano: esse minano sordamente la volontà di Potenza, sono esse il livellamento della montagna e della vallata eretto a morale, esse rendono piccoli, vili ed avidi dei piaceri, — il trionfo del gregge animale le accompagna sempre. Liberalismo: altrimenti detto: abbrutimento gregario... Le stesse istituzioni, quando occorre combattere per esse, hanno tutt’altre conseguenze; allora esse favoriscono potentemente lo sviluppo della libertà. Considerando più da vicino si vede che è la guerra che produce questi effetti, la guerra per gli istinti liberali, la quale, in quanto che è guerra, lascia sussistere gli istinti anti-liberali. E la guerra eleva alla libertà. Giacchè, cos’è la libertà? Consiste nell’avere la volontà di rispondere di sè. È mantenere le distanze che ci separano. È essere indifferenti ai dolori, alle asprezze, alle privazioni, alla vita stessa. Significa essere pronti a sacrificare gli uomini alla propria causa, senza eccettuare se stessi. Libertà significa che gli istinti virili, gli istinti gioiosi di guerra e di vittoria, predominano su tutti gli altri istinti, per esempio su quelli della «felicità». L’uomo divenuto libero, e più ancora lo spirito diventato libero, calpesta quella specie di disprezzabile benessere che sognano i droghieri, i cristiani, i poltroni, le donne, gli Inglesi ed altri democratici. — L’uomo libero è guerriero. — Da cosa si misura la libertà negli individui come nei popoli? Dalla resistenza che bisogna sormontare, dalla pena che costa l’arrivare in alto. Il tipo più elevato dell’uomo libero deve essere cercato là, dove deve essere costantemente vinta la più forte resistenza: a cinque passi dalla tirannia, alla soglia stessa del pericolo della servitù. Ciò è fisiologicamente vero se s’intende per «tirannia» degli istinti terribili e spietati che provocano contro essi il massimo di autorità e di disciplina; il più bel tipo ne è Giulio Cesare; — ciò è vero anche politicamente, e non si ha che a percorrere la storia. I popoli che hanno avuto qualche valore, che hanno guadagnato qualche valore, non l’hanno mai guadagnato con delle istituzioni liberali: il grande pericolo fece di essi qualche cosa che merita il rispetto, quel pericolo il quale soltanto ci insegna a conoscere le nostre risorse, le nostre virtù, i nostri mezzi di difesa, il nostro spirito, — che ci costringe ad essere forti... Primo principio: occorre aver bisogno di essere forti: altrimenti non lo si diventa mai. — Quelle grandi scuole, vere serre calde per gli uomini forti, per la specie più forte di uomini che mai vi sia stata, le società aristocratiche di Roma e di Venezia, compresero la libertà esattamente nel senso in cui io intendo questa parola: come qualche cosa che nello stesso tempo si ha e non si ha, che si vuole, che si conquista...
39.
Critica della modernità. — Le nostre istituzioni non valgono più niente: tutti sono d’accordo su questo giudizio. Eppure la colpa non è di loro, ma di noi. Tutti gli istinti da cui sono uscite le istituzioni essendosi smarriti, queste a loro volta ci scappano, perchè noi non vi siamo più adatti. In ogni tempo il democratismo è stata la forma di decomposizione della forza organizzatrice: in Umano, troppo umano, I, 318, ho già caratterizzato, come una forma di decadenza della forza organizzatrice, la democrazia moderna come i suoi palliativi, tale «l’impero tedesco». Perchè vi siano delle istituzioni, bisogna che vi sia una specie di volontà, d’istinto, d’imperativo, anti-liberale fino alla cattiveria: una volontà di tradizione, di autorità, di responsabilità, stabilita sopra i secoli, di solidarietà incatenata attraverso i secoli, nel passato e nell’avvenire, in infinitum. Allorchè questa volontà esiste, si fonda qualche cosa come l’imperium Romanum: o come la Russia, la sola potenza che abbia oggi la speranza di qualche durata, che possa attendere, che possa ancora promettere qualche cosa — la Russia, l’idea contraria della miserabile manìa dei piccoli Stati europei, della nervosità europea che la fondazione dell’Impero tedesco ha fatto entrare nel suo periodo critico... Tutto l’occidente non ha più quegli istinti da dove nascono le istituzioni, da dove nasce l’avvenire: niente non è forse in opposizione più assoluta al suo «spirito moderno». Si vive per l’oggi, si vive molto presto, — si vive senza nessuna responsabilità: è ciò precisamente che si chiama «libertà». Tutto ciò che fa che le istituzioni sono delle istituzioni è disprezzato, odiato, scartato: ci si crede di nuovo in pericolo di schiavitù dacchè la parola «autorità» si fa soltanto intendere. La decadenza nell’istinto di valutazione dei nostri politicanti, dei nostri partiti politici va fino a preferire istintivamente ciò che decompone, ciò che affretta la fine... Testimonio il matrimonio moderno. Apparentemente ogni ragione se n’è andata: pertanto questo non è un’obbiezione contro il matrimonio, ma contro la modernità. La ragione del matrimonio — essa risiede nella responsabilità giuridica esclusiva dell’uomo: in questo modo il matrimonio aveva un elemento preponderante, mentre che oggi zoppica da tutte e due le gambe. La ragione del matrimonio — essa risiedeva nel principio della sua indissolubilità: questo gli dava un accento che, dinanzi all’azzardo dei sentimenti e delle passioni, delle impulsioni del momento, sapeva farsi ascoltare. Risiedeva essa pure nella responsabilità delle famiglie in riguardo alla scelta degli sposi. Con questa crescente indulgenza per il matrimonio d’amore si sono eliminate le basi stesse del matrimonio, tutto ciò che ne faceva una istituzione. Mai, mai e poi mai, non si fonda un’istituzione su di una idiosincrasia; lo ripeto, non si fonda il matrimonio sull’«amore», — lo si fonda sull’istinto della specie, sull’istinto di proprietà (la donna ed i figli essendo delle proprietà), sull’istinto della dominazione che incessantemente si organizza nella famiglia in piccola sovranità, la quale ha bisogno dei figli e degli eredi per mantenere, fisiologicamente anche, in misura acquisita di potenza, d’influenza, di ricchezza, per preparare da lunga data una solidarietà d’istinti tra i secoli. Il matrimonio, in quanto istituzione, comprende già l’affermazione della forma di organizzazione, più grande e più durevole: se la società presa nel suo insieme non può dare cauzione di se stessa fino dalle più lontane generazioni, il matrimonio è totalmente sprovvisto di senso. — Il matrimonio moderno ha perso il suo significato — per conseguenza lo si sopprime.
40.
La questione operaia. — È la stupidaggine, o piuttosto la degenerescenza dell’istinto che si scopre in fondo a tutte le stupidaggini, la quale fa che vi sia una questione operaia. Vi sono certe cose sulle quali non si pongono delle questioni: primo imperativo dell’istinto. — lo non vedo assolutamente cosa si vuol fare dell’operaio europeo dopo averne fatto una questione. Egli si trova in molto buona posizione per non «questionare» sempre più, e con sempre maggiore strafottenza. In fin de’ conti, egli ha il gran numero dalla sua. Bisogna completamente rinunziare alla speranza di veder svilupparsi una specie d’uomo modesto e frugale, una classe che risponderebbe al tipo del Cinese: e questo sarebbe stato ragionevole, ed avrebbe risposto semplicemente ad una necessità. Che si è fatto? — Tutto per annientare nel suo germe la condizione stessa di un simile stato di cose, — con una imperdonabile leggerezza si è distrutto nei loro germi gli istinti che rendono i lavoratori possibili come classe, che farebbero ammettere a loro stessi quella possibilità. Si è reso l’operaio atto al servizio militare, gli si è dato il diritto di coalizione, il diritto di voto politico: quale sorpresa se la sua esistenza gli appare fin da ora come una calamità (per parlare la lingua della morale, come una ingiustizia?). — Ma che si vuole? io domando ancora. Se si vuol raggiungere uno scopo, si devono volere anche i mezzi: se si vogliono degli schiavi, è pazzesco accordar loro ciò che ne fa dei padroni.
41.
«Libertà, libertà...». — Abbandonarsi ai propri istinti in tempi come i nostri, è una fatalità di più. Questi istinti si contraddicono, si urtano e si distruggono reciprocamente. La definizione del moderno mi pare essere la contraddizione fisiologica di sè. La ragione dell’educazione esigerebbe che, sotto una ferrea costrizione, uno almeno di quei sistemi di istinto fosse paralizzato, per permettere ad un altro di manifestare la sua forza, di divenire vigoroso, di diventare padrone. Oggigiorno non si potrebbe rendere l’individuo possibile che circoscrivendolo: possibile, cioè intero... Ha luogo il contrario, la pretesa all’indipendenza, allo sviluppo libero, al lasciare andare è sollevata con grande calore, precisamente da coloro per i quali nessuna briglia non sarebbe assai severa — questo è vero in politicis, questo è vero in arte. Ma questo è un sintomo di decadenza: la nostra idea moderna della «libertà» è una prova di più della degenerescenza degli istinti.
42.
Dove è necessaria la fede — Niente più della probità è rara tra i moralisti ed i santi; forse essi dicono il contrario, forse essi stessi lo credono. Giacchè quando una fede è più utile, più convincente, allorchè essa fa più effetto dell’ipocrisia cosciente, d’istinto l’ipocrisia diventa immediatamente innocenza: primo principio per la comprensione dei grandi santi. — Ugualmente per i filosofi, altra specie di santi, è una conseguenza del mestiere di non autorizzare che certe verità: voglio dire quelle per cui il loro mestiere ottiene la sanzione pubblica, — per parlare la lingua di Kant, le verità della ragione pratica. Essi sanno ciò che devono dimostrare, in cosa essi sono pratici, — si riconoscono tra di loro per questo che sono d’accordo sulle «verità». — «Tu non devi mentire». — Altrimenti detto: Guardatevi bene, signor filosofo, dal dire la verità...
43.
Da dire all’orecchio dei conservatori. — Ciò che non si sapeva una volta, ciò che si sa oggi, ciò che si potrebbe sapere, — è che una formazione in addietro, un regresso, in un qualsiasi senso, di qualunque grado che ciò sia, non è assolutamente possibile. È ciò almeno quel che sappiamo noi, noialtri fisiologisti. Ma tutti i preti, tutti i moralisti vi han sempre creduto, — hanno essi voluto ricondurre l’umanità ad una misura anteriore di virtù, dare un giro di vite indietro. La morale è sempre stata un letto di Procuste. Anche i politicanti hanno in questo imitato i predicatori di virtù: vi sono ancor oggi dei partiti che sognano di far marciare le cose a ritroso, alla maniera dei gamberi. Ma nessuno è libero di essere un gambero. Non si può far niente: bisogna andare avanti, voglio dire avanzarsi passo a passo più avanti nella decadenza (— è questa la mia definizione del «progresso» moderno...). — Si può ostacolare questo sviluppo e, ostacolandolo, creare una resurrezione della degenerescenza, concentrarla, renderla più veemente e più improvvisa: ecco tutto ciò che si può fare.
44.
La mia idea del genio. — I grandi uomini sono come le grandi epoche, delle materie esplosive, delle enormi accumulazioni di forze: storicamente e fisiologicamente, la loro prima condizione è sempre la lunga attesa della loro venuta, una preparazione, un ripiegamento su se stessi — cioè che durante molto tempo non deve essersi prodotta nessuna esplosione. Allorchè la tensione nella massa è diventata troppo grande, la più fortuita irritazione basta per fare appello nel mondo al «genio», all’«azione», al grande destino. Cosa importa allora l’ambiente, l’epoca, «lo spirito del secolo», «l’opinione pubblica!». Si prenda il caso di Napoleone. La Francia della Rivoluzione e ancor più la Francia che ha preparato la Rivoluzione doveva, per se stessa, generare il tipo più opposto a quello di Napoleone, e l’ha infatti generato. E poichè Napoleone era differente, erede di una civiltà più forte, più costante, più antica di quella che in Francia se ne andava in fumo ed in briciole, egli fu il padrone, fu solo ad esservi padrone. I grandi uomini sono necessari, il tempo in cui appaiono è fortuito; se quasi sempre essi ne diventano padroni, questo proviene da ciò che essi sono più forti, più vecchi, da ciò che essi rappresentano una più lunga accumulazione di elementi. Tra un genio ed il suo tempo esiste il rapporto dal forte al debole, dal vecchio al giovane. Il tempo è sempre relativamente più giovane, più leggero, meno emancipato, più ondeggiante, più infantile. — Che oggigiorno in Francia si pensi tutto il contrario (in Germania pure, ma qui ciò non ha importanza), che la teoria del milieu, una vera teoria da nevrastenici, vi sia divenuta sacrosanta e ch’essa trovi credito tra i fisiologi, ecco che, per noi, non è in «buon odore», ecco che ci fa venire dei tristi pensieri. — In Inghilterra pure non s’intende diversamente, ma questo non turberà nessuno. All’Inglese sono aperte due vie per accomodarsi del genio e del «grand’uomo»: la via democratica alla maniera di Buckle, oppure la via religiosa alla maniera di Carlyle. — Il pericolo che vi è nelle grandi epoche e nei grandi uomini è straordinario; lo sfinimento sotto tutte le forme, la sterilità li segue passo a passo. Il grande uomo è una fine; la grande epoca, il Rinascimento per esempio, è una fine. Il genio — in opera ed in azione — è necessariamente sprecone: ch’egli si sprechi è questa la sua grandezza... L’istinto di conservazione è in qualche modo sospeso; la pressione suprema delle forze raggianti proibisce loro ogni specie di precauzione e di prudenza. Si chiama questo «sacrificio», si vanta il suo «eroismo», la sua indifferenza per il suo proprio bene, la sua abnegazione per una idea, una grande causa, una patria: tutto questo sono dei malintesi... Esso straripa, si spande, si spreca, non si risparmia, — fatalmente, irrevocabilmente, involontariamente proprio come è involontaria l’irruzione di un fiume al disopra delle sue rive. Ma poichè si deve molto a tali esplosivi, per ricompensa sono stati gratificati di molte cose, per esempio di una specie di morale superiore... Tale è la riconoscenza dell’umanità: essa comprende a controsenso i suoi benefattori.
45.
Il criminale ed i suoi analoghi. — Il tipo del criminale è il tipo dell’uomo forte posto in condizioni sfavorevoli, l’uomo forte reso malato. Gli manca di vivere in una contrada selvaggia, in una natura e una forma di esistenza più libere e più pericolose, dove di diritto sussiste tutto ciò che, nell’istinto dell’uomo forte, costituisce la sua arma e la sua difesa. Le sue virtù sono dalla società messe al bando: gli istinti più vivaci ch’egli conduce dalla nascita, si confondono immediatamente con le azioni depressive, il sospetto, il timore, il disonore. Ma ecco quasi la formula della degenerescenza fisiologica. Quegli che è obbligato di fare segretamente ciò che sa meglio fare, ciò che preferisce, segretamente e con una lunga tensione, con precauzione e con astuzia, ne diventa anemico; e perchè i suoi istinti non gli fanno raccogliere che pericoli, persecuzioni, catastrofi, la sua sensibilità si rivolta contro i suoi istinti — ed egli si sente la preda della fatalità. È nella nostra società docile, mediocre, castrata che un uomo vicino alla natura, che viene dalla montagna o dalle avventure del mare, degenera fatalmente in criminale. O quasi fatalmente: giacchè vi sono dei casi in cui un tal uomo si trova ad essere più forte della società: il Còrso Napoleone ne è il più celebre esempio. Per il problema che qui si presenta, la testimonianza di Dostoievsky è importante — di Dostoievsky il solo psicologo da cui, sia detto per incidenza, io ho qualcosa da imparare; fa parte dei casi più felici della mia vita, più ancora della scoperta di Stendhal. Quest’uomo profondo, il quale ha avuto dieci volte ragione di far poco caso di quel popolo superficiale che sono i Tedeschi, ha vissuto molto tempo tra i forzati della Siberia, e da quei veri criminali per i quali non vi era possibilità di ritornare nella società, egli ha ricevuto un'impressione totalmente differente da quella che si aspettava; — essi gli sono apparsi scolpiti nel miglior legno che abbia forse la terra russa, nel legno più duro e più prezioso. Generalizziamo il caso del criminale: immaginiamo delle nature che, per una ragione qualsiasi, non ricevono la sanzione pubblica, le quali sanno che non le si considera nè come benefiche nè come utili, — sentimento dello Ciandala che non si sente giudicato giustamente, ma come s’egli fosse riprovato, indegno, macchiato. In tutte queste nature, i pensieri e gli atti sono illuminati da una luce sotterranea; in essi ogni cosa prende una colorazione più pallida che per coloro che illumina la luce del giorno. Ma quasi tutte le forme di esistenza che oggigiorno consideriamo con onore hanno vissuto un tempo in quella atmosfera mezzo sepolcrale: l’uomo di scienza, l’artista, il genio, lo spirito libero, il commediante, il negoziante, il grande esploratore... Fintanto che il prete ha prevalso come tipo superiore ogni specie d'uomo di valore è stata deprezzata... Il tempo viene — lo prometto — in cui il prete sarà considerato l’essere più basso, più mentitore e più indecente, come il nostro Ciandala... Notate come ancora adesso, con i costumi più dolci che mai siano esistiti sulla terra, almeno in Europa, tutto ciò che vive in disparte, tutto ciò che è lungamente, troppo lungamente al disotto, — ogni forma di esistenza impenetrabile e fuori dell’ordinario, si avvicina a quel tipo che il criminale completa. — Tutti i novatori dello spirito portano in fronte, durante un certo tempo, il segno pallido e fatale dello Ciandala: non perchè li si considera così, ma perchè essi stessi sentono il terribile abisso che li separa da tutto ciò che è tradizionale e venerato. Quasi ogni genio conosce, come una fase del suo sviluppo, «l’esistenza catilinaria», sentimento di odio, di vendetta e di rivolta contro tutto ciò che già è, contro tutto ciò che non diventa più... Catilina — la forma preesistente di ogni Cesare.
46.
Qui la vista è libera. — È un segno forse della grandezza d’animo quando un filosofo tace; è forse amore, allorchè si contraddice; quegli che cerca la conoscenza è capace di tanta gentilezza d’animo che lo farebbe mentire. Non senza finezza si è detto: Il est indigne des grands coeurs de répandre le trouble qu’ils ressentent, ma bisogna aggiungere che il non aver paura del più indegno può egualmente essere prova di grandezza d’animo. Una donna che ama sacrifica la sua felicità; un filosofo che «ama» sacrifica forse la sua umanità, un Dio che ha amato si è fatto ebreo...
47.
La bellezza non è un caso. — La bellezza di una razza, di una famiglia, la sua grazia, la sua perfezione in tutti i gesti è penosamente acquisita: essa è, come il genio, il resultato finale del lusso accumulato dalle generazioni. Bisogna aver fatto dei grandi sacrifici al buon gusto, bisogna a cagione di questo aver fatto ed abbandonato molte cose; — il diciassettesimo secolo, in Francia, merita a questo riguardo di essere ammirato, — si aveva allora un principio di elezione per la società, l’ambiente, il vestito, le soddisfazioni sessuali; occorse preferire la bellezza all’utilità, all’abitudine, all’opinione, alla pigrizia. Regola superiore: non si deve «lasciarsi andare» neanche dinanzi a se stessi. — Le cose buone costano carissime, e prevale sempre la legge che quegli che le ha è differente da colui che le acquista. Tutto ciò che è buono è eredità, ciò che non è ereditato è imperfetto, non è che un inizio... Ad Atene, al tempo di Cicerone il quale esprime la sua meraviglia, gli uomini ed i giovani erano molto più belli delle donne: ma anche quale lavoro e quale sforzo al servizio della bellezza il sesso maschile si era imposto da molti secoli! — Non bisogna pertanto farsi illusioni sul metodo impiegato: una semplice disciplina di sentimenti e di pensieri ha un resultato quasi nullo (— ecco il grande abbaglio dell’educazione tedesca assolutamente illusoria): è il corpo che si deve persuadere sin dal primo momento. La stretta osservazione delle abitudini distinte e scelte, l’obbligo di non vivere che con degli uomini che «non si lasciano andare» basta assolutamente per essere distinto ed eminente; in due o tre generazioni l’opera ha già gettato profonde radici. Questo decide della sorte dei popoli e dell’umanità se si comincia la cultura al luogo giusto, — non sull’«anima» (come fu con la funesta superstizione dei preti e dei mezzi-preti), ma sul corpo, le attitudini, il regime fisico, la fisiologia: il resto avviene... I Greci sono rimasti in questo il primo avvenimento di cultura nella storia — essi seppero, essi fecero ciò che era necessario; il cristianesimo, il quale disprezzava il corpo, è stato fino ad oggi la più grande calamità dell’umanità.
48.
Il Progresso secondo me. — Io pure parlo di un «ritorno alla natura», benchè ciò non sia propriamente un ritorno indietro, ma un passo avanti verso l’alto, verso la natura sublime, libera ed anche terribile, la quale gioca, che ha il diritto di giocare con i grandi compiti... Per parlare simbolicamente: Napoleone fu un esempio di questo «ritorno alla natura» come lo comprendo io (così in rebus tacticis, e più ancora, come lo sanno i militari, in materia strategica). Ma Rousseau, — dove veramente voleva ritornare? Rousseau, questo primo uomo moderno, idealista e canaglia in una sola persona, che aveva bisogno della «dignità morale» per sopportare il suo proprio aspetto, malato di uno sfrenato disgusto, di uno sfrenato disprezzo di se stesso. Questo aborto che si è piantato sulla soglia dei nuovi tempi, voleva egli pure il «ritorno alla natura», — una volta ancora, dove voleva arrivare? — Io odio Rousseau anche nella Rivoluzione; essa è la espressione storica di quell’essere a due faccie, idealista e canaglia. La sanguinosa farsa che allora si rappresentò, «l’immoralità» della Rivoluzione, tutto questo non m’importa; ciò che io odio, è la sua moralità alla Rousseau, — le sedicenti «verità» della Rivoluzione per le quali essa esercita ancora la sua azione e la sua persuasione su tutto ciò che è piatto e mediocre. La dottrina dell’uguaglianza!... Ma non c’è un veleno più velenoso: giacchè essa appare predicata dalla giustizia stessa, mentre essa è la fine di ogni giustizia... «Agli eguali uguaglianza, agli ineguali inuguaglianza — tale dovrebbe essere il vero linguaggio di ogni giustizia; e, ciò che necessariamente ne consegue, bisognerebbe mai eguagliare delle inuguaglianze». — Attorno a questa dottrina dell’uguaglianza si svolsero tante scene orribili e sanguinose, che le è rimasto, a questa «idea moderna» per eccellenza, una specie di gloria e di aureola, al punto che la Rivoluzione, per il suo spettacolo, ha smarrito finanche spiriti nobilissimi. Il che non è una ragione per stimarla di più. — Io non scorgo che uno solo il quale la sentì come doveva essere sentita, con disgusto. — Goethe...
49.
GOETHE. — Avvenimento non tedesco ma europeo: tentativo grandioso di vincere il diciottesimo secolo con un ritorno allo stato di natura, con uno sforzo per elevarsi al naturale della Rinascenza, con una specie di costrizione esercitata su lui stesso dal nostro secolo. — Goethe portava in sè gli istinti più forti: la sentimentalità, l’idolatria della natura, l’antistorismo, l’idealismo, l’irreale ed il lato rivoluzionario (— questo lato rivoluzionario non è che una delle forme dell’irreale — ). Egli ricorse alla storia, alle scienze naturali, all’antico, come pure a Spinoza, e prima di tutto all’attività pratica; si circondò di orizzonti ben definiti; lungi da staccarsi dalla vita, egli vi si immerse; non fu pusillanime e, per quanto possibile, accettò tutte le responsabilità. Ciò che egli voleva, era la totalità; egli combattè la separazione della ragione e della sensualità, del sentimento e della volontà (— predicata nella più ripugnante delle scolastiche da Kant, l’antipodo di Goethe); si disciplinò per arrivare all’essere integrale; si fece da sè stesso... Goethe, in mezzo ad un epoca dai sentimenti irreali, era un realista convinto; riconosceva tutto ciò che su questo punto aveva una parentela con lui — nella sua vita non vi fu più grande avvenimento di quella ens realissimum chiamata Napoleone. Goethe concepiva un uomo forte, superiormente colto, abile a tutte le cose della vita fisica, ben padrone di sè, rispettoso della sua propria individualità, capace di arrischiarsi a godere pienamente del naturale in tutta la sua ricchezza e nella sua piena distesa, forte abbastanza per la libertà; uomo tollerante non per debolezza, ma per forza, perchè sa trarre vantaggio da ciò che sarebbe la perdita delle nature medie; uomo per il quale non esiste più niente di proibito, salvo pertanto la debolezza, ch’essa si chiami vizio o virtù... Un tale spirito liberato, appare al centro dell’universo, in un fatalismo felice e fiducioso, con la fede che non c’è di condannabile altro che ciò che esiste isolatamente, e che, nell’insieme, tutto si risolve e si afferma. Egli non nega più... Ma una tale fede è la più alta di tutte le fedi possibili. Io l’ho battezzata col nome di Dionisio.
50.
Si potrebbe dire che, in un certo senso, il diciannovesimo secolo si è sforzato verso tutto ciò che Goethe aveva tentato di raggiungere personalmente, una universalità che comprende e che ammette tutto, una tendenza a dare accesso a tutti, un realismo ardito, un rispetto del fatto. Da dove viene che il resultato totale non sia un Goethe, ma un caos, un sospiro nihilista, una confusione in cui non si sa dove battere la testa, un istinto di sfinimento il quale, continuamente, nella pratica, spinge ad un ritorno al diciottesimo secolo? (— per esempio sotto forma di sentimento romantico, di altruismo e d’ipersentimentalità, di femminismo nel gusto, di socialismo nella politica — ). Il diciannovesimo secolo, finendo non sarebbe dunque che un diciottesimo secolo rinforzato e indurito, altrimenti detto un secolo di decadenza? In modo che non solo per la Germania, ma per tutta l’Europa, Goethe non sarebbe stato che un incidente, una bella inutilità? Ma si disconoscono i grandi uomini se li si considera sotto la miserabile prospettiva di una pubblica utilità. Che non se ne possa trarre alcun profitto, è forse la caratteristica stessa della grandezza...
51.
Goethe è l’ultimo Tedesco per il quale io ho del rispetto: egli avrebbe risentito tre cose come io stesso le risento; noi ci intendiamo pure sulla «Croce»... Mi si domanda spesso perchè io scrivo in tedesco; giacchè in nessun luogo io sarei letto più male che nella mia patria. Ma infine chi sa se io desidero essere letto oggi? — Creare delle cose sulle quali il tempo tenta invano di mordere, tendere con la forma e con la sostanza ad una piccola immortalità — io non sono mai stato tanto modesto per esigere meno da me stesso. L’aforisma, la sentenza, in cui per primo sono diventato maestro tra i Tedeschi, sono le forme dell’«eternità»; il mio orgoglio è di dire in dieci frasi ciò che ogni altro dice in un volume — ciò che un altro non dice in un volume...
Io ho dato all’umanità il libro più profondo che essa possiede, il mio Zarathustra: le darò fra poco il suo libro più indipendente.