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FEDERICO NIETZSCHE

nella mancanza d’egoismo e d’indipendenza, qualcosa di disprezzabile. — Bisogna misurare i tempi secondo le loro forze positive — e, facendo ciò, quell’epoca della Rinascenza, così prodiga e così ricca in fatalità, appare come l’ultima grande epoca, e noi, noialtri uomini moderni con la nostra ansiosa previdenza personale e il nostro amore del prossimo, con le nostre virtù di lavoro, di semplicità, di equità e di esattezza — il nostro spirito collezionatore, economico e macchinale, — noi viviamo in una epoca di debolezza. Questa debolezza produce ed esige le nostre virtù. L’«uguaglianza», una certa effettiva assimilazione che non fa che esprimersi nella teoria dei «diritti eguali», appartiene essenzialmente ad una civiltà discendente: l’abisso tra uomo ed uomo, tra una classe ed un’altra, la molteplicità dei tipi, la volontà di essere se stesso, di distinguersi, ciò che io chiamo il pathos delle distanze è la caratteristica di tutte le epoche forti. L’espansività, la tensione tra gli estremi è ogni giorno più piccola, — gli estremi stessi si cancellano fino all’analogia... Tutte le nostre teorie politiche, e le costituzioni dei nostri Stati, non eccettuato «l’Impero tedesco» sono delle conseguenze, delle necessità logiche della degenerescenza; l’azione incosciente della decadenza si è messa a dominare fino nell’ideale di certe particolari scienze. Contro tutta la sociologia dell’Inghilterra e della Francia io faccio la stessa obbiezione, essa non conosce per esperienza che i prodotti di decomposizione della società, ed essa prende, con tutta innocenza, i suoi propri istinti di decomposizione come norma dei giudizi sociologici. La vita

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