Il crepuscolo degli idoli/Ciò che io devo agli antichi

Ciò che io devo agli antichi

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Friedrich Nietzsche - Il crepuscolo degli idoli (1889)
Traduzione dal tedesco di Anonimo (1924)
Ciò che io devo agli antichi
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CIÒ CHE IO DEVO AGLI ANTICHI.


1.

Ancora una parola, per finire, su quel mondo verso il quale ho cercato degli accessi, verso il quale ho forse trovato un nuovo accesso — il mondo antico. Il mio gusto, il quale forse è l’opposto del gusto tollerante, è ben lungi anche qui dall’approvare in blocco: generalmente esso non ama approvare, preferisce contraddire, ed anche negare completamente... Questo è vero per delle intere civiltà, questo è vero per certi libri, — questo è vero anche per delle città e dei paesaggi. In fondo non vi è che un piccolissimo numero di libri antichi che abbiano contato nella mia vita; i più celebri non ne fanno parte. Il mio senso dello stile, dell’epigramma nello stile, si è svegliato quasi spontaneamente al mio contatto con Sallustio. Non ho dimenticato la sorpresa del mio venerato professore, Corssen, quando fu forzato di dare il miglior voto al suo più cattivo latinista — avevo imparato tutto di un sol colpo. Serrato, severo, con un fondo il più possibile sostanzioso, una fredda cattiveria riguardo alla «bella parola» ed anche riguardo al «bel sentimento» — è a tutte queste qualità che io mi sono rivelato. Fino dal mio Zarathustra si riconoscerà una ambizione molto [p. 165 modifica]seria di stile romano, di «aere perennius» nello stile. Non è avvenuto diversamente al mio primo contatto con Orazio. Fino ad ora nessun poeta mi ha procurato un rapimento artistico uguale a quello che ho subito provato alla lettura di un’ode di Orazio. In certe lingue non è neanche possibile di volere ciò che è qui realizzato. Questo mosaico di parole, dove ognuna per il suo timbro, per il suo posto nella frase, l’idea che esprime, fa raggiare la sua forza a destra, a sinistra e sull’insieme, questo minimo nella somma, e il numero dei segni e questo massimo che si raggiunge così nell’energia dei segni — tutto ciò è romano, e, se si vuole credermi, nobile per eccellenza. Tutto il resto della poesia diventa, a lato di questo, qualche cosa di popolare, — un semplice chiacchiericcio di sentimenti...


2.

Ai Greci io non devo assolutamente impressioni di una simile forza; e, a dirla francamente, essi per noi non possono essere ciò che sono i Romani. Non s’impara dai Greci — il loro genere è troppo strano, ed anche troppo mobile per fare un effetto imperativo, «classico». Chi avrebbe mai imparato a scrivere con un Greco!... E chi avrebbe saputo impararlo senza i Romani! Non si pretenda di obbiettarmi Platone. Per ciò che riguarda Platone io sono profondamente scettico e non fui mai in condizione di far coro nell’ammirazione per l’artista Platone che è tradizionale tra i [p. 166 modifica]sapienti. E qui i giudici del gusto più raffinato tra gli antichi sono dalla mia parte. Mi sembra che Platone getti confusamente tutte le forme dello stile: per questo egli è il primo decadente dello stile: è colpevole di errori simili a quelli dei cinici i quali inventarono la Satira Menippea. Per trovare un incanto nel dialogo di Platone, questa maniera di dialettica orribilmente presuntuosa ed ingenua, bisogna non aver mai letto del buon francese, — per esempio Fontenelle. Platone è noioso. — Infine la mia antipatia per Platone va sempre più aumentando: trovo ch’egli ha deviato da tutti i fondamentali istinti degli Elleni, lo trovo così impregnato di morale, così cristiano avanti lettera — egli diede già l’idea del «bene» come idea superiore — che sono tentato d’impiegare riguardo a tutto il fenomeno Platone, piuttosto che ogni altro epiteto, quello di «alta mistificazione» o, se si preferisce, d’idealismo. — Si è pagato caro aver visto questo Atenese andare a scuola dagli Egiziani (— o forse dagli Ebrei in Egitto?... — ). Nella grande fatalità del cristianesimo, Platone è quel fascino a doppio senso chiamato «ideale» il quale permette alle nature nobili dell’antichità di sbagliarsi e di abbordare il ponte che conduce alla «croce»... E quante tracce di Platone vi sono ancora nella idea della «Chiesa», nell’edificazione, nel sistema, nella pratica della Chiesa! — Il mio riposo, la mia preferenza, la mia cura, dopo tutto il platonismo, fu in ogni tempo Tucidide. Tucidide e, forse, il Principe di Macchiavelli mi somigliano di più per la volontà assoluta di non lasciarsi sommergere e di vedere la ragione nella realtà, — e non nella « [p. 167 modifica]ragione», e ancor meno nella «morale»... Nient’altro guarisce più radicalmente di Tucidide dal lamentevole adornamento, nascosto sotto il colore dell’ideale, che il giovane dall’«educazione classica» porta nella vita in ricompensa della sua applicazione al liceo. Bisogna seguirlo linea per linea e leggere i suoi pensieri segreti con altrettanta attenzione delle sue frasi: vi sono pochi pensatori così ricchi in pensieri segreti. In lui la cultura dei Sofisti, voglio dire la cultura dei realisti, raggiunge la sua più completa espressione: un movimento inapprezzabile, in mezzo alla ciarlataneria morale e ideale della scuola socratica che allora si scatenava da ogni parte. La filosofia greca è la decadenza dell’istinto greco; Tucidide è la grande somma, l’ultima rivelazione di quello spirito della realtà forte, severo e duro che gli antichi Elleni avevano nell’istinto. Il coraggio dinanzi alla realtà distingue in ultima analisi le nature come Tucidide e Platone: Platone è vile davanti alla realtà, — per conseguenza egli si rifugia nell’ideale; Tucidide è padrone di sè, dunque egli è anche padrone delle cose...


3.

Presentire nei Greci delle «belle anime», delle «pondérances dorées» ed altre perfezioni, ammirare per esempio in essi la calma nella grandezza, il sentimento ideale — io sono stato preservato da questa «alta ingenuità», in fondo una niaiserie allemande anch’essa, dal psicologo che era in me. Io vidi il loro [p. 168 modifica]istinto più violento, la volontà di potenza, io lo vidi tremare dinanzi alla forza sfrenata di questo impulso, — vidi nascere tutte le loro istituzioni da misure di precauzione per garantirsi reciprocamente dalle materie esplosive ch’essi avevano in sè. L’enorme tensione interiore si scaricava allora in odî terribili ed implacabili al di fuori: le città si laceravano reciprocamente perchè i loro cittadini trovino individualmente il riposo. Si aveva bisogno di esser forti: il pericolo era sempre vicino, — guatava dovunque. I corpi superbi e molli, il realismo e l’immoralismo intrepidi che erano propri degli Elleni, venivano loro dalla necessità e non erano loro «naturali». Era una conseguenza e non qualcosa che venisse loro dall’origine. Le feste e le arti non servivano pure che a produrre un sentimento di superiorità, a mostrare la superiorità: sono questi dei mezzi di glorificatone di sè, od anche dei mezzi per far paura. Giudicare i Greci alla tedesca, servirsi della pesante onestà della scuola socratica per trovare una spiegazione della natura dei Greci!... Come se i filosofi non fossero stati i decadenti dell’ellenismo, il movimento di opposizione contro l’antico nobile gusto (— contro l’istinto agonale, contro la Polis, contro il valore della razza, contro l’autorità della tradizione). Le virtù socratiche furono predicate perchè i Greci le avevano perdute: irritabili, timorosi, incostanti, tutti commedianti, essi avevano anche troppo bisogno di lasciarsi predicare la morale. Non perchè questo avesse potuto servire a qualcosa: ma le grandi parole e le attitudini stanno così bene ai decadenti... [p. 169 modifica]


4.

Io fui il primo che, per la comprensione di questo antico istinto ellenico ricco ancora ed anche esuberante abbia preso sul serio quel meraviglioso fenomeno che si chiama Dionisio: esso non è spiegabile che con un eccesso di forza. Colui il quale ha studiato i Greci, come quel profondo conoscitore della loro cultura, il più profondo di tutti, Giacobbe Burckhardt di Basilea, ha compreso subito l’importanza che ciò aveva: egli ha intercalato nella sua Coltura dei Greci un capitolo speciale su quel fenomeno. Se si vuol rendersi conto dell’opposto, basterà vedere la povertà d’istinto quasi allegra nel filosofo tedesco quando si avvicina all’idea dionisiaca. Il celebre Lobeck sopratutto, con la venerabile certezza di un verme disseccato tra i libri, si mise ad arrampicarsi in quel mondo di stati misteriosi, per convincersi che era scientifico, mentre era superficiale e puerile fino al disgusto, — Lobeck ha dato ad intendere, con gran rinforzo di erudizione, che in fondo tutte quelle curiosità erano di tenue importanza. È possibile infatti che i preti abbiano comunicato, a coloro che partecipavano a quelle orgie, alcune idee che non sono senza valore: per esempio che il vino incita alla gioia, che l’uomo può vivere talvolta di frutta, che le piante fioriscono in primavera e si seccano in autunno. Per quel che riguarda quella strana ricchezza di riti, di simboli, di miti d’origine orgiaca di cui pullula letteralmente il mondo antico, Lobeck non vi trova che il pretesto per essere di un grado più spirituale. «I Greci, egli dice (Aglaophamus, I. [p. 170 modifica]672), quando non avevano altro da fare, si mettevano a ridere, a saltare e a correre, oppure, perchè può ugualmente venirne voglia all’uomo, si mettevano in terra a piangere ed a lamentarsi. Altri si avvicinavano allora ad essi per trovare una ragione qualsiasi a quelle sorprendenti mosse; e così si formarono, per spiegare quegli usi, innumerevoli leggende, feste e miti. D’altra parte si credevano, quelle azioni burlesche che si era preso l’abitudine di praticare alle feste, necessarie alla loro celebrazione e si mantennero come una parte indispensabile del culto». — Ecco una disprezzabile chiacchierata e io sono certo che neanche per un momento si prenderà sul serio un Lobeck. Siamo ben altrimenti toccati quando esaminiamo l’idea «greca» che si erano formati Winckelmann e Goethe, e come riconosciamo la sua incompatibilità con quell’elemento da dove nacque l’arte dionisiaca con l’orgismo. Io sono certo infatti che Goethe avrebbe escluso, per principio, un’idea analoga dalle possibilità dell’anima greca. Per conseguenza Goethe non comprendeva i Greci. Giacchè non è che attraverso i misteri dionisiaci, con la psicologia dello stato dionisiaco che si esprime la realtà fondamentale dell’istinto ellenico — la sua «volontà di vita». Cosa si garantiva l’Elleno con quei misteri? La vita eterna, l’eterno ritorno della vita; l’avvenire promesso e santificato nel passato; l’affermazione trionfante della vita al disopra della morte e del cambiamento; la vita vera come prolungamento collettivo con la procreazione, con i misteri della sessualità. È perchè il simbolo sessuale per i Greci era il simbolo venerabile per eccellenza, il vero senso [p. 171 modifica]profondo in tutta l’antica pietà. Tutte le particolarità dell’atto della generazione, della gravidanza, della nascita svegliano i sentimenti più elevati e più solenni. Nella scienza dei misteri il dolore è santificato: le «doglie del parto» rendevano sacro il dolore; — tutto ciò che è divenire e crescita, tutto ciò che garantisce l’avvenire ha bisogno del dolore... Perchè vi sia la gioia eterna della creazione, perchè la volontà di vita si affermi eternamente da se stessa, occorre pure che vi siano i «dolori del parto»... La parola Dionisio significa tutto questo: io non conosco un altro simbolismo più elevato di questo simbolismo greco, quello delle feste dionisiache. Con esso il più profondo istinto della vita, quello della vita futura, della vita eterna è tradotto religiosamente, — la stessa via della vita, la procreazione, come la via sacra... Non è che il cristianesimo, col suo fondo di risentimento contro la vita, che abbia fatto della sensualità qualche cosa di impuro: egli getta del fango sul cominciamento, sulla condizione prima della nostra vita...


5.

La psicologia dell’orgismo come sentimento di vita e di forza esuberante, nei limiti del quale il dolore stesso agisce come stimolante, mi ha dato la chiave per l’idea del sentimento tragico, il quale è sconosciuto tanto da Aristotele che dai nostri pessimisti. La tragedia è così lontana dal dimostrare qualche cosa per i pessimisti tipo Schopenhauer, ch’essa piuttosto potrebbe [p. 172 modifica]essere considerata come la sua definitiva confutazione, come il suo giudizio. L’affermazione della vita, anche nei suoi problemi più strani e più duri; la volontà di vita, rallegratesi nel sacrificio dei nostri tipi più elevati, dal carattere proprio inesauribile — è ciò che io ho chiamato dionisiaco, è in questo che io ho creduto riconoscere il filo conduttore verso il poeta tragico. Non per sbarazzarsi del timore e della pietà, non per purificarsi di una passione pericolosa per il suo sollievo impetuoso — è così che l’ha inteso Aristotele, ma per essere se stesso, al disopra del timore e della pietà, l’eterna gioia del divenire, — quella gioia che porta ancora in sè la gioia dell’annientamento... E con questo io ritorno al punto da dove sono partito una volta. — L’Origine della Tragedia fu la mia prima trasmutazione di tutti i valori: con essa io mi ripongo sul terreno da dove crebbe il mio volere, il mio sapere — io l’ultimo discepolo del filosofo Dionisio, — io il maestro dell’eterno ritorno...