Il Principe della Marsiliana/IX
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IX.
Durante l’estate, per non trovarsi solo di fronte alla principessa a pranzo e a colazione, don Pio aveva invitato un vecchio professore, molto noto come bibliofilo, a riordinare l’archivio di famiglia, e lo tratteneva sempre ai pasti e con lui impegnava lunghe discussioni sugli antenati e sui fatti storici cui essi avevano partecipato. Così la principessa non aveva modo di far quasi mai sentire la sua voce, e appena preso il caffè fuggiva indispettita lasciando il marito a discutere con l’Onorati.
In quell’estate il teatro “La Fenice„ fu condotto a termine e don Pio non solo si occupava di farlo addobbare all’interno con tutta l’eleganza possibile, ma pensava pure a procurargli per le tre stagioni invernali, tre compagnie di canto, che assicurassero alla Fenice la sua reputazione.
— Prima costruttore, poi giornalista, ora impresario! Quante trasformazioni vedremo ancora? — dicevano i vecchi e i giovani patrizi, che non perdevano d’occhio il principe.
Alcuni di essi avevano tanta fiducia nella malleabilità del carattere di don Pio, che speravano ancora, dopo aver fatto il mangiatore di preti e l’irriverente verso la dinastia, di vederlo di nuovo al Vaticano, nelle anticamere papali o forse con l’uniforme degli esenti della guardia nobile addosso.
Verso i primi di novembre, quando la gente era in parte ritornata a Roma, don Pio volle inaugurare il teatro con un ricevimento ai giornalisti, al mondo politico e agli amici.
Gl’inviti furono diramati dal principe istesso, e siccome il teatro conteneva circa quattromila persone, così furono dispensati un po’ in tutte le classi sociali e l’aristocrazia ne ebbe la sua parte.
Donna Camilla, informata da Fabio di quel fatto, stabilì di assistere alla festa, ma non disse nulla al marito di questo divisamento, e neppure alle parenti e alle amiche, che la tempestavano di domande.
— Non mi occupo degli affari di mio marito, — rispondeva ella sdegnosamente a quante le parlavano della Fenice — “Cela ne me regarde pas.„
E pareva infatti che ella non si curasse per nulla di ciò che faceva don Pio, tanto la mossa con cui accompagnava quell’asserzione era sdegnosa, e il tono della voce, sprezzante.
Invece appena era sicura che don Pio era fuori di casa e che Giorgio, il fido cameriere, era a pranzo o non poteva andare nelle stanze del marito, ella vi penetrava furtivamente, rovistava fra le carte, nelle tasche degli abiti, cercava, cercava quella prova della colpabilità di Maria, quella prova che doveva facilitarle la vendetta.
Un giorno ella trovò sulla scrivania di don Pio un paio di lunghissimi guanti da donna e sorrise a denti stretti, come se quello fosse un indizio che una volta o l’altra il marito avrebbe dimenticato una lettera, una prova, come aveva dimenticato quei guanti, e li guardò, li odorò lungamente e poi si diede a fissare la scrivania supponendo che in essa stesse rinchiusa tutta la corrispondenza di Maria. Se la forza le fosse bastata, con un colpo avrebbe volentieri fatto saltare quel cassetto, che credeva le nascondesse uno scambio di sentimenti, una ardente passione, che la defraudava di tutto, anche delle rare e misere gioie concessele dal suo matrimonio.
Ella fu sul punto di portar via quei guanti, ma poi ebbe paura della collera di don Pio, e li ripose dove li aveva trovati; ma quel giorno stesso scrisse al Rosati pregandolo di passar da lei in serata.
La sera, prima donna Teresa era tornata in città dopo un lungo soggiorno a Perugia, e la nuora prima del pranzo andò nel quartiere della duchessa per consegnarle le gioie che aveva tenute in custodia durante la sua assenza. Mentre le due signore parlavano, la madre esaltando l’attività di don Pio, che aveva in così breve termine condotto a fine il teatro, la moglie biasimando le azioni del marito: entrò il principe con i guanti in mano.
— Credo, — diss’egli dandoli alla madre, — che ieri sera tu li abbia dimenticati in carrozza quando venni a prenderti alla ferrovia.
— Sono appunto un paio di guanti che stamane ho fatto tanto cercare alla cameriera, — disse la duchessa gittandoli in una coppa di Sassonia.
Donna Camilla fissava con rammarico quei guanti. Dunque Pio non dimenticava nulla di Maria, non avrebbe mai dimenticato nulla, non si sarebbe mai tradito?
La presenza della madre rendeva don Pio espansivo durante il pranzo, e quella sera, quando furono seduti a tavola, non rifiniva più di parlare. Pareva che a lei sentisse il bisogno di narrar tutto, e donna Camilla soffriva essendo certa che con lei non provava un bisogno uguale. Alla madre narrò che per sè nel nuovo teatro aveva riserbato la barcaccia di destra al parterre, e che per la Stampa aveva fatto preparare quella di fronte. Disse che tutti e due quei palchi avevano un salottino dietro per fumare, e che il teatro era riuscito elegante e carino quanto mai.
— Tu avvezzi male i tuoi redattori, — disse ridendo la duchessa, — li tratti da principe.
— E tratta le loro mogli meglio della principesse, — disse donna Camilla senza alzare gli occhi dal piatto.
Don Pio non rispose per non lasciarsi sfuggire di bocca l’offesa, e finse di non aver capita la maligna allusione.
Prendevano ancora il caffè, quando alla principessa fu recato in un vassoio d’argento il biglietto di Fabio.
— Fate entrare il signor Rosati nel mio salotto e ditegli che vengo subito, — ordinò la principessa.
— Tu ricevi i plebei come i principi, — disse don Pio sorridendo nel vederla alzarsi prontamente, senza neppur terminare il caffè.
— Ricevo chi mi pare e come mi pare, — rispose ella sgarbatamente, e fatto un cenno di testa alla suocera uscì.
— Come è nervosa Camilla; benedetti quei nervi! — disse la duchessa che aveva sempre preso la vita dal lato pratico e non sapeva che cosa fossero i tormenti dell’anima.
Il principe dette un’occhiata in giro alla sala e vedendo che i servi erano usciti, disse sottovoce alla madre:
— Non sai che vorrebbe farmi ingelosire del Rosati?
— Camilla è pazza; la gelosia, la rabbia la divorano. Ma ha forse ragione di esser gelosa? — domandò la duchessa al figlio con fare insinuante.
— Non ha purtroppo nessuna ragione. Maria è di una onestà rara, di una onestà antica e io non ottengo nulla da lei.
— È un miracolo, — sentenziò la duchessa. — Ma ancorchè Camilla non abbia ragione di esser gelosa, guardati da lei; ora che la rivedo dopo una lunga assenza noto che la sua fisonomia ha preso una espressione sinistra.
— Dunque ti pare anche imbruttita? — domandò il principe ridendo.
— Sì, prima era soltanto brutta, ora ha qualcosa di cattivo; guardati da lei.
Mentre madre e figlio così parlavano nella sala da pranzo, la principessa aveva messo sotto gli occhi di Fabio certi conti dell’Opera delle Madri Lattanti, ma non sapeva come fare a dirgli che sperava egli l’accompagnasse alla inaugurazione della “Fenice„. In quel momento in cui stava per chiedere un favore a un uomo, che non considerava suo eguale, che per il passato aveva sempre tenuto a distanza, tutto l’orgoglio di casta combatteva in lei una lotta tremenda e le parole le spiravano sulle labbra.
Fabio ebbe presto esaminati i conti e alzatosi dalla piccola scrivania della principessa, s’inchinò e le chiese se aveva altro da comandargli.
— Dica, Rosati, — domandò la principessa evitando di rispondere, — si fanno grandi preparativi per l’inaugurazione della “Fenice?„
— Immensi. A Roma tutti i fiori sono incettati per quella sera, e non si parla d’altro.
— Sarà contenta la signora Caruso di vedere la sua idea tradotta in opera con una prontezza favolosa?
— Non si può credere quanto la signora Maria sia felice. Ella assicura che il principe non poteva meglio spendere le sue ricchezze che facendo la carità di una consolazione artistica ai poveri.
— La signora Caruso deve aver conosciuta la miseria? — domandò la principessa.
— Pare che la miseria e la casa Rossetti fossero come i due fratelli Siamesi, e che soltanto la comparsa del Caruso in quella casa cacciasse la brutta ospite, — rispose Fabio.
— E allora la signora dovrebbe avere molta gratitudine per il marito?
— E l’ha infatti. Ella è una moglie modello e la sua volontà è sempre sottoposta a quella di Ubaldo.
La principessa fece udire un piccolo riso stridente e acuto.
— Io metto in dubbio tutta quella gratitudine e tutta quella sommissione.
C’è negli uomini un sentimento innato di cavalleria, che li spinge a difendere le donne quando le sentono accusare dalle rivali e a difendere specialmente le belle, quelle che danno per gli occhi un godimento al cuore e che tutti guardano con un segreto desiderio di possederle.
Quel sentimento spinse il Rosati a farsi il paladino di Maria.
— Ne è forse innamorato anche lei? — domandò la principessa con dispetto.
— No, — rispose egli sinceramente, — ma la giustizia mi fa parlare in favore della bella donna.
— Ci siamo troppo occupati di lei e non menta il conto di perdere il tempo, — disse la principessa accennando al Rosati una poltrona, — mi parli piuttosto del teatro e me lo descriva.
Il Rosati, che aveva in tasca un piano della “Fenice„ per farlo riprodurre in zincotipia e poi pubblicarlo nel giornale, lo mostrò alla principessa, e si trattenne a lungo a spiegarle com’era decorata la sala, com’erano i palchi, il foyer, i camerini degli artisti e le sale da fumo.
— E il loro palco com’è? — gli domandò la principessa.
— Non lo so; il principe ha dato ordine severo che nessuno vi sia ammesso prima della sera inaugurale, e io come gli altri sono rôso dalla curiosità.
— Lei assisterà alla festa?
— Anche se non volessi assistervi, non potrei. A me spetta di fare il resoconto della serata; io debbo essere al mio posto.
Donna Camilla stette un momento silenziosa guardando la pelle d’orso bianco su cui poggiava i piedi, e pareva che la domanda che si sentiva prima tant’ardimento di fare al Rosati non potesse pronunziarla.
— Se non ha niente da comandarmi, — disse Fabio, — io vado via perchè in famiglia mi aspettano; mio padre è ammalato.
— Senta, — gli disse la principessa alzandosi pure e fissandolo imperterrita negli occhi, — mi vuole accompagnare alla inaugurazione della “Fenice?„
La domanda era così strana che Fabio non seppe rispondere altro che un:
— Sono sempre ai suoi ordini.
— Allora venga a prendermi, passeremo dalla comunicazione interna, che c’è fra il palazzo e il teatro. Venga alle dieci.
Tutto questo fu detto in tono imperioso di comando, quasi ella volesse far capire al Rosati che si serviva di lui come ci si serve di un inferiore, di una persona che ha l’obbligo di ubbidire senza chiedere il perchè.
— Alle dieci verrò a prenderla, — rispose il Rosati sbalordito, inchinandosi.
— Buona sera, — dissegli la principessa e mentre sempre gli stendeva la mano, quella sera incrociò le braccia e chinò soltanto la testa per congedarlo.
— La principessa mi vuol far perdere il posto, — pensava Fabio turbato scendendo le scale.
Si trattava di cosa tanto delicata che egli non sapeva con chi sfogarsi, con chi consigliarsi. Capiva benissimo che egli in tutta quella faccenda non era che un istrumento di vendetta, ma se la principessa voleva compromettersi, perchè non sceglieva a complice uno dei suoi nobili parenti, un giovane del patriziato, perchè gettava gli occhi su di lui?
Gli venne il desiderio di darsi per malato, di scrivere scusandosi, ma come faceva a disertare il suo posto quella sera appunto in cui doveva tutto vedere, tutto osservare per iscrivere uno di quei racconti brillanti nei quali mancavano soltanto l’ortografia e la sintassi, che il Suardi aveva cura di aggiungervi prima di mandarli in tipografia?
Fabio era mezzo sbalordito da quel pensiero e tutti se ne accorsero quella sera alla Stampa. Il Suardi specialmente, che tanto volentieri non gli dava requie, lo burlava, assicurandolo che non aveva mai scritto con più spropositi. Il principe, giungendo, udì i motteggi cui era fatto segno Fabio, e squadrandolo gli disse in tono sarcastico:
— Caro Rosati, lei fa troppi mestieri a questo mondo; si contenti di fare il cronista della Stampa, e avrà la testa più a segno.
Quell’allusione che conteneva una tremenda offesa, annichilì Fabio.
Egli non ebbe il coraggio di fiatare e uscì dalla stanza di redazione per andarsi a rifugiare nella sala, non ancora popolata come dopo l’uscita dai teatri.
Il Rosati si gettò sopra una poltrona e rimase lungamente con gli occhi chiusi a pensare a quel fulmine, che gli cadeva sul capo, senza veder mezzo di schivarlo, e mentre era così sgomento e perplesso, sentì battersi sulla spalla e udì la dolce voce di Maria, che gli domandava con premura:
— È ammalato, signor Rosati, vuole che faccia qualche cosa per lei?
In quel momento Maria gli apparì come l’angiolo salvatore, come la sola persona che potesse consigliarlo.
— Non sono malato, non ho bisogno di nessuno, mi occorre soltanto di confidarmi con lei, di dirle quello che mi accade.
— Io sono pronta ad ascoltarlo, — diss’ella facendoselo sedere accanto, — e le prometto che farò quanto starà in me per darle un consiglio saggio.
Quelle parole pronunziate con schietto accento di simpatia consolarono Fabio, il quale narrò a Maria i pretesti addotti dalla principessa per indurlo a andare da lei, le domande che gli rivolgeva per sapere quello che facevano alla Stampa, le narrò tutto, senza allontanarsi mai dal vero, perchè infatti egli non aveva nulla da rimproverarsi. Non le disse però che quelle risposte evasive non erano state dettate da un sentimento di ritegno e di delicatezza, ma soltanto dal bisogno di condursi abilmente tenendo i piedi in due staffe, e per ultimo le narrò quello che esigeva donna Camilla da lui, e l’offesa lanciatagli poco prima dal principe.
— Che cosa debbo fare? mi consigli lei, mi consigli come consiglierebbe in un caso simile un fratello, un amico.
Maria, che leggeva chiaramente nella condotta della principessa, che capiva quanto fosse gelosa e quanto fosse sospettosa di lei, rimase un pezzo prima di rispondere. Non aveva fatto mai soffrire nessuno a questo mondo e le doleva, le doleva immensamente di avere, senza colpa, inconsciamente, esposto una donna alla torture della gelosia.
Dopo una lunga pausa, ella disse con voce strozzata dalla commozione:
— Il principe lo sospetta non di essere innamorato della principessa, nè di cedere a un sentimento, ma di commettere un’azione bassa. Me la lasci dire la brutta parola; lo sospetta di spionaggio. L’unico mezzo per riabilitarsi agli occhi di lui è di chiedergli un abboccamento stasera subito, e di dirgli francamente quello che vuole da lei la principessa; l’avrà questo coraggio? — domandò Maria volgendo su Fabio uno sguardo fermo e scrutatore.
— L’avrò, — egli rispose senza esitare.
In quel momento don Pio precedendo un gruppo di deputati amici entrava, discutendo, nella sala; nel veder Fabio seduto accanto a Maria e impegnato con lei in una conversazione seria, affrettò il passo per mettere una certa distanza fra sè e quelli che lo seguivano, e accostandosi a Maria le disse con tono sarcastico:
— Se vuol accettare un mio consiglio, non ascolti quello che le dice il Rosati; io credo che egli muova troppo la lingua.
Fabio impallidì, ma seppe dominarsi e sentendo fisso su di sè lo sguardo di Maria, ebbe la forza di dire:
— Eccellenza, ho bisogno di parlarle e se potesse ascoltarmi subito, mi farebbe un piacere.
— Credo che potremo rimettere anche a domani questo colloquio, — risposo freddamente don Pio.
— In la prego di ascoltarmi subito.
— Vadano in quel fumoir, — disse Maria per secondare il desiderio di Fabio, — e io starò seduta vicino alla porta e impedirò che sieno disturbati.
— Quando lei ordina. — disse il principe inchinandosi davanti a lei, — non si può far altro che ubbidire, — e si avviò per il primo, entrò nel fumoir e cambiando subito tono, disse, con fare di sprezzo, al Rosati:
— Sentiamo questa seccatura che ha da dirmi; — e accesa una sigaretta si mise a cavalcioni di una poltroncina guardando il Rosati, che non osò neppure sedersi.
— Eccellenza, — disse Fabio con voce tremante, — io vengo a compiere di fronte a lei una missione delicata. La principessa è gelosa, gelosissima e mi ha invitato ad accompagnarla alla inaugurazione del teatro.
— Spero che lei si sarà mostrato cortese e non avrà rifiutato l’onore che la principessa le faceva, sciogliendolo a suo cavaliere?
— Non scherzi, Eccellenza, — disse Fabio in tono supplichevole, — io temo che la principessa sia trascinata dalla gelosia, non ragioni più e voglia commettere uno scandalo, che farebbe parlare tutta Roma.
Pensi quanto ne soffrirebbe la signora Caruso....
Fabio, nel pronunziare quel nome capì come erano arrischiate le sue parole e non osò aggiungere altro.
Il principe riflettè per un momento, e poi alzandosi si mise a camminare in su e in giù per la stanza; pareva che non sapesse egli stesso quel che risolvere. A un certo momento si fermò in faccia a Fabio, e dissegli:
— La ringrazio di avermi avvertito; ma esaminando la sua coscienza, non si sente punto colpevole di aver fomentato la gelosia della principessa?
— No, — rispose francamente Fabio. — Io non sono mai andato dalla principessa se non invitato da lei; ho evitato molte domande suggestive, e quando ho parlato, mi sono sempre guardato dall’attizzare la gelosia da cui mi accorgevo che era ròsa. Se non crede a me la interroghi.
Don Pio riprese a passeggiare nella stanza, e fermandosi poi a un tratto dinanzi a Fabio, gli disse:
— Saprò fare in modo che la principessa sia accompagnata alla inaugurazione da altri che da lei; non le dica nulla di questo nostro abboccamento, e sia sincero con me, assolutamente sincero, se tiene a risparmiarmi delle noie.
Quando essi uscirono dal fumoir, trovarono Maria, come una sentinella, sulla porta. Era pallida e guardava ora Fabio ora il principe per leggere sui loro volti il risultato dell’abboccamento.
Fabio le rivolse uno sguardo riconoscente e si affrettò a tornare in redazione, dove erano i suoi colleghi, e il principe rimase muto di fronte a Maria.
— Il Rosati le ha detto tutto? — le domandò con voce appena intelligibile.
— Sì.
Una lunga e penosissima pausa tenne dietro a questa risposta; Maria era profondamente turbata; il principe tremante, agitato, più che mai desideroso di lei, non sapeva come rompere il silenzio.
— Non voglio che alcuno soffra per me — diss’ella guardando il principe mestamente, — e non posso permettere che mi si giudichi colpevole. La prego dunque di non occuparsi più punto di me, di dimenticarmi, e io, senza precipitazione, senza dar nell’occhio, saprò far cessare tutti i tormenti e tutti i sospetti.
Ella parlava lentamente, pesando le parole prima di pronunziarle, con una serietà, che rivelava la persona assuefatta alle persecuzioni della sorte, assuefatta a non sgomentarsi delle sventure, sentendosi sorretta dall’illibatezza della sua coscienza e del suo pensiero.
— Maria, — le disse il principe con voce concitata, — non parli di allontanarsi, non ammetta neppure che io possa dimenticarla, non sacrifichi me per soddisfare il capriccio geloso di una donna, che non mi ama, che non mi ha mai amato, e che fin qui ha tollerato senza affliggersene la mia indifferenza e la mia trascuratezza; non mi tolga tutte le gioie che provo a vederla. Non mi tolga la speranza che un giorno si lascierà intenerire dal mio amore e mi amerà. Tutte le donne mi sono divenute indifferenti, mi pare che lei sola sia la donna capace di rendermi felice. Lei è il movente di tutte le mie azioni, lo scopo di tutti i miei pensieri, la mia ambizione, la mia consolazione: non mi lasci, non mi abbandoni!
Maria non ebbe campo di togliere a don Pio ogni speranza. L’on. Carrani si avanzava verso di lei sorridente. Egli era tornato quel giorno stesso dopo un viaggio in Romagna e recava liete novelle. Il paese era scontento del Governo e non aveva nessuna fiducia negli uomini che erano al potere. I deputati delle regioni visitate dall’on. Carrani, erano pronti a mettere, alla prima discussione, il Presidente del Consiglio nella necessità di chiedere alla Camera un voto di fiducia. La Camera, dai calcoli fatti, o negava il voto o lo dava a scarsissima maggioranza; una crisi era inevitabile e il vecchio Presidente del Consiglio non poteva negare dei portafogli agli uomini del loro partito. Ormai si trattava di giorni, e quei giorni dovevano essere abilmente sfruttati dalla Stampa con attacchi abili contro il ministro di Grazia e Giustizia e contro quello della Marina, gli uomini più moderati del Gabinetto e per questo più invisi ai progressisti. Il primo doveva essere attaccato per la tolleranza illegale di cui dava prova lasciando che gli ordini religiosi acquistassero sempre maggiori affigliati, lasciando che, nonostante la legge che proibisce i conventi, questi si popolassero di continuo ai nuovi frati e di nuove monache; quello della Marina doveva essere attaccato nel sistema di costruzioni navali che aveva adottato; bisognava dimostrare che le grandi navi già varate e quelle che erano sui cantieri assorbivano somme enormi e che erano insufficienti a difendere le coste italiane.
— Intendetevi con Ubaldo; — disse il principe che non seguiva per nulla il Carrani nella sua esposizione, — egli è di là che scrive e lo troverete subito.
L’on. Carrani non capì che il principe lo voleva allontanare e si diede a insistere sulla necessità di trovare un tecnico per attaccare il ministro della Marina.
— Ne conosco uno, un ex-ufficiale, eccovi un biglietto per lui, fatelo cercare, — e scritto in fretta due parole col lapis su una carta da visita, la consegnò al Carrani.
Maria si era allontanata dal principe e presa la Nouvelle Revue, che era posata su un tavolino, si era messa a leggerla attentamente.
— Che cosa mi risponde, che speranze mi dà? — le domandò il principe appoggiandosi alla spalliera della poltrona su cui ella era seduta, e sfiorandole quasi con la bocca i capelli.
— Non ho altro che una preghiera da rivolgerle, — disse Maria senza togliere gli occhi dal libro. — La prego di dimenticarmi e di riportare sulla donna che soffre, sulla donna che ha diritto di essere consolata, il suo pensiero e il suo affetto.
— Questa non è una risposta, — disse il principe, — io domando di essere consolato ed ella aggrava la mia afflizione rammentandomi dei doveri incresciosi.
— Allora, — disse Maria alzandosi, — io non le parlerò più dei doveri suoi; le parlerò di me, della mia tranquillità, del rispetto cui ho diritto, e che ho saputo meritarmi a prezzo di grandi sacrifizi.
Allora le dirò che voglio non si occupi più di me.
— È impossibile, — disse il principe.
— Quello che pare a lei impossibile, lo renderò possibile io, allontanandomi.
— E suo marito?
— Mio marito ignorerà tutto; io saprò trovare dei pretesti per lasciar Roma, senza turbare la sua pace, che mi è cara, senza porre ostacoli alla sua operosità.
— Maria, la supplico in ginocchio di non mandare ad effetto la sua minaccia; Maria, rimanga; Maria, non mi privi della consolazione che mi viene da lei!
— Come vuole che io rimanga, che non abbandoni il posto, perseguitata dall’amore suo come sono, e dalla gelosia di una donna?
Il Carrani tornava insieme col Caruso, combinando l’attacco contro il ministro di Grazia e Giustizia.
— Bisogna fare una specie di statistica, domani subito, dei conventi che son sorti qui a Roma dopo che è stata applicata la legge della soppressione delle corporazioni religiose, — diceva avvicinandosi sempre più al principe, — e poi continuare quella statistica a Firenze, a Napoli, a Milano, e su quella incominciare l’attacco. Avete un redattore che possa prendere qui informazioni precise?
— Sì, il Rosati, — rispose Caruso, e premendo il bottone di un campanello ordinò a un usciere di chiamare Fabio.
Don Pio era rimasto in faccia a Maria, senza parlare, e la guardava fisso sperando sempre che ella pronunziasse una parola che lo autorizzasse a sperare.
Intanto che aspettavano il Rosati, il quale era sceso in tipografia a fare alcune correzioni, don Pio disse al Caruso:
— Dicevo appunto alla sua signora che mi pareva stanca e sofferente e le proponevo di accompagnarla a casa.
— Sì, Maria ha un aspetto insolito stasera. Va a riposarti e se il principe è così amabile di accompagnarti, approfitta della sua offerta; io non posso muovermi ancora.
Maria non seppe che rispondere e poi desiderava un’ultima spiegazione col principe, sperava d’indurlo a rinunciare a lei.
— Sono pronta, — disse dopo aver data la buona sera all’on. Carrani e al marito. Ella scese sollecita le scale della redazione per evitare di appoggiarsi al braccio di don Pio, che la seguiva.
Neppure per la strada si appoggiò a lui e quando furono a una certa distanza dalla Stampa, ella si fermò risolutamente e gli disse:
— Prima di risolvermi a lasciare Roma, ad abbandonare la casa dove ho vissuto felice, ad abbandonare mio marito in preda a sè stesso, a rinunziare a questa esistenza agiata e tranquilla che mi è parsa il paradiso in terra, dopo tanti tormenti che ella ignora, io la supplico, se è vero che ha un poco d’affetto per me, di rinunciare a delle speranze che, io viva, io consciente, non appagherò mai. Si sente la forza di fare questa promessa?
— Purchè rimanga, purchè io la veda, prometto tutto, avrò tutti gli eroismi.
— Badi, conto sulla sua parola più che su quella di un altro, perchè ella, per la sua nascita, ha maggior obbligo di mantenerla scrupolosamente.
Don Pio non parlava più. Abbattuto, con l’andatura stanca egli camminava accanto a Maria. Senza scambiare una parola giunsero al portone di casa, che Maria aprì con la chiave.
— Vuole che l’accompagni fin su? — domandò don Pio.
— Grazie, — risposo ella che non aveva piena fiducia nella promessa del principe, — ho i cerini.
Si strinsero la mano in silenzio e don Pio portò alle labbra le dita di Maria e gliele baciò ripetutamente. Ella si tirò indietro e chiuse il portone senza permettere a don Pio di entrare nell’ingresso buio, e salì le scale turbata, ansante, e solo quando fu nella quiete della sua camera e vide il suo bambino, che dormiva tranquillo, si sentì al sicuro.
— Ora che credevo fosse terminata la vita precaria, angustiata, miserabile, ora dovremo ricominciare i pellegrinaggi, gli stenti, i sacrifizi! Così non può durare, — diceva Maria a sè stessa ripensando alla sua situazione. — Ubaldo dovrà lasciare il posto, saremo poveri ancora, — e un sospiro angoscioso le sollevava il petto.
Mentre ella fantasticava pensando al mezzo di uscire da quella difficile situazione con minor danno possibile per il marito, don Pio, sotto il grande baldacchino di stoffa stemmata provava il pentimento per la promessa fatta e calmava la sua coscienza, poco scrupolosa, ripetendo a sè stesso che i giuramenti d’amore hanno un valore relativo, e che nessuno è obbligato a tenerli. Questo ei diceva alla sua fantasia infiammata per non privarla di una speranza, questo ei diceva ai suoi sensi eccitati, questo diceva a tutto l’esser suo che non aveva altro desiderio se non quello di possedere Maria. Non potendo dormire, don Pio si alzò verso le quattro e si pose a fumare per la camera cercando di stancarsi, affinchè gli riuscisse più facile di prender sonno; ma gli occhi restarono smisuratamente aperti, il corpo pareva non volesse il riposo e davanti a sè vedeva sempre Maria, che lo guardava affascinandolo con i suoi grandi occhi chiari, col suo sorriso fresco di bambina, con quel profumo soave di onestà che emanava da tutta la bella persona.
— Io l’avrò, l’avrò quella donna! — esclamò don Pio, — e voglio che sia mia in quel teatro che ho costruito per ubbidire a un capriccio di lei.
Calmato da questa promessa, che faceva a sè stesso, si diede a pensare al modo di mantenerla, e trovatolo si coricò di nuovo e dormì fino a ora tarda, di quel sonno tranquillo che è falso dire sia riserbato soltanto ai giusti, mentre Maria non riuscì a prender sonno, Maria che aveva la coscienza pura e non voleva altro che il bene.