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Prima cura di don Pio nel destarsi fu quella di scrivere a suo cognato di pranzare quella sera con loro dovendogli parlare, e dopo essersi vestito andò al teatro per vedere se aveano terminato di mettere gli apparecchi per la luce elettrica. La “Fenice„ era il primo edifizio di Roma che fosse illuminato con quel sistema, e per quella novità era [p. 174 modifica]occorso un ingegnere venuto da Berlino, e spese, spese da non dirsi.

Mancava ancora molto, prima che tutto fosse terminato, ma il principe disse che quella sera stessa voleva si facesse la prova della luce elettrica, e per appagare quel capriccio di lui si raddoppiarono gli operai, si raddoppiarono le forze, e gli fu formalmente promesso che alle dieci avrebbe veduto il teatro illuminato.

Il principe dette ancora degli ordini, girò per i palchi, dove i tappezzieri lavoravano ancora, e si fece consegnare la chiave della barcaccia destinata alla Stampa e che aveva a fianco il salottino per Maria. Quel salottino aveva una finestra sulla strada e anche di giorno era un modello di eleganza.

Piccolo, col soffitto a stucco lievemente filettato d’oro e di azzurro, aveva le pareti ricoperte di una stoffa celeste a piccoli fiori di un bianco perlaceo. Sul pavimento di marmo era gettato un grande tappeto persiano di una tinta mite, e gli angoli erano occupati da quattro cantoniere a cristalli di legno verniciato di bianco, oro e azzurro, che insieme con il canapè, le sedie, la consolle, le porte guarnite di cristalli e le appliques dovevano aver servito ad addobbare il salotto di una [p. 175 modifica]signora del diciottesimo secolo. Nelle cantoniere, sui mobili era tutta una profusione di gruppi di biscuit di Capodimonte, di porcellane di Delft e di Sèvres, di bronzi, di miniature, di ninnoli rari e preziosi, mentre dalle pareti pendevano due Greuze autentici, due quadretti che non avevano prezzo.

La sola cosa moderna che si vedesse in quel salottino, così fedele a un’epoca sparita per sempre, era un largo divano su cui era gettata una pelle d’orso bianco, una pelle di un candore e di una morbidezza tali da ricondurre la mente alle regioni polari, alle nevi immacolate.

Don Pio osservò tutto minutamente, ebbe cura di guardare se nella parte inferiore delle cantoniere erano collocati i servizi da thè e da liquori, se vi era il ramino d’argento, se quei mobili erano forniti di quanto può occorrere a una signora per improvvisare un piccolo ricevimento a pochi amici, e poi sedutosi sulla pelle di un bianco immacolato, sognò voluttà tali che lo facevano fremere e davano le vertigini a lui, per il quale la vita del piacere non aveva misteri.

Snervato da quello sforzo della immaginazione, don Pio uscì mettendosi in tasca la chiave di quel salottino, e andò girellando da [p. 176 modifica]un punto a un altro della città senza scopo, e finì per ridursi nel suo salotto ad aspettare il pranzo, a pensare a quella sera in cui la febbre che lo divorava doveva alfine essere calmata dal bacio della bella creatura. Tutto sperava da quella sera: sperava che Maria, dopo una così lunga resistenza, dopo un fatto compiuto, incancellabile, si sarebbe affezionata a lui con quell’abbandono che provano molte donne quando la loro resistenza è stata vinta violentemente, sperava una continuità di godimenti, un rinnovellamento non interrotto di profonde sensazioni, sperava che anche Maria sarebbe stata felice e prometteva di fare quanto gli permettevano la sua posizione e le sue ricchezze per mantenere quel legame in una sfera scevra di volgarità.

Alla donna gelosa, che avrebbe con mille insidie, con mille astuzie cercato di amareggiare la felicità che chiedeva a un’altra che a lei, e neppure alla donna contaminata, perseguitato da quella frenesia non pensava. Pensava a sè, a sè soltanto, ai suoi godimenti, alla sua soddisfazione, perchè al mondo egli era assuefatto a non vedere che sè.

L’arrivo del cognato, annunziatogli da Giorgio, lo trasse dai suoi pensieri e gli rammentò che era tempo di vestirsi per il pranzo. Fatto [p. 177 modifica]entrare don Alberto Grimaldi nel suo spogliatoio, gli disse in brevi parole quello che voleva da lui.

— Io sarò molto occupato la sera della inaugurazione del teatro, dovrò ricevere, mi dovresti fare il piacere di accompagnare Camilla?

Don Alberto non si mostrò gran che entusiasta di far da cavaliere alla sorella, ma accettò, e i due cognati entrarono insieme nella sala da pranzo dove la duchessa discuteva con l’Onorati rispetto al luogo di nascita del famoso cardinale Urbani, e donna Camilla leggeva l’Osservatore Romano.

— Como mai sei qui? — diss’ella al fratello.

— Ho pensato che tu desideri di venire all’inaugurazione della Fenice e ho invitato Alberto a pranzare con noi per pregarlo di accompagnarti.

Donna Camilla, sempre sospettosa, non seppe rallegrarsi di quella insolita attenzione del marito, e rivolse su di lui uno sguardo interrogativo, ma non riuscì a leggergli nulla sul volto impassibile; peraltro dubitò che il Rosati avesse parlato e disse:

— Mi ero già scelto un cavaliere, ma naturalmente, se tu mi accompagni, Alberto, io ti preferisco a qualunque altro. [p. 178 modifica]

— Non credevo che tu avessi dei cavalieri serventi? — osservò don Pio.

— Dal momento che tu preferisci farlo a tutte le signore, meno che a me, io mi rassegno, e scelgo chi gode volentieri della mia compagnia.

— “Tout est pour le mieux dans le meilleur des mondes!„ — sentenziò il principe ridendo.

Quella sera egli non sapeva altro che ridere, voleva esser di buon umore, voleva esilararsi. Don Pio ciarlò molto più del consueto, discusse con l’Onorati, narrò aneddoti, scenette e rese loquace anche don Alberto, che aveva lo stesso carattere freddo e noioso della sorella. E intanto che parlava beveva molti bicchierini di Tokay, il solo vino che meritasse il titolo nobiliare di nettare, come egli diceva scherzando.

Appena terminato il pranzo propose alla madre e alla moglie di andare al Costanzi dove si dava l’Excelsior, e fatto attaccare il landau trascinò seco Alberto al grande teatro della Roma nuova. Dopo esser rimasto un poco nel palco, prese il cappello e disse di andare a far delle visite, e poi sul palcoscenico per parlare con l’impresario, e uscì. Si fece vedere infatti per un momento nel palco [p. 179 modifica]della moglie di un segretario dell’ambasciata inglese, e poi l’occhio indagatore di donna Camilla non riuscì a scorgerlo più nella vasta sala del teatro.

Infatti, don Pio era andato via, e salito in botte si era fatto condurre alla Stampa. Nel salone c’era Maria, che parlava con Adriana Mariani.

Maria pallida, ma calma, composta e sorridente come al solito, quando vide il principe sussultò lievemente e gli stese la mano con la usata cordialità. —

— Siete divenuto il Prince charmant, — disse Adriana col suo torte accento francese, strisciando le esse e pronunziando l’erre in gola. — Non a Roma soltanto, ma anche a Parigi si parla delle meraviglie che create. Guardate che cosa dice il Gil-Blas del vostro teatro!

Ella porse al principe il giornale del Boulevard. Don Pio lesse, e man mano che andava avanti sorrideva di compiacenza. Quando ebbe terminato l’entrefilet, che conteneva una lode grandissima per la “Fenice„ e per la sua munificenza, disse, rivolto alle due signore:

— Per far sempre la parte che mi si attribuisce, vi propongo di venir subito a vedere il teatro, così giudicherete se gli elogi che [p. 180 modifica]se ne fanno anche a Parigi, sono esagerati.

— Andiamo, andiamo, — disse la piccola francese, sempre lieta quando le si offriva qualcosa d’inatteso e di nuovo.

— Un momento, — rispose il principe, ed allontanatosi tornò in compagnia del Rosati, del Suardi e di due altri redattori della Stampa.

— Ora sono agli ordini delle signore.

Maria e Adriana Mariani s’incamminarono lentamente conversando fra loro; il principe e gli altri le seguivano pure parlando, e, traversato un corridoio, che dall’ingresso del giornale metteva direttamente nel buffet della “Fenice,„ si fermarono vedendo che tutto era all’oscuro. Il principe accese i cerini e offrì il braccio a Maria; il Suardi prese famigliarmente per la mano Adriana e gli altri si davano molto da fare per rischiarare il sentiero alle due coppie.

Quando furono giunti alla porta che dai corridoi laterali metteva nel centro della platea, il principe pregò di aspettarlo un momento, e lasciata Maria si avviò solo giù per una scala, che metteva alla stanza dov’era collocato il generatore della elettricità, e dove aveva dato ordine all’ingegnere e agli operai di attenderlo. [p. 181 modifica]

— È tutto pronto? — domandò.

— Tutto, — gli fu risposto.

— Allora fra cinque minuti che il teatro sia tutto illuminato, — e senza informarsi d’altro, senza aggiungere altro risalì per raggiungere il resto della comitiva.

— Si può fare a mosca cieca per ammazzare il tempo, — diceva il Suardi.

— Pazienza! — gridò il principe da lontano. — L’oracolo mi ha detto che fra meno di cinque minuti il miracolo si compirà e quando si pronunzieranno le solenni parole: Fiat lux, la luce si farà.

— Speriamolo, — rispose il Suardi. — Per ora è buio pesto, e in questo stato di cose non mi accorgo della differenza che passa fra il volto della signora Maria e quello del mio amico Sbarbati.

Era quello il soprannome affibbiato dal Suardi al Rosati e col quale gli rammentava continuamente che i baffi non volevano spuntargli.

— Qui potrei passare anche per barbuto come te, — rispose bonariamente Fabio.

Fiat lux, — disse il principe vedendo il filo delle piccole lampade elettriche, che incominciava a farsi incandescente.

Un istante dopo un’onda di luce siderea, [p. 182 modifica]di luce fredda illuminava da cima a fondo la sala del teatro mettendo in rilievo le dorature, gli stucchi, gli affreschi della vôlta, le stoffe delle drapperie, il ricco telone, tutta quella profusione di ornamenti, tutta quella ricchezza che dava alla sala l’aspetto di un luogo incantato.

— Evviva il Prince charmant! — gridò Adriana battendo le mani.

— Evviva l’autore del teatro! — gridò il Suardi.

Gli evviva non finivano più. Soltanto Maria rimaneva muta, pareva abbagliata da tutta quella luce, da tutta quella ricchezza; rimaneva muta perchè il cuore le diceva che un uomo che fa tutto quello per appagare il desiderio di una donna, non si rassegna a rinunziare a lei, non può rassegnarsi a non cercare con ogni mezzo di conseguire il premio che ha sperato.

— Non le piace? — domandò don Pio a Maria, sentendosi offeso da quella freddezza.

— Sono sbalordita, — rispose ella chinando a terra lo sguardo per trovare un punto meno splendente ove posarlo.

Intanto l’ingegnere era salito per domandare al principe se era contento della illuminazione. [p. 183 modifica]

— Contentissimo, — rispose egli.

Adriana, che era molto curiosa di capir subito tutti i nuovi ritrovati per poi parlarne ai non iniziati e sbalordirli con la sua erudizione, incominciò a rivolgere molto domande all’ingegnere sul come si generava e si trasmetteva la luce, sulla diversità delle lampade, e l’ingegnere le rispondeva con molta precisione, nel suo cattivo francese; intanto il principe guidava gli altri nella visita del teatro e salivano e scendevano a caso.

Il Rosati, che sapeva benissimo il desiderio del principe di rimanere a parlare con Maria, fece in modo da condurre i compagni sul palcoscenico; Adriana si fermò a guardare l’addobbo dei palchi mettendo il naso per tutto senza cessare di rivolgere interrogazioni al suo compagno, e il principe, accorgendosi di non esser seguito, condusse Maria nel suo palco della Stampa. Ella era così stanca, così abbagliata da tutta quella ricchezza che la schiacciava, da quel tributo grandioso resole da don Pio, che non aveva più forza, e si lasciò cadere spossata sopra un divano non supponendo che alcun pericolo la minacciasse, e convinta che Adriana, che vedeva in un palco poco distante, l’avrebbe presto raggiunta. [p. 184 modifica]

— Come è abbattuta, come è malata, povera Maria, — le disse don Pio, — mi permette che le prepari una tazza di thè?

— Faccia quello che vuole, — rispose Maria senza moversi e senza neppur seguire con lo sguardo il principe, che apriva la porta del salottino, e tolto il bricco d’argento da una cantoniera vi accendeva sotto lo spirito.

Il principe tornò subito presso Maria e le disse:

— Quel salottino era destinato a lei; con ogni cura glielo avevo preparato. Nessuna regina ne ha uno simile in un teatro del mondo; non vuol neppur degnarsi di guardarlo?

Il tono con cui don Pio parlavale era così umile, egli pareva così rassegnato a rinunziare ad amarla, così afflitto, che ella non seppe negargli quel favore domandato tanto supplichevolmente, e alzatasi mise il piede nel santuario che era stato creato per lei. Appena l’occhio di Maria si volse in giro fu dolcemente impressionato dalla perfetta armonia di stile e di tinte che regnava nel salottino, e il suo istinto d’artista si destò, l’occhio perdè l’abbattimento che dava a tutta la fisonomia un’espressione di languore, ed [p. 185 modifica]ella prese a guardare, ad ammirare le stoffe, i quadri, i mobili e le porcellane.

Mentre ella aveva voltato le spalle alla porta, don Pio sfilò la chiave dalla parte esterna, chiuse dal lato interno e si mise prontamente la chiave in tasca.

Nel voltarsi per domandargli che cosa rappresentava un gruppo di Capodimonte, Maria si accorse che dal viso di don Pio era scomparsa l’espressione umile e supplichevole, che gli occhi gli brillavano di cupidigia, e sulle labbra aveva un sorriso cinico.

Allora capì tutto, capì il tranello, capì che era prigioniera, che bisognava lottare, e, correndo alla porta, la scosse per aprirla, ma la porta resistè.

Fiera e sdegnosa si piantò allora in faccia a don Pio e squadrandolo gli disse:

— Se è un uomo d’onore, si rammenti della promessa che mi ha fatto.

— Non so quello che sono in questo momento; so che qui siamo soli e che ti amo come un pazzo e che sarai mia.

— Viva mai! — rispose Maria senza levar gli occhi da quelli del principe.

— Vedremo, — rispose egli, e afferratala per un braccio cercò di gettarla distesa sul lettuccio coperto dalla nivea pelle d’orso. Ma [p. 186 modifica]ella, con una forza raddoppiata dalla disperazione, si svincolò dalla stretta di lui e incominciò a correre per la stanza, rovesciando mobili affinchè le servissero di barriera, schivando le mani avide che si stendevano di continuo per abbrancarla, respingendo quella bocca protesa per cogliere un bacio sul suo volto. In quella lotta il ramino si rovesciò, lo spirito corse come un rivo di fuoco sul tappeto e la fiamma, appiccatasi a un tratto alla cortina di seta che copriva la porta, salì in un lampo fino alla vôlta.

Don Pio si fermò spaventato, e Maria profittando della confusione, spalancò la finestra, e senza pensare al pericolo cui andava incontro, senza pensare ad altro che quella finestra la salvava dall’onta, la salvava dalla macchia che le faceva più orrore della morte, spiccò un salto e cadde come morta sul selciato della strada.

Due persone, che passavano in quel momento dal lato opposto del marciapiede videro volare quel corpo, udirono il tonfo e accorsero a sollevarla, ma prima che avessero tempo di far commenti sul fatto, videro un gran chiarore e delle lingue di fuoco che s’erano aperto un varco attraverso la finestra spalancata, e crederono che Maria si fosse [p. 187 modifica]gettata di sotto per non morire bruciata. Altri passanti sopraggiunsero, e fra quelli un tipografo della Stampa, che riconobbe Maria, e corse al giornale ad avvertire che il teatro era in fiamme e che la signora Caruso, sgomenta, si era gettata dalla finestra.

Don Pio, scottandosi le mani, bruciandosi i capelli e il volto era riuscito a toglier la chiave di tasca, ad aprire la porta e a fuggire per il teatro chiedendo aiuto, gridando come un pazzo. Ma le fiamme, le fiamme alimentate dal vento, che penetrava dalla finestra spalancata, correvano anch’esse con marcia trionfale dal palco della Stampa su verso i palchi superiori, sul palco scenico, e prima che il Rosati, il Suardi e Adriana se ne fossero accorti, avevano già avvinto nelle loro immense spire infuocate tutta la sala del teatro.

Nel veder fuggire don Pio solo, don Pio che pareva una bestia inseguita, tutti si diedero a rincorrerlo, domandandogli con alte grida:

— E Maria? Dov’è Maria?

Ma egli non si fermava; correva sempre, correva precipitosamente finchè non cadde nell’ingresso del giornale, dove in quel momento trasportavano Maria priva di sensi. [p. 188 modifica]

Fra tutta quella gente, che si affollava a prestar cure alla signora Caruso e al principe della Marsiliana, e che si faceva sempre più numerosa per il sopraggiungere degli operai della tipografia e dei passanti, che entravano liberamente nell’androne della Stampa, non vi fu nessuno che in sulle prime pensasse ad avvertire i pompieri.

Tutte le teste si protendevano per vedere la bella donna stesa esanime sopra un materassino, tolto alla camera del portinaio, e per veder don Pio con gli occhi chiusi, i baffi e i capelli bruciati, seduto sopra una sedia, senza dar segno di vita. Fabio Rosati fu il primo che riacquistasse il sangue freddo, e dopo aver domandato se i vigili erano giunti, si staccò dal fianco del principe per andare al telefono ad avvertire tutte le stazioni dei pompieri. La sua voce echeggiava sinistramente in quel silenzio sepolcrale, e quelle parole di “aiuto, soccorso„ che egli ripeteva continuamente facevano rabbrividire quanti le udivano, perchè quelle due vittime, che giacevano lì inanimate, erano le prime, ma non le ultime, che poteva fare l’incendio.

Un medico trovandosi a passare per caso, entrò e, fattosi largo fra la folla si avvicinò a Maria, le mise l’orecchio sul cuore e or[p. 189 modifica]dinò che fosse adagiata in una carrozza e condotta a casa. Ubaldo, che le era stato fino a quel momento inginocchiato accanto, la prese fra le braccia e passò in mezzo alla gente raccogliendo le parole di commiserazione che la vista di quella bella creatura strappava a tutti.

— Poverina! Pare morta! — diceva la gente cercando di farsi strada fra la folla per accompagnarla.

Il medico voleva seguire Maria, ma il Rosati lo trattenne e lo condusse accanto al principe, che era tuttavia privo di sensi e pareva mummificato.

— Trovami un chirurgo, subito, per carità, — aveva detto Ubaldo al Suardi il quale avevalo aiutato a adagiare Maria nella carrozza. E il Suardi era andato correndo in due o tre farmacie e poco dopo giungeva a casa di Ubaldo insieme con un chirurgo, il quale spogliata la ferita trovò che aveva una gamba rotta e non nascose che il caso era complicato da una forte commozione cerebrale.

Il bambino di Maria, il piccolo Mario, s’era destato all’improvviso udendo delle voci in camera, e seduto sul letto piangeva chiamando la mamma e irritandosi perchè non otteneva risposta da lei. Una folla di gente [p. 190 modifica]composta della portinaia, dei pigionali, di curiosi, empiva la stanza, e il bel corpo abbandonato era profanato dagli sguardi di tutti.

Senza che Maria riacquistasse i sensi le fu fatta la fasciatura della gamba. I begli occhi restavano chiusi, tumefatti, circondati di nero, e dalle labbra coperte di bava usciva un lamento continuo straziante.

Il chirurgo aveva pensato a spogliare Maria per assicurarsi che non vi erano altre fratture, le aveva tolto di testa il cappello, ma nessuno aveva pensato a levarle i lunghi guanti, che le giungevano fino al gomito, nè la sciarpa che le avvolgeva il collo.

Adriana, accorse anche lei a casa dell’amica e vedendola così sconciamente esposta agli sguardi di tutti, fece uscire di camera gli estranei, le tolse i guanti, la sciarpa, la coprì, raccolse le vesti e si dette a vegliarla.

Ubaldo non capiva nulla, pareva pazzo; non vedova nulla altro che quella povera donna che credeva dovesse spirare a un tratto.

Egli non aveva mai pensato che Maria potesse morire, nè l’aveva mai veduta ammalata, e ora che ella giaceva inerte, quasi morta, sentiva come quella dolce creatura [p. 191 modifica]con la sua bontà, la sua sommissione, la sua dolcezza, le fosse divenuta cara, indispensabile; e rimpiangeva gli anni trascorsi lontano da lei in una abbietta dimenticanza, come i più tristi della sua esistenza.

— Maria! Maria mia! — egli diceva di continuo fissandola, toccandola, scotendola.

Tutta la notte Adriana, il medico e Ubaldo vegliarono Maria e ogni momento giungevano il Suardi o Fabio Rosati a domandar notizie di lei, e portavano ragguagli desolanti sui progressi dell’incendio. I pompieri lavorando faticosamente, aiutati dai soldati, non potevano tentar altro che d’isolare il palazzo Urbani e la casa della Stampa dal teatro in fiamme; tutto era perduto, perduto irremissibilmente, e il principe, che aveva ripresi i sensi, si aggirava come un pazzo pel cortile, nelle vie che circondavano il palazzo e il teatro, asserragliate dai cordoni di militari, e guardava istupidito quelle braccia operose, che cercavano di salvare almeno i tesori artistici della sua famiglia, e la sede del suo giornale.

Quando il Rosati gli aveva detto che Maria, per isfuggire un pericolo ne aveva affrontato un altro, e che ora era quasi morente, egli lo aveva guardato senza dar segno [p. 192 modifica]di commozione, senza rivolgergli nessuna domanda.

A giorno, quando la luce pallida di una piovosa giornata di novembre aveva illuminate le rovine del teatro, da cui si sprigionavano ancora buffi di fumo nerastro, e che don Pio aveva veduto invece dell’elegante edifizio, che il giorno prima era il suo orgoglio, un ammasso di travature rose dal fuoco, di materiali anneriti dal fumo, di statue mutilate e insozzate dal fango, s’era messo le mani agli occhi ed era corso a rifugiarsi in camera sua, dove Giorgio, che lo aspettava, avevalo messo a letto.

La duchessa e donna Camilla, che avevano passato la notte trepidanti, appena saputo che il principe era tornato, si affrettarono ad andare da lui, ma don Pio teneva gli occhi chiusi, non rispondeva, e pareva volesse isolarsi da ogni persona, da ogni pensiero che non fosse quello della sventura che colpivalo.

Anch’egli fu curato, ma il medico assicurava che le scottature non erano gravi, e attribuiva specialmente a una violenta commozione dell’animo lo stato di abbattimento in cui trovavasi il principe.

— Ma come si è sviluppato l’incendio? — [p. 193 modifica]domandava la principessa con insistenza al Rosati e al Suardi, che andavano ogni momento fino nel salotto di don Pio a chieder notizie.

Nessuno lo sapeva, nessuno poteva spiegarglielo ed ella supponeva che le nascondessero un mistero, perchè il ragionamento dicevale che una prova di luce elettrica non può mettere in fiamme un teatro.

Quando le dissero che la signora Caruso era ferita, gravemente ferita per essersi gettata da una finestra, un sospetto le balenò nella mente e più che mai fiutò un mistero in quell’appiccarsi improvviso del fuoco, e promise a se stessa di non allontanarsi un momento dalla camera di suo marito, finchè quel mistero non fosse nelle sue mani, finchè ella non si fosse vendicata.

Non sapeva bene contro chi avrebbe tratta quella vendetta; il marito era annientato, Maria era morente, ma nonostante, il suo cuore arido si rallegrava al pensiero della vendetta.