Idillii spezzati/La stria
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La Stria
Alla Marchesa Angelina Lampertico Mangilli.
Casa Ferretto, un palazzone alquanto malandato del cinquecento, ritto, come un capo burbanzoso di miserabili tribù, a cento passi dal suo villaggio, spiega i colonnati giallognoli verso il sole, l’aperta campagna e la lontana città di Vicenza; e oppone il dorso annerito dall’umido alla tramontana, alla strada maestra e alla vicina città di Thiene. Adesso non lo saprei dire, ma sette anni sono era certo, d’inverno, una Siberia spaventosa, malgrado la contraria opinione delle figure seminude di cui lo Zelotti, scolaro di Paolo Veronese, ha popolato soffitti e pareti di non so quanti sterminati stambergoni dai pavimenti alla veneziana; e checché ne pensasse la calorosa padrona di casa, la siora Gegia Ferretto. Né coloro, né costei si lagnavano mai del freddo; quelle, forse, perchè lo Zelotti le aveva bene e abbondantemente impastate di sangue caldo e di carne soda, questa perchè non aveva quasi più nè sangue, nè carne ma solo un fine, chiaro e tranquillo spirito, ribelle a qualunque gelo.
È giusto dire che in quel paese, almeno la parte anziana della popolazione è generalmente provveduta di uno straordinario temperamento fisico per cui si vedono i più pacifici e tepidi individui, quando vengono assoggettati, nell’inverno, a una temperatura di dieci a dodici gradi R., diventare roventi, sbuffare, spalancare gli occhi con l’espressione più turbolenta. Tale non era però il temperamento della siora Nina, la figlia della signora Gegia, una damigella di quarant’anni, gialla, magra, vizza, che aveva sempre freddo e non osava mai lagnarsene alla mamma. Ancor meno era tale il temperamento della contessina Nana Dalla Costa, nipote della siora Gegia in linea retta e della siora Nina in linea collaterale; e il conte suo genitore, vedovo e carico di faccende, considerando certi nascenti calori per un tenente leggero di testa e di borsa, che suonava bene i walzer e li ballava meglio, l’aveva opportunamente spedita a passar Natale, Capo d'Anno, Epifania e forse anche Purificazione al fresco con la nonna, la zia, un vecchio fattore, e una vecchia cameriera ch’era stata la sua balia.
La contessina Nana, aveva, sì, un cervellino e due occhi di fuoco, ma nelle sale dello Zelotti ci gelava, poverina, come una gazzella d’Africa. Si rincantucciava, quando poteva, nel «mezzà» 1 del sior Toni, il fattore, dove almeno c’era un caminetto, un tavolato d’abete, e l’umile calore devoto del buon vecchio sior Toni; del quale sior Toni, fra parentesi, pochi sapevano il cognome e io non lo so. In casa, in paese e anche a Thiene tutti lo chiamavano el sior Toni e niente altro. So che era veneto ma non vicentino, perchè diceva fado, stado, andado e altri anche più detestabili solecismi.
Nel pomeriggio del quattro gennaio la contessina era lì nel «mezzà» ritta dietro i vetri dell’unica finestra, a veder nevicare sulle statue grigie del giardino, sulla capannìna della gaggìa, sui cavoli dell’orto e più in là sui campi, sfumati nel chiarore bianco; mentre il sior Toni, seduto alla scrivania con gli occhiali sul naso, tagliava le cedole della Rendita. Ella vedeva forse le falde cadenti, ma per verità guardava nel chiarore bianco chi sa quali altre cose fantastiche, alle quali anche parlava silenziosamente con movimenti continui degli occhi, delle sopracciglia e delle labbra. «Vorrei essere una gaggìa, sior Toni!» diss’ella voltandosi bruscamente. «Almeno non mi lascerebbero gelare!»
Era snella ed alta e se non poteva dirsi una bellezza, aveva però un pallido visetto assai espressivo e nei grand’occhi bruni una espressione di stranezza, d’intelligenza e di malinconia che andava molto, troppo presto al cuore dei tenenti e anche degli altri. Visto che non c’era più legna da gettare nel fuoco, prese il cestino delle cartacce ch’era vuoto.
«Cossa fala, contessina?», esclamò il fattore.
«Niente, sior Toni,» rispose la ragazza e adagiò tranquillamente il cestino sulle brage. «Ma no, contessina, cazza!» Il vecchio si alzò per correre in aiuto del suo cestino; la contessina gli si parò davanti, si mise a cantargli:
«Ho freddo, sior Toni, ho freddo!» con quella cantilena che significa: non l’avete ancora capita?
«Gesù mi poreto!» disse il sior Toni mettendosi le mani nei pochi capelli bianchi e guardando il cestino con faccia mezzo spaventata, mezzo ridente.
«Senta, sior Toni» esclamò la Nana. «Vuole il cestino? Scriva una lettera come io Le dirò e poi mi conti una storiella».
Il sior Toni, famoso raccontatore di storielle da osteria e da salotto, da signorine e da preti, promise ogni cosa e tolse il cestino dal fuoco. Scorgendolo già nero da un lato e fumante, il sior Toni non seppe che articolare la sua interiezione favorita: «jeh!» Ma la contessina Nana, più pratica, dato di piglio, sulla caminiera, a una gran tazza d’acqua, ne inondò in un baleno il cestino e le vaste estremità inferiori del sior Toni, che si ritirò in fretta alzando prima un ginocchio e poi l’altro fino al mento, vociferando «jeh, jeh, jeh!» Ristabilito l’ordine, la signorina spiegò al sior Toni che due giorni dopo il quattro gennaio suol venire il sei e con esso la festa dell’Epifania e ch’ella aveva pensato una bella «stria». La «stria» è una benefica maga veneta, pronipote dei Re Magi, che nella notte dell’Epifania porta misteriosamente, calando nel camino della cucina, i regali che ora è moda di appendere all’albero di Natale. I bambini sogliono attaccare una calza alla catena del camino per maggiore comodità della stria, la quale trova così subito dove posare il suo carico; almeno un rosario di castagne, mele, arancie, foglie d’alloro. Presso alcune famiglie conservatrici che non vogliono saperne dell’esotico albero di Natale, è la stria che porta, per la via romantica del camino, regali a grandi e piccini; e del donatore si dice che fa la «stria». Ora la contessina confidò al sior Toni che voleva fare una sola e unica «stria» per tante persone.
«Per quante po?» chiese il sior Toni.
«Per il mio maestro di musica, per la nonna, per la zia Nina, per la balia (jeh! fece il sior Toni), per il parroco, per i parrocchiani (jeh, jeh!) e anche per il sior Toni!»
«Jeh, jeh, jeh!» Il buon sior Toni diede in una sonora risata.
Ma, con suo nuovo terrore, la ragazza, lesta come un folletto, gli spazzò via davanti le cedole e le cartelle della Rendita, gli mise sotto il naso carta, penna e calamaio. «Presto, presto, scriva, scriva» diss’ella.
E lui, docile come un agnello, scrisse sotto la dettatura di lei una lettera ad un «egregio signor maestro» invitandolo, per incarico della signora Ferretto, sua padrona e nonna della contessina Dalla Costa, a venire l’indomani sera col treno delle sei e mezzo a Thiene dove avrebbe trovato un biroccino... «Chi lo manda po?» brontolò il sior Toni scrivendo. «Io» rispose la contessina... «per recarsi a visitare la sua allieva. Avrebbe passato il giorno dell’Epifania in casa Ferretto e sarebbe stato così buono da suonar l’organo alle funzioni della parrocchia («benon, po» sussurrò il sior Toni) e anche poi da metter insieme una piccola accademia di piano (benon, benon, benon) perchè la nonna e la zia desideravano di udire in qualche bel pezzo a quattro mani, la loro cara nipotina (cara po, si po po, tanto po!)
«Non è vero, sior Toni? E adesso perchè conosco i Suoi gusti, scriva: Le si raccomanda di portare quel pezzo sul Pirata.
«Grazie, po!» esclamò il sior Toni; e alzando ambedue le braccia vociò con un viso truce:
Nel furor...
Ma la contessina lo minacciò di un altro bicchier d’acqua se non si rimetteva subito a scrivere, e così gli smorzò il furore. Ell'attese un poco e poi disse:
«Adesso metta i saluti».
«Come, po?».
«Metta così: La mandano, egregio maestro, a riverire «la nona, la Nina, la Nana e la nena 2».
«Gesù mi poreto!» si mise a gridare il sior Toni, saltando sulla sedia, rosso come un gambero e lucente di riso negli occhi. «Chi elo stado po sto traditor?» Perchè l’allegro uomo scherzando una sera all’osteria su «la nona, la Nina, la Nana e la nena» non si era certo immaginato che le sue facezie venissero riferite alla contessina.
Questa lo fece tacere, gli dettò l’indirizzo «Maestro Bortolo Barùgola (che nome po! Jeh!) ferma in Posta, Vicenza». Saputo che il postino non sarebbe partito per Thiene prima di sera, incaricò il sior Toni di portargli la lettera. Quindi, prendendo un’aria graziosa di timidità e di finezza, e mostrando temere che lo scherzo potesse non piacer del tutto alla nonna, accennò al sior Toni, con mezze parole, di farsi un poco traditore anche lui e di tastar la nonna prima di mandar via la lettera.
«Poareta!» disse il sior Toni, tutto commosso di tanta delicatezza e anche, per dir vero, di tanta ingenuità, perchè come supporre ch’egli mandasse una lettera simile senza parlare con la padrona?
«E adesso, ghe vol anca la storiela?»
«Certo, sior Toni».» Ghe contarò quela del prete e de l'anguila».
«Vecchia, sior Toni!»
«Quela de quelo che gavea paura a passar el Torre». «Oh Dio, sior Toni!»
«Quela de quelo che gà manda a dir al Padre Eterno che i tedeschi gera ancora a Belun».
«Troppo lunga, sior Toni».
«Ma cazza po,» esclamò il sior Toni con un poco d’impazienza «vorla che ghe conta quella del sior Intento? 3».
«Quella, sior Toni! Domattina!»
E la contessina corse via ridendo.
Il sior Toni andò in cerca della padrona vecchia, le mostrò la lettera e le confidò il delicato riguardo della nipotina; confidenza ben preveduta dalla detta ingenua nipotina.
La nonna che conoscendo il maestro Barùgola solamente di nome, s’era fatta, sulle prime, arcigna, si lasciò poi pigliare, come il sior Toni, a questo amo e diede il placet. Non poteva certamente supporre che le lettere dirette al maestro Barùgola quando avevano il fermo in Posta, capitassero, per effetto di arcane intelligenze, nelle dotte mani dell’altro egregio filarmonico signor Carlo Paribelli, tenente nel 3° bersaglieri. Era pur troppo così e il tenente aspettava una lettera simile sapendo bene che avesse a fare.
L’indomani sera alle sei il cielo era sereno e l’aria rigida; al chiarore delle stelle la neve pareva quasi prendere il colore azzurrognolo del ghiaccio.
Ma siccome di giorno v’era stato il sole, nel salotto bene esposto dove «la Nona, la Nina e la Nana» pranzavano e dimoravano abitualmente c’era un clima possibile. Le signore avevan pranzato alle tre, secondo l’antica consuetudine vicentina serbata da pochi spiriti indomiti; e la Nana si era molto sorpresa, venendo a pranzo, di trovare che il vecchio piano codino di casa era stato trascinato lì dalle gelide pianure del salone vicino. La nonna le aveva poi detto sorridendo che le era venuta voglia di udirla suonare un poco. Chi si mostrava particolarmente lieta di questa prospettiva musicale era la zia Nina, una povera zitellona magnetizzata dalla bella, elegante e nobile nipote e da quel suo profumo d’intrighi amorosi, avida sempre di rifarsi giovane, di scambiar confidenze tenere, sempre intimidita dalla freddezza un poco sprezzante della ragazza. La zia Nina pretendeva avere un vero trasporto per la musica e quando sua madre non era presente soleva vantare alla nipote, con certi ah! e oh! pieni d’ogni sottinteso tutte la arie più freneticamente amorose del piccolo repertorio che aveva in testa, come Vieni fra le mie braccia (ah!) dei Puritani oppure Quando il tuo labbro sul labbro mio (oh!) di Allora ed oggi, roba antica di cui la Nana neanche aveva udito parlare.
Alle sei, dunque, la siora Gegia fece chiamare il sior Toni e la cameriera per dire il «terzetto» ossia la terza parte del rosario. Veramente, di solito si diceva alle otto, ma essendosi ciò timidamente osservato dalla Nana, la siora Gegia rispose blanda: «ben, vissere, sta sera te lo diré alle sie!» La Nana, che le altre sere cercava sempre di star vicina al sior Toni per farlo ridere, adesso mostrò invece un raccoglimento edificante, una fervorosa pietà. Finiti i cinque misteri, interruppe la nonna celebrante per osservare che alla vigilia d’una gran festa si poteva dire anche gli altri dieci. Il sior Toni guardò spaventato la padrona vecchia, che, per suo conforto, rispose: «Tropa grazia, tropa grazia» e si tenne al programma.
Detto il «terzeto» la buona signora propose alla nipote di uscire a spasso con la zia e col fattore. A questi due l’idea parve alquanto strana e il faceto sior Toni brontolò nell’uscire: «Dove andemoi po? A beverghene un goto?» Ma la contessina Nana capi che la nonna le offriva tacitamente di andare incontro al maestro perchè il treno di Vicenza arrivava a Thiene alle sei e mezzo e dalla stazione di Thiene a casa Ferretto non s’impiegavano, in carrozza, più di venti minuti. Quando la Nana, che per verità cominciava a trepidare un poco, prese la via di Thiene, capì anche il sior Toni. Ma la zia Nina, che s’entusiasmava per le bellezze delle stelle e della neve, per la poesia dei canti, dei suoni che si udivano di qua e di là per la campagna, capì solamente quando la cauta nipote le spiegò la stria che aveva preparato e accennò, esagerandola, alla tacita complicità della nonna. Allora la siora Nina, dimenticando le stelle, la neve e la poesia dei canti villerecci e la presenza del fattore, si affrettò a informarsi del maestro, seppe che era giovane e bellino, ma che (pur troppo, cara zietta!) il signor Barùgola aveva moglie e cinque figliuoli.
«Jeh! >, fece lo scapolo sior Toni.
Intanto si camminava, si camminava e non si incontravan calessi. S’incontrò invece una frotta di gente che cantava:
Mandiamo il crudo gelo
Lontan dai nostri cuori,
Cantiamo coi pastori....
. . . . . . . . .
Qui si interruppero perchè il sior Toni domandò loro, poco ragionevolmente, se avessero veduto un calesse. Uno rispose cantando: «No, gnente, gnente, gnente» e gli altri ripresero la via e il canto:
Verranno in compagnia
Tre Magi dall’Oriente,
era la «Compagnia della Stella» solita, per tre sere prima dell’Epifania e per tre sere dopo, andar attorno cantando e fermandosi ad ogni casa per aver vino e altro. Ma la contessina non gli stava molto attenta benché anche per lei avessero un senso segreto quei versi:
Verranno in compagnia
Tre Magi dall’Oriente.
E se non venisse nessuno? Malgrado tutto il suo amore ella cominciava a pensare che quasi quasi sarebbe meglio.
Ma invece ecco un punto nero, un rumor di trotto, un cavallo, un cocchiere, un mago che salta come da una scatola nella neve, ravvolto in un tabarro alla veneta, senza maniche, simile a una mantellina da bersagliere, onde la Nana immagina per un momento che l’amico sia venuto in uniforme e ne ha i brividi. Ella presenta con un po’ d’imbarazzo il maestro Barùgola a sua zia e al sior Toni che gli fa replicati inchini col cappello in mano; poi manda via il calesse, destina il sior Toni per cavaliere alla zia e li segue col maestro cui deve impartire ogni istruzione opportuna onde la scherzo riesca bene. Il sior Toni e la siora Nina rallentano il passo perchè vorrebbero udire anche loro ma la contessina protesta. Ella è la stria e la stria fa tutto in segreto. Il sior Toni racconterà intanto una storiella alla zia. «Gala capìo, siora Nina?» dice il sior Toni alla sua padroncina. «Per sta volta bisogna che La se contenta de mi. Comandela sta storiela?»
«El tasa» risponde lei stizzita.
«Ghi n’ho una de bela» — «No me n’importa». — «Ben, ben, ben, ben». Non parlano più né l’uno nè l’altra, per cui non merita scusa il maestro che battezza subito la siora Nina per Marta e il sior Toni per Mefistofele.
Gli dà torto anche la Nana, la quale, ora che la sua pazza idea è fatta realtà, si sente in cuore un ritorno impetuoso di tutte le idee serie e prudenti, si vede in testa tutti i guai che potrebbero succedere, e vorrebbe persuadere Carlo, poiché l’ha vista, poiché le ha dato un bacio e tenuta stretta una mano per cinque minuti e sfiorata con le labbra almeno la toque e cantata almeno in do, in re, in mi, e nei relativi diesis la solita sinfonia, di ritornarsene alla stazione onde pigliarvi il treno che arriva a Vicenza verso le nove.
Ma come si fa? Carlino la intende poco e non ha tutti i torti. Come si fa con Marta e Mefistofele? — Dio, almeno non bisogna che passi la notte in casa!
Ma se non c’è albergo? Pensa e ripensa, la Nana decide che lo condurrà a casa per una visitina e che poi lo manderà a dormire dal parroco.
Le due signore fecero il loro ingresso nel salotto, accompagnate dal solo sior Toni.
«Nonna» disse la contessina entrando, «c’è qui fuori qualcuno che domanda di te».
«Vedemolo» disse la buona signora piegandosi a guardar verso l’uscio e aguzzando le ciglia. Visto entrare il giovinotto soggiunse:
«Chi xelo sto signor?» «Il maestro di musica, signora» rispose il tenente, franco, ma evitando i nomi propri. «Il maestro della contessina ch’Ella ha avuto la bontà di invitare.»
«Mi? Mi no sala. Mi no so gnente de inviti».
Allora la contessina si fece avanti, tanto rossa che la siora Gegia le disse subito: «Ah te si sta ti, barona?»
«È stata la stria, nonna. Siccome tu da brava bambina hai fatto portar qua il piano, la stria ti ha mandato un pianista.
«Ben che lo veda pulito» disse con dolcezza la siora Gegia.
Infatti l’antica lucernina d’argento a tre beccucci, dei quali due soli erano accesi, illuminava molto imperfettamente il giovane, vestito alla buona di abiti che non parevano i suoi. Però il sior Toni e la siora Nina lo avevano intanto scrutato molto bene.
«Che zovene!» disse la vecchia signora quand’egli le si fece vicino. «Quanti anni gàlo?»
Il tenente se ne aggiunse otto, e rispose «trentaquattro». Troppi! pensò la Nana, più accorta. Egli non guardava le cose tanto per la sottile e rispose con la più ardita spensieratezza a mille altre domande sulla sua famiglia, sulla sua patria, sulla sua vita, sugli scolari, sulle scolare, mentre la Nana fremeva e palpitava come un uccellino nella rete. Finalmente la vecchia cameriera portò il caffè e i pandoli al tenente, che, pensando essersi ben guadagnata quella magra cena, divorò mezza dozzina di pandoli senza notare negli occhi della siora Gegia certe ombre di cattivo augurio.
«El ne sona qualcossa» diss’ella.
Il tenente si alzò e propose un pezzo a quattro mani con la contessina; ne aveva seco tre o quattro suonati già con lei in società, quando non si amavano ancora.
«No» rispose la siora Gegìa con voce blanda, ma ferma. «Sentimolo lu solo per sta sera.»
Il tenente obbedì e si mise al piano.
Il sior Toni domandò timidamente un poco di Pirata; invece la siora Nina, moderando alquanto le sue aspirazioni, mise fuori con un fil di voce la speranza di udire Il sol dell’anima del Rigoletto, oppure Ah forse è lui della Traviata, oppure il
quartetto dei Puritani:A te, o cara, amor talora
Me guidò furtivo, ardente.
«Questo lo so benone!» esclamò il tenente e attaccò di slancio il motivo dolcissimo, un vero zucchero sulle sue fragole.
Improvvisò un pot-pourri di Puritani, di Rigoletto, di Pirata, di musica per tutti i gusti, facendo il diavolo a quattro sul piano. Il sior Toni e la siora Nina erano conquisi, ascoltavano a bocca aperta. La vecchia cameriera, ancora in piedi presso l’uscio con il vassoio in mano, andava ripetendo sotto voce «Gesusmaria! Gesusmaria! Madre santa che bravo!» e anche qualche volta «Vergine che belo!» Infatti il tenente Paribelli cui gli amici lombardi chiamavano Parì bell e minga vess, non era una bellezza, però aveva una fisonomia vivacissima, una selva nera di capelli ricciuti e un elegante paio di baffetti castani che avevano molta parte nei suoi successi. Chi proprio non pareva entusiasta di lui era la siora Gegia. Finito il pezzo, ella gli domandò se prima di partire per Vicenza si fosse recato a casa Della Costa per prendere commissioni. No, il maestro non ne aveva avuto il tempo. La Nana introdusse tosto un altro discorso, gli chiese di alquante amiche, specialmente di una tale che in addietro le aveva dato qualche ombra.
«Tanto cara, non è vero, maestro? Tanto simpatica!»
«No, non la posso soffrire!»
«Suona così bene!»
«Pasticcia!»
«Ohe, ohe!» fece la siora Gegia. «El scusa, ma no me piase sto tajar zo de le so scolare».
L’amico che, abituandosi alla situazione, diventava sempre più brillante e si figurava conquistar casa Ferretti a questo modo, rispose contraffacendo audacemente il dialetto veneto e quasi anche il tono di voce della vecchia signora: «Mi no tajo, mi no tajo». La Nana, spaventata, si affrettò a dire che la nonna aveva avuto la sua «stria» e che adesso bisognava farla al parroco, mandargli l’organista. Propose quindi che il sior Toni accompagnasse il maestro in canonica dove potrebbe anche passare la notte. La siora Gegia aveva fatto preparare segretamente una camera da letto e capiva poco, in cuor suo, l’opportunità di regalar un organista al parroco quando non poteva che metterlo a letto. Tuttavia non fiatò e lasciò il maestro al suo destino. Lo si pregò di un’altra sonatina e qualcuno nominò il Mefistofele. Il tenente guardò sorridendo la Nana e poi il sior Toni e domandò a quest’ultima se era lui che voleva il Mefistofele.
«El Mefistufole?» rispose il sior Toni. «Mi no. La diga». Malgrado ciò l'altro si slanciò a capo fitto nel Sabba romantico, fece furore colla serenata classica, si sforzò sopra tutto di far cantare ai tasti il duetto e poi, per protestare contro le punture gelose della damigella, appiccò al Mefistofele con la sua invidiabile disinvoltura, nientemeno che l’aria di Buzzolla, ben nota a lei:
Chi mai se penserave
Vedendo la mia Nana
Che l’apparenza ingana
E sconto gh’è el velen?
Il mentore sior Toni, quando fu in istrada con Telemaco pensò: te soni pulito ma te ghè na gabana, ciò, da mezi litri anca ti: e invece di pigliar la via della canonica pigliò, per i suoi fini, quelli dell’osteria.
All’allegro Telemaco piaceva la bonomia del vecchio fattore, e la conversazione fra loro, per effetto sia dei mezzi litri che delle «gabane» diventò subito famigliare.
Il sior Toni fece all’altro gli elogi, inter pocula, della contessina e siccome non c’era nessuno, cominciò a tastarlo in un pùnto delicato.
«La diga, maestro, che La savarà, come xela de sto tenente che i dise? Ghe xelo, sto Paribelo o no ghe xelo po?
«Go paura, ciò, ch’el ghe sia, sto can» rispose Telemaco nel suo veneto caricato.
«E la diga, mo; xelo Cristian, xelo turco, xelo sior, xelo desperà, xelo galantomo, xelo berechin, xelo belo, xelo bruto, cossa xelo?» «El xe sior, ciò, galantomo, belo e turco».
«Jeh, jeh, jeh!» fece il sior Toni «Gesù mi poreto, el xe turco!»
E vuotò un gran bicchier di vino. Poi ripigliò:
«Xelo so amigo, elo, maestro?»
«Un pocheto».
«Xelo turco anca elo?»
«Un pocheto, ciò».
«Jeh! Gala imparà in Turchia a suonar l'organo? Gesù mi poreto!»
Qui il sior Toni fece portare un altro mezzo litro onde venir a capo delle ragioni per le quali il conte Dalla Costa non voleva dar la figlia al tenente. Il suo compagno incominciò a dirgli che quanto al turco aveva scherzato e che Paribelli era un ottimo cristiano. Soggiunse poi che il conte aveva una debolezza, una malattia nervosa per cui non poteva veder piume sui cappelli della gente. Era una vera disgrazia per la famiglia Dalla Costa e per la contessina non men che per il regio corpo dei bersaglieri.
«Fiol de to mare d’un mestro» pensò il sior Toni, «goi po tanto un muso da macao?» E disse forte: «Bela, po». Sin da quando la contessina Nana lo aveva incaricato di raccontare storielle alla zia, era balenato al vecchio un sospetto, non certo del vero, ma di qualche trama, di qualche occulta complicità del nuovo venuto col terribile tenente Paribelli. Ora se ne persuadeva sempre più, e oltre al resto, gli bruciava un poco d’essere stato giuocato dalla contessina. Centellinando il vino, parlando, quasi, fra sé e sé, si mise a commiserare la ragazza, benché a lui, veramente, non paresse tanto innamorata; tutt’altro! «Perchè?» esclamò il suo compagno, preso all'improvviso. Il sior Toni lo guardò sorridendo col bicchiere in mano. «Gnente po, sala» diss’egli. «Idee». Soggìunse piano che se si fosse trattato di renderla felice, avrebbe fatto qualunque cosa.
«Proprio?» gli chiese l’altro, sullo stesso tono.
«Proprio».
«Anche.... portare...»
Il sior Toni scosse leggermente le spalle e fece «peuh!» con la faccia espressiva d’uno che non trova poi tanto strano nè tanto difficile ciò che gli è proposto.
Il suo compagno lo fissò in viso. L’uomo gli pareva molto fino. Susurrò: «Non avrebbe scrupoli?»
«La diga; xelo proprio un galantomo?
«Eh altro!» fece il galantuomo.
Il sagace sior Toni n’ebbe abbastanza; l’amico era certo un complice. In quel punto la compagnia della Stella fece rumorosamente irruzione nell’osteria. Il sior Toni si alzò, pregò il maestro di aspettarlo un momento, andò a parlare con l'oste che sapeva avere una carrettella, gli ordinò di far attaccar subito onde condurre un forestiero a Vicenza.
«E se nol paga lu» diss’egli «pagarò mi». Poi tornò dal maestro e gli partecipò che essendo la canonica assai lontana aveva ordinato all’oste una vettura, che le istruzioni al cocchiere erano date bene, proprio bene, senza pericolo di sbagli, che lui doveva tornare immantinente a casa e che gli augurava la buona notte. Ciò detto se n’andò in fretta, lasciando il tenente alquanto sbalordito e incerto. Il tenente stette un quarto d’ora ad aspettare la carrettella sulla porta dell’osteria. Dopo un altro quarto d’ora di viaggio per la nuda e gelida campagna, non vedendo nè case, nè chiese, interrogò il vetturino e dovette, suo malgrado, persuadersi che il perfido Mefistofele lo aveva spedito a Vicenza. Furibondo, ordinò di fermare. Passava una frotta di ragazzi cantando in onore della stria. Uno di loro si accostò alla carrettella e gridò sul naso del viaggiatore:
De Pasqua un bell’agnèlo, |
«Va all'inferno!» rispose il tenente. Voleva ritornare in dietro, castigare quel birbante, ma poi riflettendo, capì che sarebbe stato uno sproposito e ordinò rabbiosamente di proseguire.
«Mefistofele» che si era accontentato di veder la carretta uscir dal villaggio e prendere la via di Vicenza, andò poi a casa più frettolosamente che potè. La siora Nina era a letto, ma la siora Gegia e la Nana lo aspettavano in salotto. La siora Gegia aveva lavorato in calza tutto il tempo con una faccia molto seria, senza rivolger mai la parola a sua nipote, che intanto, desiderando pure di evitare il dialogo, aveva letto il giornale e suonato il piano.
«Benedeto!» esclamò la siora Gegia vedendo entrare il fattore «xe ora?» E sto paroco dunque?»
«Mi son qua de stuco» rispose il sior Toni. La Nana si sentì gelare il sangue e non parlò.
«Cossa xe nato?» chiese la vecchia.
«Cossa vorla che ghe diga! La stria lo ga portado qua e la stria lo ga portado via.»
Le due donne lo guardarono, studiando il suo viso furbesco. La vecchia aveva i suoi sospetti e molti; trovandoseli vagamente confermati e ripromettendosi di sapere ogni cosa l’indomani mattina non domandò più nulla, diede una occhiata silenziosa alla nipote, spense uno dei due beccucci della lucernina e disse con tutta flemma: «Ben, andemo in leto». Il sior Toni sospirò perchè invece di andar a letto doveva lavorare in mezzà almeno un’oretta. Vi era da pochi minuti quando l’uscio si aperse piano ed entrò la contessina:
«Un momento» diss’ella sottovoce. «Un momento solo! Cos’è questa storia della stria? Dica su presto!»
«Védela, contessina benedeta» rispose con un sorriso pacifico ma significante il sior Toni «no la xé miga una stria sola, le xé do. Quela zovene lo ga portado qua e quela vecia lo gà portado via. Ma gnente de mal pò sala, gnente de mal!>.
«Si, bravo, e come è andato via? Corse di notte non ce ne sono».
«Ghe xé cavai e caretine».
«Carrettine? È andato a Vicenza in carrettina? Con una notte simile? Sior Toni! Senza una coperta?»
Le parole ed il viso della contessina eran tali che il sior Toni incominciò a non capir più niente ossia incominciò a capire anche troppo. Uno sbalordimento senza nome gli allargò gli occhi e la bocca: «Cossa?» diss’egli. Ma quel sior... gerelo...?! La contessina stupì alla sua volta, non capiva che egli non avesse capito, lo guardò un poco e scappò via senza rispondere. Allora il sior Toni, giungendo adagio adagio palma a palma, conchiuse con l’emozione più profonda della sua vita:
«Jeh, jeh, jeh!».