I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento/Dell'antichità origine e sito della città di Benevento/Della via Appia da Roma a Benevento
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4. della via appia da roma a benevento
e dei ponti tufaro, apollosa, corvo e leproso
Strabone, come vedemmo1, la chiamò, insieme alla Latina ed alla Valeria, nobilissimae viarum; Papinio Statio2 cantò:
qua limite noto |
Questa via deve considerarsi in tre tratti distinti: quello da Roma a Capua, l’altro da questa città a Benevento, e il terzo da qui a Brindisi. Il primo fu iniziato da Appio Claudio il Cieco nell’anno 442 di Roma, e forse menato a compimento in tre o quattro anni3; ma deve ben intendersi che egli lo rese carreggiabile, e lo lastricò, tale essendo il più chiaro senso della espressione Appiam viam a se sic nominatam magna ex parte duris lapidibus Roma Capuam constravit di Diodoro Siciliano4; e quella: Post hunc Appius Claudius Appiam viam stravit del Giureconsulto Pomponio5. Del resto si intende bene che le vie mulattiere dovettero preesistere per gli stessi luoghi, e che le nuove non furono che una perfezione di quelle. Appio non potè prolungarla oltre Capua per la ragione che a quell’epoca i romani non estendevano il loro dominio al di là della Campania6. Non è sicura l’epoca nella quale fu prolungata da Capua a Benevento; probabilmente, però, dovette accadere non si tosto quest’ultima divenne colonia romana, il che fu nel 486 di Roma7. Garrucci8 suppone che per opera dei censori Q. Fulvio Fiacco ed A. Postumio Albino, centotrentotto anni dopo di Appio, val quanto dire nell’anno 580 di Roma, sia stata estesa tutta da Capua a Brindisi, poggiandosi sul passo di Livio9 censores vias glarea extra urbem substruendas marginandasque primi omnium locaverunt, pontesque multis locis faciendos. Ma io intendo che questo passo abbia relazione alla origine del sistema degli appalti, imperocchè forse pel passato le vie venivano costruite direttamente dallo Stato.
Non pare poi verosimile, e Garrucci non vi pose mente, che dall’anno 486, in cui Benevento divenne colonia romana, al 580 il tragitto da Capua sin qua siasi fatto per vie mulattiere. Dunque, sino a testimonianza in contrario, deve ritenersi che i romani abbiano estesa la via a misura del progredire delle colonie. E per conseguenza, se, come dice lo stesso Garrucci10, nell’anno 510 di Roma era stata già dedotta una colonia in Brindisi, in quell’epoca, o poco dopo, devette essere prolungata la via sin là. Per la qual cosa avremmo: poco dopo il 442 la costruzione da Roma a Capua, poco dopo il 486 quella da Capua a Benevento, e finalmente poco dopo il 510 il prosieguo sino a Brindisi. Una maggiore disamina dell’argomento mi porterebbe troppo fuori i confini di questo lavoro.
Per opera di chi sia stata prolungata gli storici ed i critici non hanno potuto affermar di consenso; onde me ne tolgo di briga anch’io, meno competente di loro.
Non vi è contrasto intorno al corso o topografia dell’Appia da Roma a Benevento: essa, uscendo da Porta Capena, oggi S. Sebastiano, passava per Aricia (oggi Albano), Terracina, Fondi, Formia, Minturno (oggi distrutta) sul Liri, Sinuessa (oggi Sessa Aurunca), Casilino11, Capua (l’antica, cioè Santa Maria di Capua o Capua Vetere), per Galatia o Calatia (presso Maddaloni, e quindi differente da Caiatia, oggi Caiazzo al di là del Volturno), per Santa Maria a Vico, Arienzo, Caudio (il cui sito è controverso, mettendolo alcuni ad Arienzo, altri a Paolise, altri a Bonea ed altri a Montesarchio), e finalmente arrivava a Benevento. Questo tratto da Caudio a Benevento è quello che segnatamente ci interessa, e sul quale Pratilli12 ha assai errato.
Tralasciando la discussione sul sito dell’antico Caudium, la quale potrebbemi tirar troppo fuori di carreggiata, passo oltre Montesarchio, avvicinandomi a Benevento.
Ad oriente di Montesarchio prende a scorrere verso la valle del Sabato un torrente, il quale conserva per lungo tratto il nome Corvo, e solo in vicinanza di Benevento assume quello di Serretella. L’Appia, lasciando Montesarchio, seguiva la pianura che si stende fra questo e il piede delle colline che fan da scarpa al monte Taburno, e si appressava al sito dove oggi è la ripida discesa di Sferra Cavallo. Ma di qua doveva seguir altro corso che quello della presente via rotabile; forse appoggiavasi alla mezza costa del colle a sinistra, e per causa dei franamenti vi dovè scomparire ogni traccia di antico.
Scendendo, perveniva di poi ad incontrare per la prima volta il torrente Corvo al luogo dove dicesi Tufara ed esiste l’antico ponte omonimo, fra i tenimenti di S. Martino Sannita e Montesarchio sulla sponda sinistra, e di Rocca Bascerano sulla sponda destra.
Ponte Tufaro (Tav. XXXVI) — Come quasi tutti i ponti romani, è a schiena nel mezzo. Ha tre luci semicircolari, la centrale di diametro m. 9.00, le laterali di 7.50. Le pile e le spalle, oggi completamente interrate per il sollevamento del letto del torrente, son di grossi massi lapidei a bozze. Sono interrati, per conseguenza anche i rostri, i quali esistono solo nella faccia sopra corrente. La larghezza del ponte, misurata tra le due facce a monte e a valle, è di m. 6,50; il fronte delle pile, cioè la distanza di un’arcata dall’altra è di m. 3.30. Tanto le arcate che i timpani ed i muri di accompagnamento son di massi lapidei a bozze, come le pile e le spalle. Una fascia di simili pietre, alta m. 0.60, sporgente m. 0.30, scende, su ambo le facciate, dalmezzo della sommità del ponte verso le due sponde sin sotto il piano stradale presente. Su di essa si eleva il parapetto; ma l’esistente è moderno.
Sul culmine della schiena sopra corrente, in mezzo del parapetto, siccome scorgesi dal disegno, si eleva un masso lapideo, alto m. 1.80, largo sul fronte 0.88, spesso 0.62, sagomato in cima a semicilindro. Sul fronte interno, cioè verso la strada, presenta uno specchio in incavo di m. 0.55 × 1.00, il quale doveva contenere qualche epigrafe, oggi perfettamente distrutta. Sui fianchi della parte cilindrica ha due incavi, destinati evidentemente al suo sollevamento e ponitura a sito. Stimo che questo masso fin dall’origine sia stato situato sul detto ponte, poichè ricordo averne notati di simili, e ripetuti su tutta la lunghezza dei parapetti, in altri ponti antichi.
Nella facciata a valle sono incastonate altre due pietre lapidarie rettangolari, l’una nel muro di accompagnamento sinistro, l’altro nel timpano tra l’arcata maggiore e la sinistra; ma non vi si leggono affatto più le iscrizioni che doveano al certo contenere.
Questo ponte dovè molto soffrire nei secoli scorsi, ed essere restaurato con gli stessi massi che lo componeano; imperocchè questi, sebbene si ravvisino quasi tutti antichi e della stessa epoca, meno pochissimi, pur tuttavia non sono al posto nel quale nella primitiva costruzione furono situati. Anche dando uno sguardo alla figura puossi scorgere a prima giunta la verità del mio asserto.
Una specialità di questo ponte son pure i cunei delle arcate, i quali, invece di esser tutti eguali da formare l’armilla egualmente larga intorno intorno, come vedremo negli altri ponti avvicinandoci a Benevento, sono di varia lunghezza, e tagliati a squadro nel capo superiore, da presentare due giunti, l’uno verticale, l’altro orizzontale, al posto della curva di estradosso; di guisa che s’innestavano ai corsi orizzontali dei timpani e dei muri di accompagnamento. Questa combinazione di bugne fu molto imitata e ripetuta dai nostri architetti del rinascimento sulle facciate di pubblici e privati edifizii.
Garrucci13, nella descrizione dell’Appia da Caudio a Benevento, forse intende parlare di questo ponte, quando dice: «Dopo che la via aveva valicato l’Isclero, che è il primo fiume ad incontrarsi da chi entra nella valle Caudina, e passato per Caudium e per le osterie di Caudio, Caudi cauponas, memorate da Orazio, girava in costa il monte Mauro14, scendendo sotto Apollosa, ove scorre il fiume Corvo, ancor povero di acqua e quasi presso la sua sorgente: ivi gittarono il ponte i duumviri di Benevento, di che ci è garante la epigrafe recata di sopra. Il ponte veduto da me è antico, ma non può dirsi di quella costruzione primitiva; e sappiamo che fu rifatto da Severo l’anno 198 per deposizione della lapide letta ivi da Ciriaco d’Ancona (Momms. op. cit. 1409), non più veduta dopo di lui, e da me inutilmente cercata. In essa è scritto che Settimio Severo e Antonino suo figlio avevano rifatto da capo il ponte caduto per vecchiezza: PONTEM VETVSTATE DILAPSVM A SOLO SVA PECVNIA RESTITVERVNT»
Pare che l’autore faccia non poca confusione: la iscrizione cui egli prima si riporta, e che dovrebbe, secondo lui, riferirsi alla primitiva costruzione di questo ponte, è la seguente15, che egli dice aver trovata «all’incile di un mulino messa capovolta e con canale aperto nel mezzo per farvi scorrere la tavola o pancone alla saracinesca:»
C . AVF VS . C . F
C . FVF VS . C . F
vi NDEX .
III . Vir QVINQ
PONTEm D . S . S . F . C
EIDEm Q . PROB
CONs TAT
HS . . ↀↀ16
Ad essa assegna una data tra il 684 e il 709 di Roma, laonde saremmo nell’epoca della repubblica. Ma quale è questo mulino dove egli ha letta tale iscrizione? Non ce lo dice.
Di più egli non precisa bene se intende parlare del ponte Tufaro, del quale ci stiamo occupando, ovvero di quello di Apollosa, intermedio tra questo e quello detto Ponte Corvo, al quale poi salta in seguito a piè pari.
La iscrizione che egli accenna in ultimo, riportata pure da Grutero17, è la seguente:
IMP. CAES. L SEPTIMIVS SEVERVS PIVS
PERTINAX PONT. MAXIMVS TRIB. POT. VI
IMP. CAES. M. AVRELIUS ANTONINVS
AVG. IMP. SEVERI AVG. FIL. TRIB. POT.
PROCOS. PONTEM VETVSTATE DILAPSVM
A SOLO SVA PECVNIA RESTITVERVNT
Questa iscrizione istessa, che il Grutero riferisce prope Beneventum in via Appia, De Vita18 e Borgia19 attribuiscono, come vedremo, al ponte Leproso; di maniera che nella incertezza non si sa a quale dei due o pure ad altro ponte attribuire, perchè, come vedremo, altri ne esistevano presso Benevento. Quindi non sappiamo nè quando fu costruito, nè da chi, nè in qual tempo restaurato il ponte Tufaro, del quale ci stiamo occupando. Quei restauri, però, fatti con poca arte e nessuna cura, non mi sembrano di epoca romana.
Da questo ponte con corso assai piano la via girava in ampia curva, da destra a sinistra, la sponda destra del sudetto torrente, raggiungendolo la seconda volta al ponte ancora esistente detto di Apollosa, fra il tenimento di Apollosa a settentrione e quello di Chianche di Ceppaloni a mezzodì.
Il ponte detto Tresanti20 sul vallone di S. Giovanni è tutto moderno, ma deve occupare il sito dell’antico scomparso.
Ponte di Apollosa (Tavola XXXVII) — Lo si trova indicato sulla carta topografica dello Stato Maggiore21 con la denominazione Ponte dei Molini, perchè ivi accosto è un mulino detto di Apollosa, con una taverna; ma qui lo si riconosce da tutti sotto quella datagli da me. È di vaghissime forme, sebbene oggi non si possano ammirare compiutamente a causa dello interrimento di una gran parte dell’altezza delle pile e delle spalle. Dalla incisione, la quale ne rappresenta la facciata sopra corrente, si scorge che ha tre luci, la maggiore di diametro m. 9.10, le laterali di m. 3.12, a pieno centro tutte e tre e col sesto movente esattamente da sopra la fascia d’imposta. Questa è alta m. 0,465, e aggetta m. 0.35 dal vivo. Le pile sono larghe m. 2.70 e lunghe m. 6,15.
Anche questo ponte è tutto di massi lapidei. L’archivolto di tutte e tre le arcate ha costante larghezza, di m. 1,20 nella principale, m. 1.00 nelle secondarie; soltanto il cuneo alla chiave è più alto degli altri. Sopra corrente le pile hanno i rostri. È scomparsa la fascia che coronava il ponte e sosteneva il parapetto antico.
Come si scorge dalla incisione, anche questo ponte è a schiena nel mezzo. Esso ha quattro muri di accompagnamento, due per ognuna delle sponde; i quali anticamente si slargavano con una rivolta in fuori ad una certa distanza dalle testate, appena cioè ricominciava la via, come è additato da un pezzo, avanzante ancora intatto, del muro sinistro di accompagnamento sopra corrente (qui la rivolta sta a circa m. 12.00 dalla luce minore), che è quello a sinistra di chi esamina la figura, e non appariscente per effetto delle piante che sonovi interposte. Da questo pezzo di muro e da quello segnato con la lettera A nell’angolo destro dell’incisione si rileva pure che i sudetti muri di accompagnamento erano di opera reticolata, opus reticulatum, eseguita con molto magistero. I tasselli o quadrucci di pietra calcarea che la compongono hanno il fronte quadrato di lato m. 0.085, e son rientranti oltre m. 0.20. Questo genere di struttura murale, che era molto in uso ai tempi di Vitruvio22, ei ci dice esser molto venusto, ma facile a fendersi; per la qual cosa consigliava a riempirne lo interno di minutaglie con molta e buona malta. Veramente, se dobbiamo giudicare da questi saggi arrivati sino a noi, e in condizioni tanto sfavorevoli, perchè in lotta continua da secoli con le piene del torrente, dobbiam ritenere per lo meno che l’autore non abbia compiutamente ragione. Egli dovè riferirsi a cattivi saggi; ma, adoperando buona malta, anche questo genere di struttura in certe condizioni può riuscir solido. Nell’esempio nostro trovo che a comporre la malta fu adoperato il rapillo vulcanico, abbondante qui nella vallata del Sabato.
Ritengo che questi muri di opera reticolata sieno stati aggiunti dopo, essendo di un genere troppo diverso dall’opera lapidea pseudisodoma del ponte.
Dopo la testata destra di questo ponte per la lunghezza di m. 40.00 avanzano ancora le sostruzioni della via Appia, fatte di minutaglie di tufi; poi segue una interruzione, lunga m. 50.00, dovuta alle erosioni del torrente, e quindi ricomincian le sostruzioni un’altra volta, emergenti dall’alveo di questo. Quest’ultimo tratto, costituito da una murazione a getto con ghiaia e ciottoli, grossa quanto doveva esser la larghezza della via, fu fatto per opporlo all’erosioni del torrente. Sopra di essa sono ancora alcuni grossi lastroni calcarei, di quelli che dovevano pavimentare la via; il qual fatto smentisce l’affermazione di Garrucci23 che l’Appia da Capua a Benevento non sia stata lastricata di selci. Attraverso tanti secoli queste sono state divelte e impiegate nelle costruzioni sparse nella campagna prossima; ma in parte si rinvengono ancora al loro antico posto sotto gli interrimenti moderni.
Indi la via girava la sponda sinistra del medesimo torrente, e, internandosi alquanto verso occidente secondo una corda dell’ampia lunata di esso, portavasi ad incontrarlo per la terza volta all’antico ponte esistente, detto Corvo, in contrada Ciancelle, del tenimento Beneventano. Qui fa mestieri fermarci un tantino.
Trascrivo un brano del Pratilli24: Presso al XXV milliario trovansi in poca disianza tra loro due piccioli villaggi, appellati Chianche e Chianchetelle presso all’Appia; così chiamati, come altrove si è detto, dalla dizione latina plancae, che sono (secondo Festo grammatico) tabulae planae et quadrati lapides, quali erano le selci dell’Appia25. Si scorge a prima giunta che l’autore fu tratto in errore dalla coesistenza dei due paeselli Chianche e Chianchetelle in provincia di Avellino, messi a confine con questa di Benevento, su due colli della sponda destra del fiume Sabato, molto lungi dai luoghi di cui ci stiamo occupando. Invece il Chianche pel territorio del quale passava l’Appia è quello che ho nominato di sopra, ed è frazione del comune di Ceppaloni. Esso resta, seguendo il corso dell’Appia, a destra del ponte Tresanti, di sopra cennato, sulla collina che dai Ciardelli, presso i monti del Partenio, si stende sino a Benevento, ove prende il nome di contrada Montecalvo. Dal lato di occidente lungo il suo piede serpeggia il torrente Corvo.
Il Ciancella poi non è villaggio, ma contrada, la quale al presente è costituita dalla collina che si eleva dal fiume Calore, già riunito col Sabato, appena dopo lo sbocco in essi del torrente Corvo26. Però anticamente tale denominazione doveva comprendere anche la bassa campagna pianeggiante a piè del colle Pino; altrimenti non si saprebbe spiegare lo accampamento che vi mise Ruggieri nel 1138, secondo Falcone: Et inde amotu exercitu (Rogerius) Rex costrametatus est prope Beneventum in loco ubi dicitur Plancellae. E di fatti è più ammessibile che Ruggiero si sia accampato sulla piana in prossimità di Ponte Corvo, di fianco la via Appia, che in un sito fuori mano, quale è l’attuale contrada Ciancella, separata dalla città dallo immenso letto che vi formano i due fiumi riuniti, Sabato e Calore.
Anche De Vita27 rilevò e corresse l’errore di Pratilli riguardo a Chianche e Chianchetelle.
Ponte Corvo (Tav. XXXVIII). Di questo ponte, come degli altri due, dei quali ho discorso, la incisione rappresenta la facciata sopra corrente. Come rilevasi da quella, è tutto di massi lapidei, a bozze o bugne, come gli altri due descritti. Esso, a differenza degli altri ponti romani che ho studiati in queste vicinanze, presenta solo due arcate, eguali, del diametro di m. 7,30, ed a sbieco, la qual cosa non pare sia stata praticata sovente dagli antichi. Ha la solita fascia d’imposta, alta m. 0,45, sporgente m. 0.30. L’unica sua pila ha il rostro sopra corrente. I cunei delle armille, le quali girano con le curve d’intradosso e d’estradosso concentriche, son lunghi m. 1.00. Manca al presente la fascia a livello stradale, perduta attraverso i secoli. I muri di accompagnamento sulla sponda sinistra girano in curva per bel tratto da oriente ad occidente. Sulla sponda destra sopra corrente havvi una specie di muro d’ala, e sotto corrente quello di accompagnamento, il quale volge bruscamente a sinistra. Sopra uno dei massi lapidei del primo corso inferiore di questo muro è segnato il numero IIII, il quale non so se sia capitato ivi, insieme col masso, casualmente, o vi sia stato inciso per la numerazione dei ponti, a partire da Benevento; forse va più la prima ipotesi.
Questo ponte ha una speciale importanza a causa del sudetto suo ultimo muro di accompagnamento, il quale, ripiegando bruscamente verso occidente, segna il girare della via Appia da quella parte. Di fatti essa volgeva in curva alla mezza-costa per dietro il fabbricato della masseria dei fratelli Zamparelli di S. Leucio, e andava a raggiungere, pel cammino della via campestreTav. XXXVIII.
Veduta sopra corrente del Ponte Corvo
esistente per di sopra la casinetta del sig. Francesco del Basso, il vallone S. Vito. Sulla sponda destra di questo, in un fondo ora acquistato da Antonio del Basso, esiste qualche rudere che si appartenne a sostruzioni della via Appia; e poco più a monte, sul ciglione destro dello stesso vallone scorgonsi gli avanzi di qualche villa, consistenti in muri reticolati, che si elevano dall’alveo, e in pareti decorate di stucchi e pitture.
Seguendo ancora la via campestre al di là del vallone, dopo poco si arriva al colle S. Felice, sulla cui falda occidentale girava la strada alla mezza-costa; ma le frane vi hanno distrutta ogni traccia. Bisogna percorrere un bel tratto fra le brulle argille in convulsione, pria di poter riprendere le tracce dell’antica via, poco a monte dell’antico Camposanto di Benevento, detto di S. Clementina dalla chiesa omonima.
Qui riappariscono gli avanzi dei muri di sostegno della via in opera reticolata. Ivi, a monte di quella, nel fondo dei signori Beri, ammirasi tuttora un avanzo di mausoleo di opera laterizia, intorno al quale gira una base attica con risalti di parastate, di buonissimo gusto.
Dopo pochi passi la via raggiunge il fiume Sabato, e lo cavalca sullo storico ponte Leproso, che imprenderò a descrivere minutamente. Però prima voglio rilevare un errore di Borgia28. Egli dice che la via girava per la contrada Ciancella29, giungeva al ponte della Serretella30, che dice trovarsi diruto ai suoi tempi, e di là perveniva al ponte Leproso. Ora il ponte della Serretella, ancora esistente, ma restaurato, è situato troppo a valle del Ponte Corvo, allo sbocco nel Calore già riunito al Sabato, e la via avrebbe dovuto percorrere sulla sponda sinistra del torrente una curva oziosa per raggiungerlo, mentre da ponte Corvo a ponte Leproso il cammino tracciato da me è molto più breve31.
Ponte Leproso o Lebbroso32 o dei Lebbrosi (Tav. XXXIX, XL e XLI).
La etimologia del nome De Vita33 vuole attribuire alla simiglianza che ha con la lebbra la scabrosità delle bugne lapidee delle quali è costituita la parte antica; ma non è accettabile questa sua opinione, avendo simile struttura anche gli altri tre ponti che abbiamo studiati finora. Borgia34 l’attribuisce alla probabile esistenza di un ospedale per i lebbrosi in quelle vicinanze, ma non vi ha alcun documento storico; sarebbe però una curiosa ricerca. Era così chiamato sin dai tempi di Landolfo VI, principe longobardo, come risulta da un diploma di concessione che costui nel 1071 faceva del ponte a favore di Dacomario rettore di Benevento. Il qual diploma di concessione, appartenente alla cronaca di S. Sofia, la quale si conserva nella Biblioteca Vaticana ed è riportata pure dall’Ughello (tom. 8. pag. 745, ediz. Rom.)35, contiene il seguente brano:
. . . . «Ut licentiam, firmamque potestatem habeatis, quantum esse voluerit, in Ponte marmoreo, quod dicitur de Leprosis, tam subtus eodem Ponte, quam desuper; cumdem Pontem rumpere. . . . et omnem aedificium, ac laborem . . . . facere . . . . verumtamen ut pro eadem ruptura, atque aedificio ipse Pons non decidat, et aedificium, ut sit contrarius ad carros oneratos . . . , quae inde transitura sunt: ac concedimus vobis habendum quodcumque ad partem nostrae Reip. evenire debet de omni negotio per eumdem Pontem transituro, etc.».
Da questo documento apprendiamo pure che a quell’epoca questo tronco della via Appia sia stata ancora nel suo essere, e che all’epoca medesima debbansi riferire le occupazioni principali della mole del ponte e le prime devastazioni.
Lo stato attuale di questo monumento importantissimo desumesi dalla Tav. XXXIX, la quale rappresentaci la facciata sopra corrente. Da quella l’osservatore e lo studioso trarrebberoTav. XXXIX
Veduta sopra corrente del Ponte Leproso
ben poca utilità per un criterio esatto; per la qual cosa vi aggiungo le Tav. XL e XLI, frutto di miei pazienti studii del monumento e di scavi praticativi per mio conto.
Occorre un poco di pazienza da parte del lettore a seguirmi in una descrizione lunga, e noiosa forse, ma non per tanto molto necessaria.
Al presente il ponte ha in azione le quattro arcate 1, 3, 5, 7 (Tav. XL.); la prima a sbieco di luce m. 5.35, la seconda e terza di m. 8.30 e la quarta di m. 8.36. La prima luce è l’ultima in ordine storico, e fu aperta nel posto dei muri di accompagnamento della sponda sinistra. Oggi due muri d’ala, sopra e sotto corrente, in linea del ciglione della campagna, fiancheggiano l’attuale spalla sinistra, la quale anticamente doveva esser rappresentata invece dalla grossa pila della lunghezza di m. 13.50 sopra corrente, avendo questa più lo aspetto di una robusta testata che di una pila. Anzi io stimo che nel suo interno debbansi contenere i vestigii della testata romana.
Le arcate 3, 5 e 7, come meglio vedremo in seguito, tengono luogo delle antiche prima, seconda e terza con le differenze di luce rappresentate dagli spostamenti delle pile 4 e 6 e dal regresso a sinistra della pila 2 secondo le linee punteggiate, mentre le linee tratteggiate rappresentano la icnografia presente.
La pila 8, l’unica delle antiche che sia rimasta quasi intatta, oggi fa da testata destra; ma nell’epoca romana seguivano ad essa, divise dalla pila 11, altre due arcate, 9 + 10 e 12 + 13, a completare le cinque di cui si componeva il ponte. In seguito della cennata concessione fatta da Landolfo VI a Dacomario, essendosi addossati i mulini al ponte, con opere di arginazione e con piantagioni furono allontanate le acque dalla sponda destra, e costrette a fluire nell’angusto e deforme letto che vedesi raffigurato nella planimetria (Tav. XL). Ebbero da ciò origine la erosione incessante della sponda sinistra ed il bisogno della costruzione della arcata numero 1. Così il pioppeto olim Pacca36 ed il canale di carica del mulino omonimo hanno preso il posto di una gran parte dell’alveo antico del fiume, con disdoro e pregiudizio del nostro monumento. Ma i privilegii feudali e le prepotenze dei Principi sopraffecero arte e monumenti.
Le quattro arcate che sole servono oggi al deflusso delle acque e le tre pile che le separano non presentano quasi alcuno interesse per l’arte e per l’archeologia; soltanto è da osservare che le prime son di laterizii, mattoni misti a tegole, di varie epoche e dimensioni, e le seconde son costituite per la più gran parte di massi calcarei, di lapidi e di cippi sepolcrali tolti ad altri monumenti romani. La gran pila 2 ha il rostro triangolare sopra corrente e quadrangolare a base trapezia sotto corrente; le pile 4 e 6 hanno il rostro sopra corrente pure triangolare e semicilindrico l’altro. Nei due timpani su quest’ultime pile sono aperte due luci di sfogo per le piene (Tav. XXXIX) con stipiti ed archi di laterizii.
La porzione del monumento la quale più interessa è quella che resta sulla sponda destra; e vedesi disegnata nelle Tavole XL e XLI, in pianta e in elevato. Quest’ultima rappresenta la facciata sottocorrente, la quale, più conservando e meglio lasciando scorgere la parte antica, richiama per parte nostra la maggiore attenzione.
Ho detto che il ponte antico aveva cinque luci; esse erano tutte dello stesso diametro, e lo dimostro. I punti di partenza sono: la pila F (Tav. XLI) (8 in pianta, Tav. XL), la testata destra, il cui fronte interno è proiettato verticalmente nella retta b''y (Tav. XLI) e la curvatura d’intradosso dei cunei lapidei che tuttavia rimangono degli archivolti antichi nelle arcate B, C, D (Tav. XLI). Ora, tenendo conto della larghezza di m. 5.00 della pila intatta F, della posizione b''y della faccia interna della testata destra, ancora al suo posto, e della curvatura dell’intradosso dei cunei superstiti dell’arcata C, e considerando che la pila E, intermedia tra le arcade B e C, doveva essere eguale alla prima F, ho potuto determinare che ciascuna arcata aveva il raggio di metri 4.35. Il loro centro non trovavasi sulla linea superiore nl (Tav. XLI), ma sulla inferiore op della fascia d’imposta. Così ho potuto assegnare alle cinque luci 3, 5, 7, 9 + 10, 12 + 13 ed alle pile antiche 4, 6, 8, 11 il loro posto primiero, come rilevasi dalle linee punteggiate della planimetria (Tav. XL). E con questi calcoli e con questa costruzione ho potuto determinare eziandio che la testata sinistra sia incorporata nella grossa pila 2, alla quale doveano attaccare pure i due muri di accompagnamento, ora distrutti nella maggior parte, e probabilmente in parte nascosti fra le moderne costruzioni della presente spalla sinistra.
Ma è tempo di rivolgere tutto il nostro esame sulla parte del monumento la quale è messa sulla sponda destra.
Ciò che richiama subito l’attenzione è la pila F (Tav. XLI, fig. 1.a), importantissima, essendo l’unica superstite. La fig. 1.a ce ne mostra la facciata sotto corrente, non intera a causa di un rilevato di terra FG addossatovi; e la fig. 3.a ce ne mostra la facciata interna verso l’arcata D, insieme ad un fianco del rostro. Come vedesi, la struttura murale è la pseudisodoma, di grossi massi lapidei, lavorati rusticamente a bugne o bozze. Oggi dal piano della platea um non emergono che quattro corsi di bugne dell’altezza complessiva di m. 2.58, ma stimo che ve ne debba esser qualche altro sottoposto, il quale per la presenza della platea non ho potuto ricercare. È coronata dalla fascia d’imposta, alta m. 0.60, e sporgente m. 0.32 dal vivo sottoposto su tutte le facce, sebbene oggi manchino i massi che giravano su di questo, e appena possa vedersene un residuo sulla facciata sopracorrente. La pila, come dissi, è grossa m. 5.00 e lunga m. 7.50, senza il rostro, il quale è a base triangolare e sporgente m. 2.50, cioè la metà della grossezza di quella.
In entrambe le facciate avanzano alcune bugne dei timpani, come vedesi sulla stessa pila F, (fig. 1.a, Tav. XLI), i quali salivano sino al livello stradale.
Le volte delle arcate eran costituite di cunei di pietra calcarea; quelli delle armille esterne erano lunghi sul fronte m. 1.20. Di tal che reca sorpresa il veder distrutta una mole così grandiosa, la quale per la sua immensa solidità avrebbe dovuto sfidare impavida i secoli. Più che i tremuoti e le piene penso che fuvvi da prima l’opera vandalica dell’uomo; e poi quelli e queste poterono compiere l’opera di distruzione. Tutto ciò deve riferirsi però sempre all’epoca romana imperiale, nel qual tempo devono essere state costruite le volte di laterizii dove erano prima quelle di pietra calcarea. E sono indotto a pensare così, perchè i mattoni dei volti, di m. 0.60 × 0.60 × 0.08, sono indubitatamente di quell’epoca, come ho ricavato dal parallelo con l’arco del Sagramento37 e con altri ponti sui quali dovrò intrattenermi in seguito. Vedremo allora di poter precisare meglio l’epoca di siffatte trasformazioni.
Nell’eseguir queste non tennero conto dell’antico raggio e lo variarono in tutto o in parte, a seconda del caso. Così troviamo che quello dell’arcata D (Tav. XLI) fu ridotto a m 4.30, per tutta la curva, e che il centro fu ribassato in o''''' da p, cosicchè tutta l’arcata, come scorgesi dalle curve tratteggiate, fu ribassata pure di freccia. L’arcata C, forse perchè mancava la pila E, travolta dalle piene, fu ridotta a poco men che metà dell’antica, con raggio di m. 2.275 per una porzione di armilla raccordata ai cunei lapidei superstiti, trasportando il centro da o'''' in o''' ed ingrossando la pila E della lunghezza sq; nel quale ultimo punto vedesi una cornice d’imposta con fascia e alta gola rovescia di pezzi calcarei provenienti da altri edifizii. Poi nell’epoca moderna fu murata a pietrame.
Notisi pure che su una porzione dell’armilla di mattoni di questa arcata gira un’altra, v, formata di un cuneo di tufo e di due mattoni avvicendatamente. Quest’ultimo genere di archi è dell’epoca longobarda, siccome ho potuto constatare con lo studio di altri monumenti.
La pila E fu ingrossata anche verso l’arcata B, restringendo questa, mentre prima era compresa nella distanza rs. Come vedesi chiaramente sul disegno, la parete superiore compresa tra queste due arcate ultime è composta tutta di pezzi raccogliticci di altri monumenti; vi son pezzi di fregi e di architravi, altri con iscrizione38.
L’arcata B è costituita di due porzioni di armille, quasi eguali, raccordate; l’una, a sinistra, descritta con centro o' e raggio di m. 4.35, antichi, l’altra a destra, con nuovi centro o'' e raggio di m. 3.65. Ciò è derivato dall’essersi dovuti servire a sinistra della porzione di arcata lapidea superstite, la quale non comparisce in disegno, essendo nascosta dietro l’armilla di mattoni. Le opere di muratura zno'' che vedonsi costruite nell’interno di quest’arcata servono all’ufficio di vasche di carica del mulino olim Pacca. La muratura per la grossezza zn nasconde la vera faccia interna della testata destra, la quale, come dissi, trovasi nel piano verticale b''zy. La vera faccia d’imposta dell’antica arcata sporge ancora per un pezzo al di fuori del predetto rivestimento per l’altezza no. Due cunei, dei quali uno visibile nel disegno, avanzano ancora a sinistra dell’armilla antica di questa arcata; ma nell’interno, come ho detto di sopra, avanzano ancora molti cunei su tutto il giro della porzione di arco che ha l’antico raggio.
Dalla linea verticale b''y cominciano su ambo le facciate i muri di accompagnamento, i quali si prolungano sin dentro l’orto di un tal Guarriello, oltre la linea ah (Tav. XLI) in alzato, e in pianta sino alla linea 19-20 (Tav. XL) per la lunghezza di m. 62.00 circa. Occorre qui fermarci un certo tempo.
Siccome le cinque arcate antiche avevano lo stesso raggio ed una sola linea orizzontale d’imposta zno'''l, così il piano stradale sulla schiena era orizzontale, a livello iK; e la fascia lapidea che sosteneva il parapetto era contenuta tra le orizzontali ik e b''c''. Dalla verticale b''iy, che è la proiezione della faccia interna della testata destra, come vedemmo, cominciava il declivio del piano stradale, il qual declivio, come vedremo, non era uniforme per tutta la lunghezza di m. 62.00. Del primo tratto della fascia avanzano ancora i sei pezzi lapidei I nell’interno del mulino olim Pacca; i quali aggettano dal vivo sottoposto, ed hanno una fascia sul lembo inferiore, secondo ben apparisce dal disegno. Ora la inclinazione della faccia inferiore di questi sei pezzi va a convergere esattamente al punto i della verticale b''iy, come doveva essere. Sotto questa sezione di fascia esistono ancora i varii corsi di bugne sin sotto il livello K, che è ora il pavimento di una camera sotterranea del mulino, coverta da volta, la quale occulta in disegno una porzione dei corsi medesimi. Con la stessa pendenza scendono sino ad h le bugne della fascia H, le quali però sono incastonate al presente nella parete esterna occidentale del mulino Pacifico; di tal che la faccia che a noi mostrasi è quella che rimaneva nascosta dal pieno del pavimento della via. I varii buchi che scorgonsi sia sulle bugne della fascia che su quelle sottoposte servivano di presa delle forbici nell’alzata e situazione a posto dei massi medesimi. Nel pieno L, formato da un rilevato di terra sottoposto alla tettoia del mulino olim Pacca, devono scendere i corsi delle bugne come pel tratto K.
L’arcata A, la quale oggi serve allo scarico delle acque del mulino Pacifico, è opera posteriore; essa dovette essere aperta o da quel Dacomario, concessionario di Landolfo, o dai suoi successori, essendo evidentemente opera non coeva del ponte antico. E qui o Dacomario o i suoi successori esercitarono per bene, come vedesi, la loro opera vandalica. Quest’arcata ha due archivolti, l’uno, superiore, più antico, di mattoni, l’altro inferiore di conci lapidei di epoca assai più recente. Non recherà meraviglia agli intelligenti il saper costruita prima l’armilla esterna e poi l’interna, essendo cosa che praticasi ogni giorno per rinforzo delle arcate preesistenti.
La fascia antica di sostegno del parapetto del ponte da h in d prendeva una pendenza più dolce, secondo ricavasi dai massi superstiti G incastonati nella parete del mulino Pacifico. Di tal che il piano stradale quivi saliva secondo la linea a''eG…. E sulla verticale a''dg il muro di accompagnamento occidentale ha una bugna verticale g, la quale segna il termine di questo secondo pendio. Questa stessa bugna occupa a destra l’altezza di due corsi e a sinistra quella di tre.
Quindi segue una livelletta cd di minore pendenza, e finalmente il tratto orizzontale bc, un poco incompleto sul disegno, per non essersi potuta comprendere una piccola porzione la quale internasi nell’orto Guarriello.
Per mettere in evidenza questi ultimi tre tratti del muro di accompagnamento ho dovuto praticare uno scavo in trincea lungo la linea 18-19 (Tav. XL).Tav. XL.
Rapporto 1:1000
Tav. XLI.
Rapporto 1:200
Come vedesi nel disegno (Tav. XLI, fig. 1.) mancano parecchi corsi ai due ultimi tratti di questo muro; per la qual cosa ho dovuto determinarne le livellette della fascia d’imposta e del piano stradale con gli elementi dei corsi superstiti e con il livello del tratto di antica via pavimentato 16-17 (Tav. XL), del quale appresso discorrerò.
La fig. 2. (Tav. XLI) ci dà maggiori particolari sui muri di accompagnamento.
R-R rappresenta il masso di fondazione, sul quale di qui a poco torneremo; T lo zoccolo, ripetuto anche nel cavo N da me praticato; S la fascia di coronamento, sottoposta al parapetto. A sinistra del cavo N esiste un sepolcreto M, sul quale al presente poggia la scala esterna Q della chiesetta dei SS. Cosimo e Damiano. Questo sepolcreto, o mausoleo, da me messo in luce, ha uno zoccolo di pietra calcarea a livello di quello dei muri di accompagnamento, e sopra di esso il paramento di mattoni triangolari di cateto m. 0.200, spessore m. 0.036 con l’ipotenusa per fronte esterno. Il rimanente dello spessore del muro è di struttura emplecton. Sul fondò della trincea N esistono delle tegole di argilla, inclinate verso l’arcata A (Tav. XLI, fig. 1.) per lo scolo delle piovane. Queste tegole portano la marca di fabbrica .
La muratura di fondazione R-R (fig. 2) ed O (fig. 1.) è di tufo trachitico e rapillo, pure vulcanico, di una consistenza così squisita da sembrare un sol masso. La stessa esiste in P (fig. 1.) di fianco e sotto la spalla sinistra dell’arcata A; il quale ultimo fatto prova ancora più che quest’arcata sia opera posteriore, non essendo verosimile che la muratura di fondazione originariamente sia stata così prossima al pelo d’acqua.
La esistenza di questa specie di muratura sotto i gravi massi lapidei, e la coincidenza dello zoccolo del sepolcreto M (fig. 2) a livello dello zoccolo del muro di accompagnamento a tanta vicinanza, di m. 0.67, da non permettere il passaggio, in sì angusto spazio, neppur di un uomo, mi hanno indotto a pensare che tale non dovette essere lo stato originario del ponte. Stimo che l’antichissimo, quello che fu gittato sul fiume Sabato appena estesa la via Appia da Capua a Benevento, sia stato costruito di massi di tufo trachitico, a simiglianza di Ponticello39. Rovinato quello, fu più solidamente costruito di massi lapidei, poggiandoli sulle antiche fondazioni dove erano buone. Di fatti, se non fosse stato così, perchè non avrebbero costruite le fondazioni con pietrame calcareo, tanto abbondante nei greti del fiume Sabato, dei torrenti vicini e nella campagna prossima, e dei quali son costruite non solo le fondazioni, ma anche le masse interne murali delle opere romane, qui esistenti, dell’epoca imperiale? Nei saggi da me praticati nei punti 23 e 24 (Tav. XL) ho riconosciuta la stessa specie di muratura antica, e la stessa ho vista demolire dai contadini pochi anni sono al di là del ponte Leproso, dove l’Appia cominciava a salire, oltre il camposanto di S. Clementina: e si apparteneva appunto ai muri di sostegno dell’Appia.
Aggiungo un’altra osservazione: non mi sembra verosimile che i romani, sì gelosi custodi delle tombe e dei sepolcri, abbiano potuto costruire il mausoleo, che è sotto le scale della chiesa dei SS. Cosimo e Damiano, di livello molto sottoposto a quello della via, massime per l’estrema vicinanza, come abbiam visto; è dunque più probabile che il mausoleo sia preesistito, col suo zoccolo poggiato sull’antico livello della via, quando essi furono costretti a sopraelevarla.
Penso dunque che in origine il ponte sia stato costruito, a simiglianza di Ponticello40, di massi di tufo trachitico; poi, nell’epoca della repubblica o nei primi tempi dell’impero sia stato ricostruito di massi lapidei; e infine restaurato con laterizii nella tarda epoca imperiale.
De Vita e Borgia, come dissi41, attribuirono al ponte Leproso la iscrizione del Grutero nella quale si dice che Settimio Severo e suo figlio abbiano restaurato un ponte; la quale iscrizione sembra che Garrucci riferisca invece al Ponte Tufaro. Non è possibile vedere chi abbia ragione, mancando una notizia precisa del sito ove la epigrafe fu letta da Ciriaco d’Ancona.
Se avessero ragione De Vita e Borgia, riterrei che i restauri fatti da Settimio Severo sieno proprio quelli di muratura di laterizii.
In un manoscritto di Alfonso de Blasio, scrittore Beneventano42, ho letto che Totila abbia rovinato due arcate di questo ponte; ma, l’autore non accennando la fonte cui attinse tale notizia, io non so tenerne conto veruno. Tanto più che poco dopo, nello stesso capitolo, dice di aver tratta questa opinione dal Pezza, il quale avrebbe asserito, sull’autorità del Biondo, e del Volaterrano43: fuit etiam sub Totila Gothorum Rege haec civitas eversa. Ma ciò non dà diritto a inferirne che nella rovina sia stato compreso eziandio il ponte Leproso.
Prima di lasciare questo monumento per avviarci in città, stimo pregio dell’opera affermare che è tutta una poesia quanto hanno scritto alcuni autori intorno alla esistenza qui presso della sepoltura di Manfredi, imperocché, se Carlo d’Angiò venne per la via Latina sulle colline di Calore, ove pose accampamento, se Manfredi era accampato sulla sponda destra di quel fiume, se la battaglia si svolse in quelle piane da Roseto a S. Marciano, se presso il Calore finì miseramente lo Svevo, è inverosimile affatto che il cadavere sia stato portato tanto lontano e in sito opposto a quello dell’azione campale; tanto più che il riconoscimento di esso avvenne proprio nel campo dell’Angioino, e non in città.
Bracci dell’Appia dopo il ponte — Appena dopo i muri di accompagnamento di sopra descritti, ricominciava la via nei punti 19-20 (Tav. XL), la quale prolungavasi in rettilineo appena per la lunghezza 20-22 di circa m. 70.00. Il qual tratto diverge alquanto verso occidente dall’asse longitudinale del ponte. Ho scoverto il pezzo della via 16-17 ben conservato. Esso ha il pavimento, summum dorsum o summa crusta, formato delle solite pietre calcaree poligone irregolari; e sul margine destro, nei punti 14 e 15 ha ancora al loro posto due scansaruote. Ai due lati della carreggiata, agger, convessa trasversalmente, più elevata, e larga circa m. 4.00, esistono i passeggiatoi, margines, larghi m. 1.80, sostenuti da muri, crepidines, spessi m. 0.80.
Questi passeggiatoi al presente sono ricoperti di una specie di acciottolato, che ha più lo aspetto di muratura; forse era quella struttura che i romani sottoponevano alle selci e chiamavano rudus, la quale ho trovato pure sotto le selci della carreggiata.
Dopo questo breve rettilineo di m. 70.00 circa, la via dunque dividevasi in due rami, uno prendeva a sinistra per l’attuale via campestre di Pantano (Tav. XL), l’altro volgeva a destra secondo la linea 22-23-24, la quale infila l’attuale via interna di S. Filippo. Nell’orto degli eredi Zazo, appena dopo la siepe, normale al rettilineo 20-22 dell’Appia, esistono molti avanzi di antiche costruzioni a profondità di m. 0.50 sotto il piano di campagna, il quale è alto due metri e mezzo circa su quello dell’Appia nel punto 22. Impedendo queste costruzioni il prolungamento del sudetto rettilineo, fui indotto a pensare che la via avesse dovuto divergere. E poichè era pure in me fisso il pensiero che l’attuale via di S. Filippo, nell’interno della città, fosse antica, feci praticare degli scavi di saggio nei punti 23 e 24 per rintracciare le sostruzioni del braccio dell’Appia verso di quella; ed a profondità di poco oltre un metro le trovai esattamente in allineamento del punto 22 e della via S. Filippo. Di più, studiando alcuni avanzi di grandiose terme, i quali sono, come dissi44, nella proprietà Palmieri, Cardone Oliva ed altri, tra la chiesetta di S. Cristiano e l’Orfanotrofio di S. Filippo Neri, notai che il prospetto principale di esse era parallelo alla via S. Filippo, e che quegli avanzi si protraggono oltre le mura della città, verso l’orto Morante. Per la qual cosa è indubitato che la via 22-23-24, da me scoverta, passava dinanzi le terme, e prolungavasi per la via S. Filippo, la quale dirigevasi all’Arco del Sagramento45, supposti rimossi i moderni ingombri delle case Penga e Capilongo, a destra, e Pasquino e Torre46 a sinistra.
Garrucci47 afferma che Orazio, nel suo viaggio da Roma a Brindisi, dovè entrare in Benevento per una porta non molto discosta dalla moderna Port’Arsa. Precisamente, ci troviamo di accordo, perchè la via S. Filippo comincia poco al di sopra di Port’Arsa. Soltanto non è da intendere che l’antica porta doveva esser sita come l’altra, lungo il perimetro delle attuali mura, imperocchè queste sono dell’epoca longobarda; e, di più, le terme si prolungavano ancora oltre l’attuale pomerio, giusto quanto ho detto poco fa. Borgia48, invece, sulla notizia raccolta da Falcone, che i Papi, venendo da Roma, usarono entrare in Benevento per la porta di S. Lorenzo, asserisce che di là entrava l’Appia. Ciò non è esatto. Questa via non poteva entrare per la detta porta, imperocchè avrebbe dovuto fare un brusco ed erto gomito a sinistra tra l’orto e il palazzo Pacca, l’uno a sinistra, l’altro a destra, essendo situata quella porta fuori mano, ed a livello molto superiore alla via Appia, come dimostrerò allorchè parlerò dell’edifizio dei SS. Quaranta. Nè vi sarebbe stata ragione. Invece io stimo che verso porta S. Lorenzo tirava in linea retta la via Latina, come abbiamo già veduto49. Borgia si ha lasciato sfuggire una buona occasione di spiegare il suo ingegno su questo punto, allorquando ha parlato del sito dell’antica Porta Biscarda, contrastando giustamente l’opinione dell’Arcidiacono Della Vipera50, il quale la volle confondere con l’attuale Porta Rettore, ma errando pur egli supponendola nel sito della presente Port’Arsa o delle Calcare51. Invece tale porta, detta pure de Yscardi52, siccome rilevo da due antichi manoscritti sulle chiese di Benevento53 era posta in un sito mediano tra Port’Arsa e Porta S. Lorenzo. Parmi perciò ben probabile, se non sicuro addirittura, che per questa porta, nell’epoca medioevale, dalla via Appia si sia entrati in Benevento, allorquando Arechi54 ebbe circuita di mura quella sezione della città da port’Arsa a porta S. Lorenzo. Ma torniamo indietro un’altra volta.
Dissi55 che il ramo sinistro per la via di Pantano congiungevasi alla via Latina; e di vero, seguendo il cammino di quella, incontrasi a destra un’altra via campestre che sbocca sulla via Latina in contrada Cellarulo. Questo ramo doveva servire per chi voleva portarsi dai luoghi dell’una via a quelli dell’altra per il più corto cammino.
Affermai56 pure che in questo sito tra il ponte Leproso e Cellarulo esistette la città più antica57; ora questo ramo sinistro dell’Appia circondava e attraversava una lunga distesa di fabbricati, i cui vestigii tuttora osservansi dall’orto Zazo sino a Ponte Fratto58. Per la qual cosa resta sempre più ribadito il mio concetto, che i romani, sempre pratici, gittarono il ponte Leproso in questo sito, per il bisogno di fare sboccare l’Appia verso il mezzo della città di allora.
Questa via, per di sotto l’Arco del Sagramento, saliva la via omonima oggi detta Carlo Torre59, e sboccava sulla piazza del Duomo; donde, per il Corso Garibaldi, perveniva al Pontile, e di là all’Arco Traiano. Queste vie son tutte antiche, essendovisi scoverti sotto i miei occhi le tracce delle fognature e del selciato romani.
Forse in epoca più remota dalla via del Sagramento si poteva imboccare quella di S. Diodato, e di là più brevemente pervenire all’incontro della via Egnazia, al di sotto della chiesetta di S. Lucia fuori l’Arco Traiano, tenendo presente però che i livelli antichi della campagna tra S. Diodato e questa chiesetta erano più bassi degli attuali.
Note
- ↑ Pag. 253.
- ↑ Lib. 2. Silva, in Surrentino Pollii.
- ↑ Pratilli, op. cit. pag. 14 e seguenti. Garrucci, Le antiche iscrizioni di Benevento, pag. 36.
- ↑ Lib. 20.
- ↑ Nella 1. 2. § 36. D. de orig. jur.
- ↑ Garrucci, op. ult. cit. pag. 36.
- ↑ Vedi a pag. 243.
- ↑ Op. ult. cit. pag. 36.
- ↑ XLI, 32 al 27.
- ↑ Luogo ult. cit. Vedi pure Pratilli, op. cit. pag. 19.
- ↑ Vedi a pag. 249.
- ↑ Op. cit. pag. 399 e seg.
- ↑ Le antiche iscrizioni di Benevento, pag. 41.
- ↑ Vedi carta topog. Stato Maggiore 1,50000, Fol. 173. III.
- ↑ Op. ultima cit. pag. 37 e 28 (n. 10).
- ↑ Queste cifre ultime indicano la spesa di 22 mila sesterzii.
- ↑ Pag. 1020, n. 2.
- ↑ Op. cit. pag. 181 in nota.
- ↑ Op. cit. tom. II, pag. 66, in nota.
- ↑ Vedi carta topog. Stato Maggiore 1:50000, F. 173. II.
- ↑ Id.id.id.
- ↑ Libro II. capo VIII.
- ↑ Op. ult. cit. pag. 36.
- ↑ Op. cit. pag. 402. Copiò Pellegrini, App. alle antich. di Capua, pag. 354.
- ↑ Anche il ponte antico sotto Buonalbergo della via Egnatia, come vedemmo (pag. 257), è chiamato al presente delle Chianche.
- ↑ Vedi carta topog. cennata, F. 173, II.
- ↑ Thesaurus antiquitatum Beneventanarum. pag. 180 e 181.
- ↑ Op. cit. parte II, pag. 67, nota (1).
- ↑ Vedi pag. 269 di quest’opera.
- ↑ Dal Ponte Corvo il torrente lascia il nome Corvo e prende quello di Serretella.
- ↑ Vedi carta topog. Stato Maggiore 1:50000, F. 173, II. Ivi il ponte Serretella, cui si riferisce Borgia, è quello dove è segnata la quota 113, alla confluenza col Calore.
- ↑ A seconda della dizione latina o italiana
- ↑ Op. cit. pag. 181, nota.
- ↑ Op. cit. parte II pag. 66, nota.
- ↑ De Vita, op. cit. pag. 181, nota.
- ↑ Mi esprimerò sempre così, perchè per secoli il mulino a valle del ponte fu posseduto dalla famiglia dei Marchesi Pacca sino a pochi anni sono, allorchè essi lo venderono al Sig. Federico Capone. Ora è passato ad Achille Ventura.
- ↑ Pag. 242 di quest’opera.
- ↑ I due frammenti che vedonsi a sinistra EAT ETEM furono interpretati da Garrucci (Le antiche iscrizioni, ecc. pag. 82, N. 75) pro bEATitudinE TEMporum dominorum nostrorum. Ho un dubbio, che egli siasi sbagliato, perchè la distanza tra la commessura dei due frammenti e la prima E del secondo è troppo grande, di m. 0.28. E malamente egli dice che sieno sotto uno degli archi del ponte.
- ↑ Vedi pag. 255 di quest’opera.
- ↑ id.id.
- ↑ Vedi pag. 266 di quest’opera.
- ↑ Istoria inedita di Benevento del 1656, libro I.° capit. XVII.
- ↑ Blondum, historiarum lib. 6 et Volaterarum lib. 6, fol. 88.
- ↑ Pag. 245.
- ↑ Vedi pag. 219 di quest’opera.
- ↑ Intendo di quella casetta che si appoggia all’Arco del Sagramento, non del palazzo Torre, che è di rincontro.
- ↑ Le antiche iscrizioni di Benevento, pag. 41.
- ↑ Opera cit. tom. II. pag. 67 e 68 in nota
- ↑ Pag. 244.
- ↑ Cronologia del Capitolo Beneventano, pag. 202
- ↑ Borgia, op. cit. parte 2.a, pag. 419 e 420, in nota.
- ↑ Autore e luogo ultimi citati.
- ↑ Sono ligati con altri in un volume in carta pecora, intitolato Parrocchie e Chiese antiche, il quale si conserva nella biblioteca Arcivescovile di Benevento.
- ↑ Borgia, op. cit. tom. II. pag. 369 in nota.
- ↑ Pag. 244.
- ↑ Pag. 244 e seg.
- ↑ Giordano de Nicastro (nell’opera inedita di sopra riferita, libro II, pag. 245) afferma pur egli che la città antica siasi estesa al di là di Cellarulo, sebbene le dia poi un circuito di sei miglia, che non è affatto esistito. Alfonso de Blasio (nel già citato manoscritto) è dello stesso parere. Fa meraviglia come Borgia abbia potuto asserire il contrario, mentre questi altri scrittori lo precedettero, e egli si sarebbe potuto avvalere delle notizie da loro date.
- ↑ Pag. 244 e 250.
- ↑ Vedi pag. 219.