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la composizione dei «caratteri»

attenzione, strappar loro l’applauso», perché dunque non avrebbe affrontato il giudizio di un pubblico piú vasto? E chi mai potrebbe per ciò disconoscere che Teofrasto anche nel frammento della sua metafisica pubblicato dal Ross e dal Fobes, anche nelle sue opere di botanica, ci appare scrittore semplice ed evidente, pur tra le difficoltà e asprezze degli argomenti?

Piú naturale a me sembra che Teofrasto abbandonatosi, qualche volta, a lezione, a descrizioni di caratteri, proprio cosí come racconta Ateneo, e soddisfatto il gusto degli ascoltatori, ponesse mano all’operetta, e la pubblicasse in questa forma che noi oggi la leggiamo e che la leggeva, nel primo secolo avanti Cristo, l’epicureo Filodémo di Gàdara. Del resto, chi bene osservi la composizione dei «Caratteri», si accorgerà sùbito che il comico vi si accoppia a non so che grave e pietoso, e che lo scrittore non è satellite che ferisce, né carnefice che marchia, ma un interprete fedele che rispetta nell’errante o colpevole l’umana natura il cui suggello non è mai cancellato, e che però, pur tra gli speciali lineamenti dell’attica fisonomia, scopre liberamente, ma pietosamente, la generale e perpetua impronta della nostra indole. È Teofrasto che ha detto che i malvagi gioiscono assai piú dell’infelicità degli altri che della propria fortuna, e che gl’infelici sono meno da compiangere che gl’invidiosi, poiché quelli non soffrono che i propri mali e gl’invidiosi invece sono tormentati dalla felicità degli altri al pari della propria disgrazia; e ha poi soggiunto che non si saprebbe essere uomini virtuosi senza essere uomini pii, e che la religiosità non consiste in celebrare numerosi sacrifizi alla divinità, il che è soltanto segno di fastosa opulenza, ma consiste nell’omaggio che un’anima pura e onesta rende alla divinità. C’è nei «Caratteri» quell’equilibrio tutto teofrasteo che si riscontra anche nelle altre sue opere; e c’è, dalle definizioni uniformemente aristoteliche dei singoli vizi alle descrizioni dei singoli caratteri, una sorta di compromesso tra la prosa aristotelica dell’«Etica a Nicomaco» e la prosa platonica degli ultimi libri della «Repubblica», che, esso sí, sembra non soltanto naturale, ma studiato.

Diogene Laerzio ricorda che Teofrasto scrisse molte lettere e


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