Guerra in tempo di bagni: racconto/VIII - Mina e contromina
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VIII.
Mina e contromina.
Mentre, per vedere di riordinare un pochino le idee, ch’eran tutte sossopra, l’ammiraglio s’avviava, irto e concentrato, verso la tranquillità del suo fumoir, gli venne in mente di tornare allo châlet, col pensiero di spiare quel che facesse Bice, e magari col proposito di farle una paternale solenne. Ma entrato appena, così astratto com’era, battè una ginocchiata contro il cassone scuro che, spalancato e vuoto, ancora stava nel saloncino a pianterreno. Se l’ammiraglio avesse avuto famigliarità col palcoscenico, tosto avrebbe riconosciuto, dalla forma solida, semplice e speciale, uno di quei cassoni voluminosi che compongono, per il trasporto dei vestiari, l’enorme bagaglio delle compagnie drammatiche moderne; e invece di fantasticare sopra certe sigle che spiccavano, in bianco, sopra le assi dipinte di verde scuro, avrebbe subito capito che quell’indovinello CDBB, simile a un rompicapo, significava solamente: Compagnia Drammatica Bellotti-Bon.
L’ammiraglio chiamò Prospero, che stava sarchiando nel giardino, e gli chiese:
— Che cos’è quest’impiccio?
— Mi pare, — rispose il giardiniere, — la casa della modista.
— Accidenti alle modiste! fa venire Mario e Gennaro, e levate di qui questo bussolotto d’inferno.
Accorsero il domestico e il portiere e, senza gran pena, sollevarono il cassone che dianzi era parso così pesante.
— Eccellenza, dove lo dobbiamo mettere?
— Bruciatelo.... anzi, no! — esclamò l’ammiraglio, quasi colpito da una bella idea, — mettetelo in un cantone del giardino. là, presso la piccionaia; se quel matto birbone avesse l’audacia di ripresentarsi, lo chiudo lì dentro e lo rimando all’albergo come un collo di merci, per fargli fare la figura che merita.
Tale vendetta sorrise non solo all’ammiraglio, ma ben anche a Gennaro, cui sorrise anche più l’idea di far ballare il contino, durante il trasporto, per compenso di tutte le noie che, non esclusi gli schiaffi, gli aveva procurato e di quelle altre che ancora avrebbe potuto procurargli.
L’ammiraglio, intanto, salì la scaletta dello châlet e si fermò sul ripiano. Non si sentiva rumore di nessuna specie; nè si scorgeva traccia d’anima vivente: lo châlet pareva disabitato.
— Che ho da fare? — pensò l’ammiraglio, — una buona predica ci starebbe veramente bene; ma ora sono troppo eccitato e non vorrei, poi, con quell’umore capriccioso di Bice, raggiungere precisamente l’effetto contrario: ci sarà tempo questa sera.
E ficcate le mani in saccoccia, se ne tornò al suo prediletto fumoir, dove la sua nervosità subito gli procurò una grande e irreparabile disgrazia, la rottura della pipa olandese ch’egli amava quasi più delle Vite parallele di Plutarco.
— La cosa è chiara! — brontolò, con un brivido superstizioso, — mi trovo in un periodo di grande iettatura.
Verso sera, l’ammiraglio mandò Lisetta in cerca di Bice: la cameriera tornò per dirgli:
— La signorina domanda scusa, ma s’è messa a letto, perchè ha un pochino di mal di testa.
— Perdio, chiamate il dottore!
— Non si spaventi, signor padrone, non c’è di che: proprio ha una cosa da nulla che, col sonno, passerà.
— Ne siete certa?
— Si figuri! — rispose Lisetta, con un risolino, — a noi donne arrivano spesso tali disturbi insignificanti, ma non ce ne diamo per intese; vengono, passano e buona notte.
L’ammiraglio pensò che il dolor di testa fosse un pretesto per evitare il suo sermone e in fondo ne fu contento anche lui, perchè se a Bice non garbava di sentir le prediche, a lui piaceva anche meno di farne.
Una buona sfuriata gli andava, ma la predica no.
E tanto per sfogarsi un pochino, fece una sfuriatella con Lisetta, dicendole che non stava attenta a nulla e che non le importava neppure cascasse il mondo, purchè rimanesse salva la sua guardia di finanza.
Lisetta prese in gran pace la lavata di testa, poi se n’andò con una crollatina di spalle che rimediava a tutto, perchè ella era della natura dei gatti.
Eran sonate da poco le dieci, quando Gennaro bussò all’uscio del fumoir.
— Avanti! — fece l’ammiraglio.
— Signor padrone, — disse Gennaro, — c’è un uomo che dice d’aver da consegnare un biglietto in sue mani, della massima urgenza.
— L’hai fatto entrare?
— Signor no: l’ho lasciato in strada col portone chiuso, non si sa mai: fosse un’altra modista!
— Che uomo è?
— Ha un gran cappellone: pare un bagnino: mi ha detto che si chiama Tenebrone.
— Tenebrone! e chi diavolo è? Fallo entrare in sala, che vengo subito: e bada di tenerlo d’occhio.
— Non dubiti!
Gennaro, sorvegliando con sguardi obliqui e minacciosi, introdusse nel vestibolo il buon Tenebrone, il quale non sapeva capacitarsi come quel villano di portiere lo guardasse dalla testa ai piedi, a quel modo, come si guarderebbe un ladro o una bestia rara.
Giunse tosto l’ammiraglio, il quale, alla vista di quel nasone, di quella figura comica, avrebbe fatto una risata, se non avesse avuto ben altro per la testa, e gli chiese:
— Chi ti manda?
— La signora Teresina.
— Teresina chi?
— Una delle due Teresine.... — balbettò Tenebrone, e porgendo una lettera: — del resto, veda lei!
L’ammiraglio, stordito in tale abbondanza di Teresine, prese il biglietto, e dalla busta riconobbe tosto il carattere della maggiore delle Cingoli.
— Ci siamo! — pensò, — qualche altra diavoleria!
Lacerata febbrilmente la busta, ne cavò un bigliettino su cui non si leggevano che queste parole:
“State in guardia, stanotte, ammiraglio! Non abbiamo potuto afferrare di che si tratti, ma è positivo che si trama qualche cosa dalla parte del giardino.„
L’ammiraglio rimase attonito, e poi macchinalmente chiese a Tenebrone:
— E non sai altro, tu?
— Io non so nulla.
— Ah, è vero! — esclamò l’ammiraglio, e data una liretta a Tenebrone lo congedò dicendogli: — Avvertirai la signorina che hai eseguito la commissione e che sta bene.
Poi, fece chiamare Prospero, il giardiniere, e alla presenza di Mario e di Gennaro, disse:
— Stanotte è necessario vigilare continuamente sopratutto nel giardino: io starò alzato, nel mio studio; qualunque cosa succeda, fosse pure insignificante, correte ad avvisarmi!
Poi, rivolgendosi a Prospero:
— Hai notato niente di strano nel giardino?
— Nulla, — rispose Prospero, — poco fa ho sentito un tonfo e mi sono persino affacciato alla finestra della casetta, ma non ho visto nulla e non me ne sono dato per inteso, perchè, con tanti gatti che vanno e vengono, di quei tonfi lì, se ne sente ogni momento.
— Va bene, ma stanotte, converrà badare anche ai salti dei gatti.
E l’ammiraglio non aveva torto, perchè, se avesse guardato meglio, avrebbe veduto miss Trollope la quale, raccolto da terra qualche cosa che non era un gatto, se ne tornava guardinga dentro lo châlet.
Per dire la verità, l’ammiraglio, in cuor suo, prestava una fede assai scarsa alla denuncia sollecita della Cingoli. Sarà un’altra boieria, — pensava, — come quella del portalettere! Qualche cosa gli faceva presentire che quelle due ragazze inacidite si lasciavano abbindolare, mistificare, per la smania cronica di ficcare il naso nelle faccende altrui: ma, tutto considerato, stava in guardia contro ogni sorpresa possibile. Del resto, gli pareva impresa da pazzi un tentativo in quei quattro palmi di giardino, su cui potevasi vigilare con grande facilità.
— Già! — borbottava, — ci vorrebbe un pazzo!... ma un innamorato è forse un savio?
Istintivamente, dalla finestra diede una occhiata in giardino e vide che i suoi tre uomini s’erano seduti presso la fontanella; per questo lato, dunque, poteva rimanere tranquillo. E tanto tranquillo rimase, che si sdraiò sopra un divano, prese in mano le Vite di Plutarco e giunto alle prime gesta di Antonio e di Cleopatra, cominciò a russare, e profondamente s’addormentò.
Al giardiniere, a Mario, a Gennaro s’era aggiunto un rinforzo, affrettiamoci a dirlo, di ben dubbio valore: la maliziosa Lisetta.
— Potete andarvene a letto, — le aveva detto Mario, sempre amareggiato dal fantasma della guardia di finanza, — per quel che ci sarà da fare, siamo anche in troppi.
— Non mi pare, — rispose Lisetta, — con quel fiasco che avete davanti, tra poco sarete decimati: ecco Gennaro che già sonnecchia e casca a pezzi.
— Io non sonnecchio affatto, — mugolò Gennaro, — io penso.
— Bestia curiosa! — soggiunse Prospero, — quando pensa russa peggio d’un contrabasso.
— Vi dico che non dormo e che ci vedo e sento meglio di voi! — replicò Gennaro, inasprito, — e sarò proprio io, ci scommetto, che agguanterò per il collo quella canaglia del conte!
— Tu bevi bene, — osservò Lisetta, — ma non sai dire che degli spropositi. Si vede proprio che non capisci niente. Perchè dài della canaglia a quel signore, che un giorno o l’altro sarai costretto a inchinare e a servire come padrone?
— Ma siete matta in mezzo al cervello?
— Niente affatto, — disse Prospero, Lisetta ragiona giusto. E vi dirò, francamente, che pensavo la stessa cosa anch’io. Non ci facciamo illusioni: la padroncina tiene dalla parte del conte e, se loro due sono d’accordo, l’ammiraglio può sbuffare quanto gli pare e piace, ma dovrà finire per adattarsi e fare il pateracchio.
— Ne dubito, — esclamò Mario, — il vecchio è più testardo di un mulo!
— Io non so nulla! — soggiunse Gennaro predominato da un’idea fissa, — non conosco altro padrone che sua eccellenza: e se mi arriva sotto alle unghie quell’imbroglione di conte, mi voglio sfogare, e facendo finta di nulla, gli do certe strette che n’ha da portare i lividi per un pezzo.
— Bel gusto! — replicò Lisetta, — bada, chè puoi avertene a pentire.
— Sicuro, dice bene Lisetta, — rincalzò il giardiniere, — noi dobbiamo fare nient’altro che il nostro dovere, senza maltrattare nessuno: se accadesse un guaio, sono sempre gli stracci che andrebbero in aria. E non bere più, chè a momenti il fiasco è asciutto.
— Buona guardia! — concluse Lisetta, con accento canzonatorio, — badate che la rugiada non vi faccia gonfiare i peperoni.
Quando Lisetta se ne fu andata, Mario cominciò a borbottare:
— Guarda che bella nottata che ci tocca passare.
— Per fortuna che la notte è calda e serena.
— Tanto serena e calda, che in verità si dormirebbe meglio all’aperto che in camera! — mormorò il domestico, quasi rispondendo a un intimo pensiero.
Gennaro fece un grugnito d’approvazione e appoggiò la schiena, con le mani conserte, al piedestallo di una statua di Flora, che pareva versare, sulla sua testa scarmigliata, un odoroso cornucopia di giacinti, di primule, di pervinche, di papaveri.
Mario, a sua volta, appoggiò i gomiti sui ginocchi, reggendosi la testa fra le mani, come Archimede assorto in una profonda elucubrazione matematica.
Prospero, vinto anche lui dal sopore, si alzò, fece cautamente un giretto nel giardino, poi, confortato da quella grande claustrale tranquillità, si buttò a sedere sopra un’aiuola d’erba tenera, che pareva un tappeto: ma in un certo modo di sedere, che pareva quasi sdraiato: in capo a dieci minuti, sdegnando ogni ipocrisia, si distese lungo sull’erba, al monotono canto del grillo, e bentosto le tre vigili scolte somigliavano assai alle guardie leggendarie del santo sepolcro.
Era passata già un’ora, quando Mario, ch’era in postura assai disagiata e aveva il sonno leggero, trasalì e si stropicciò le palpebre, guardando attorno, in quella oscurità. Gli pareva di avere sentito un colpo secco, sulla sabbia, dalla parte del muro, come d’un oggetto pesante caduto per terra, indi un leggero bisbiglio nella strada.
Mario chiamò sottovoce:
— Prospero! Gennaro!
Nessuna risposta.
Mario allungò il piede e diede un calcio negli stinchi a Prospero, che si destò di soprassalto, gridando:
— Che c’è?
— Parla piano, figlio d’un cane! hai sentito nulla?
— Niente.
— Io sì: o almeno mi pare d’aver sentito un colpo.... un botto.... un non so che....
Rimasero qualche minuto in ascolto, e in quel silenzio profondo intesero un pss! pss! che pareva un sospiro.
— Non c’è dubbio: ci siamo! — mormorò Prospero, — svegliamo questa bestia di Gennaro.
— Lascialo stare, non ci può essere che d’impaccio: lo sveglieremo se sarà necessario.... Vedi niente?
— Perdinci: mi pare di vedere un’ombra sopra il muro.
— E io ne vedo una muoversi attorno lo châlet.
— Leviamoci le scarpe.
Così fecero e curvi, guardinghi, strisciando lungo le spalliere, come due caraibi, s’avvicinarono un poco al punto minacciato.
Sentirono, intanto, due colpetti leggerissimi sui cristalli delle finestre e una voce soffocata, che diceva:
— Signorina!
Qualche cosa di nero, che poteva essere una testa, un cappello o un gatto, s’agitava al di sopra del ciglio del muricciolo. A un tratto, si udì un fracasso improvviso e l’ombra sparì, mentre un’altra usciva dallo châlet e, perplessa un momento, si nascondeva poi dietro alti gruppi di lactanie!
— Accidenti! — fece Mario, — ho paura d’essermi spaccata la testa!
Nell’oscurità, pure inoltrandosi lentamente, Mario, a testa bassa, aveva investito, come una catapulta, contro una leggera e corta scala a piuoli, ch’era precipitata a terra, rompendo un vaso di camelie. Il fracasso aveva svegliato Gennaro che balzando in piedi, tutto insonnolito, s’era messo a gridare:
— All’armi!
— Senti, — esclamò Prospero, — quest’altro imbecille!
E prima che l’avesse potuto richiamare all’ordine, Gennaro, parendogli una trovata da maestro, aveva dato due o tre colpi alla finestra del fumoir, poi s’era slanciato per i viali del giardino, come un cane alla ricerca della selvaggina.
— Gennaro, vieni qua! — aveva gridato Mario.
— No, venite qua voi altri.... c’è qualcuno.... ecco.... gira dalla parte della serra.... ah! l’ho preso, aiuto!
Mario e Prospero in due salti, furono presso Gennaro, che aveva preso una bracciata di piante mentre l’individuo fuggiva, ma Prospero gli sbarrò il passo e quasi lo ricevette fra le braccia, dicendogli sottovoce:
— Signor conte, stia fermo e tranquillo, chè non le sarà fatto nessun male.
Dal fondo del giardino si sentì la voce dell’ammiraglio:
— Ebbene?
— Abbiamo il prigioniero, — rispose trionfante Gennaro, che aveva le mani sanguinanti per innumerevoli punzecchiature di spine.
— Presto, nel cassone! — gridò l’ammiraglio.
Prospero, infatti, conduceva il prigioniero verso il cassone, mormorando sempre, memore delle riflessioni di Lisetta:
— Lasci fare, non dubiti: conosco i riguardi che gli son dovuti.
E il prigioniero, conviene dirlo, si prestava con grande docilità e si pose anzi da sè, raggomitolandosi bene, dentro il cassone, che stava nel giardino: mentre Prospero, attento a impedire che Gennaro facesse qualche mal garbo, chiudeva il coperchio e, aiutato dalla perizia marinara di Mario, legava in croce con una corda quel misterioso bagaglio. Poi disse all’ammiraglio:
— Siamo pronti!
L’ammiraglio si avvicinò di qualche passo e rivolgendosi al cassone, disse, con gravità sardonica:
— Felicissima notte, caro conte: sarete ricevuto all’albergo con tutti gli onori che merita un sorcio caduto nella trappola.
Dall’interno del cassone, s’intesero tre colpetti leggeri e secchi, come nelle sedute spiritiche.
— Prego! — proseguì l’ammiraglio, che si divertiva un buscherio, — non fate male alle vostre mani bianche e delicate: del resto, siete abituato a star dentro le casse: i miei uomini vi porteranno assai meglio dei facchini della modista. Animo! Trasportate questo collo posapiano, franco di spesa a domicilio.
Mario e Prospero sollevarono il cassone, con molta delicatezza di movimenti, e uscirono, seguiti dagli epigrammi gioviali dell’ammiraglio, che dimenticava, in tanta letizia, persino la rottura della pipa olandese, e centellinava con voluttà il soave liquore della vendetta.
Nel brevissimo tragitto, fra la palazzina e il Grand Hôtel, i due portatori notarono un movimento insolito di persone, e appena passata la cancellata dell’albergo, si videro venire incontro garzoni e domestici, e il segretario che disse loro:
— Va bene: è roba per il conte Tibaldi: lasciate fare a noi: ecco, per il vostro disturbo!
E Mario e Prospero, trasecolati, si videro mettere in mano, ciascuno, un biglietto da venticinque lire. Istintivamente, avrebbero voluto respingere quella grossa mancia. Dio buono! come si fa a trovar la forza per rifiutare venticinque lire?
Fatto è che se ne tornarono addietro contenti come pasque: fecero all’ammiraglio regolare rapporto di quanto era avvenuto, passando sopra alla generosa mancia, con ammirevole accordo.
L’ammiraglio, a sua volta, nell’eccesso della propria soddisfazione, diede cinque lire a testa, così a loro due, quanto a Gennaro, che per dirla schietta, se le meritava pochissimo.
Dopo di che, andò allo châlet, onde rassicurare la sua Bice, intorno a tutto quello scompiglio.
L’ammiraglio, nell’attraversare il giardino, pareva alla testa del suo stato maggiore, perchè circondato da tutta la gente di servizio che portava lampade e candele, come una piccola processione, tanto che Prospero aveva detto sottovoce a Lisetta:
— Adesso, arriva il viatico!
Entrati nel salotto a pianterreno, tutti si arrestarono, con un generale oh! di sorpresa, che pareva un coro concertato dal Mascagni.
Tranquillamente seduta sopra un divano, c’era miss Annie Trollope vestita da uomo.
— Ah, che bel biondino! — pensò Lisetta.
— Che cosa significa questa mascherata? — gridò l’ammiraglio, — perchè la trovo qui in questo modo?
— Me ne spiace per lei e per me, poichè a quest’ora avrei dovuto essere alquanto lontana.
— E Bice dov’è?
— Non saprei dirlo.
— Non è in camera sua?
— No; era uscita un momento nel giardino e poi non è più ritornata: credevo fosse da lei.
— E come mai non l’avete veduta? — urlò l’ammiraglio, volgendosi ai domestici.
— Noi non abbiamo visto che un uomo!
— E quell’uomo.... era lei! — soggiunse, con calma, miss Annie.
L’ammiraglio si lasciò cadere sopra una sedia, senza trovar più nemmeno la forza di dare sfogo a qualche centinaio d’accidenti.
— E sono io!... sono proprio io!... — gemeva, — io stesso che l’ho spedita al conte come un pacco postale! e che cosa posso fare adesso? che fare, corpo di Giuda?
Miss Annie rispose, con pacatezza:
— Una cosa sola: dare la vostra santa e paterna benedizione!
L’ammiraglio chinò la fronte, davanti alla logica inoppugnabile dell’inglese e, dopo avere pensato un pochino, crollò la grossa testa bonaria, e diede un pugno sul tavolino, esclamando:
— Oh, dopo tutto, non è mica una gran disgrazia! sia fatto quel che vuole il destino.
E preso un foglio, con una busta, scrisse:
“Figliuoli miei, venite: papà v’aspetta.„
E sulla busta:
“Bice e Giorgio Tibaldi. — Grand Hôtel.„
Tutte le faccie s’illuminarono di grande letizia, e Mario, memore anche delle venticinque lire, volò più che non corse al Grand Hôtel. Mezz’ora dopo, nella gran sala terrena della palazzina Liberti, l’ammiraglio accarezzava dolcemente la sua bionda creatura, dicendo a Giorgio:
— Malandrino, voi me la rubate!
— Al contrario! — rispose Giorgio, prendendo Bice a braccetto, — ve la restituisco, raddoppiata di tenerezza; avevate una figlia e ora avete anche un figlio che non vi adora meno di lei.
— E così sia! — concluse l’ammiraglio, — questa sarà la tana dell’orso marino: e quello, — aggiunse, indicando lo châlet, dolcemente illuminato dalla luna, sorta allora, — quello sarà il nido dei vostri amori.
E Giorgio, con Bice a braccetto, istintivamente si avviò verso il giardino.
L’ammiraglio lo arrestò con un abbraccio, esclamando gaiamente:
— Oh, non ancora! Per andare a quello châlet, non si passa dal giardino. Si passa.... dal municipio!
Fine.