Gli duoi fratelli rivali/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO II.

SCENA I.

Don Ignazio, Simbolo.

Don Ignazio. Dura cosa è l’aver a far con i servidori: sa ben Simbolo quanto desio di andar a trovar mon’Angiola, e non ritorna. Ma eccolo. — Come hai fatto aspettarmi tanto, o Simbolo?

Simbolo. Come saprete quanto ho fatto in vostro serviggio, mi lodarete della tardanza. Sappiate che incontrandomi con don Flaminio, mi domandò con grande instanza di voi; e domandando io la caggion di tanta instanza, rispose che non voleva dirlo se non a voi solo. Mi lascia, e m’incontro con Panimbolo, il quale altresí mi dimandò di voi; e pregandolo mi dicesse che cosa chiedeva da voi, disse in secreto che don Flaminio aveva conchiuso col conte di Tricarico il matrimonio della figlia, e che vi vuol dare quarantamilla ducati purché foste andato a sposarla per questa sera. ...

Don Ignazio. Oimè, che pugnale è questo che mi spingi nel core? Mi rompi tutti i disegni e conturbi quanto avea proposto di fare: me hai morto!

Simbolo. ... Io, accioché non vi trovasse prima di me e vi cogliesse all’improviso, corro di qua, corro di lá per trovarvi, né lascio luoco, dove solete pratticar, che non avesse cerco. Fratanto considerava fra me stesso cotal nuova: cado in pensiero che sia un fingimento di vostro fratello di scoprir l’animo vostro, se stiate innamorato d’alcuna donna. ...

Don Ignazio. Buon pensiero, per vita mia! [p. 219 modifica]

Simbolo. ... Per chiarirmi di ciò, con non men subito che ispedito consiglio me ne vo in casa del conte di Tricarico, e non vedo genti né apparecchi di nozze. Piglio animo ed entro con iscusa di cercar don Flaminio, e me ne vo insin in cucina e non vi veggio né cuochi né guattari. Dimando di don Flaminio, e mi rispondono che è piú di un mese che non l’han veduto. Mi fermo e veggio il cappellano: entro in ragionamento con lui, e mi dice che il conte questa mattina è gito a Tricarico a caccia, e mi dice che molti giorni sono che del matrimonio piú non si tratta, anzi stima che don Flaminio vuol dargli la baia.

Don Ignazio. O Simbolo, che sia tu benedetto mille volte, ch’avendomi con la prima nuova tolto l’anima, con questa me l’hai riposta in corpo! Quando mi disobligarò di tanto obligo?

Simbolo. Or dunque, venendo a voi don Flaminio a farvi la proposta, accioché piú l’inganniate e confirmiate nel suo proposito, mostrate grandissima allegrezza, accettate l’offerta; e si dice per questa sera, voi diteli per allora.

Don Ignazio. Or questo sí che non farò io, ché non mi basteria il cuor mai.

Simbolo. Sará forza che lo facciate.

Don Ignazio. Mi farei uccider piú tosto.

Simbolo. E se non volete, farete che vostro fratello s’accorga che stiate innamorato di Carizia, e come uomo di torbido e precipitoso ingegno vi preverrá a tôrsela per moglie, o verrete a qualche cattivo termine insieme.

Don Ignazio. Dubbito di non incorrere in qualche inconveniente peggiore.

Simbolo. Che cosa di mal di ciò ne può avvenire?

Don Ignazio. Son disposto far quanto tu mi consigli.

Simbolo. Ecco madonna Angiola che viene a casa. [p. 220 modifica]

SCENA II.

Angiola, Simbolo, don Ignazio.

Angiola. (Conosco a prova che il peso degli anni è il maggior peso che possa portar l’uomo su la sua persona, poiché in sí breve viaggio che ho fatto, son cosí stanca come si avesse portato qualche gran soma).

Don Ignazio. (Vo innanzi a toglierle la via).

Angiola. (Son inciampata con don Ignazio c’ho cercato fuggir con ogni industria, ché so che cerca parlarmi di Carizia mia nipote; né vorrei che prorumpesse in qualche cosa men ch’onesta).

Don Ignazio. Signora Angiola, ho desiato gran tempo ragionar con voi d’un negozio importantissimo.

Angiola. Eccomi al vostro commodo: ben la priego a non trattarmi di cosa che men che onesta non sia.

Don Ignazio. Certo non farei tanto torto alla sua bontá, alla mia qualitá; né l’importanza del negozio né il tempo richiede questo.

Angiola. Poiché le vostre costumate parole, degne veramente di quel cavaliere che voi sète, m’hanno sgombro dal cuor ogni sospetto, eccomi pronta ad ogni vostro comando.

Don Ignazio. Sappiate, madre mia, che da quel giorno — che non so si debba chiamarlo felice o infelice per me — che vidi la bellezza e l’oneste maniere di Carizia vostra nipote, m’hanno impiagata l’anima di sorte che, se voglio guarire, è bisogno ricorrere a quel fonte donde sol può derivar la mia salute.

Angiola. Signor don Ignazio, so dove va a ferir lo strale del vostro raggionamento.

Don Ignazio. Non ad altro che ad onesto e onorato fine.

Angiola. Perdonatemi se cosí immodestamente vi rompo le parole in bocca. Sappiate che se ben Carizia mia nipote è giovane, nasconde sotto quella sua etá acerba virtú matura, sotto [p. 221 modifica]quel capel biondo saper canuto, sotto quel petto giovenile consiglio antico; e se ben è povera d’oro, l’onore non li fa conoscer bisogno alcuno, perché si stima ricca d’onore e di se stessa: e nella sua onestá s’inchiude il suo tesoro e la sua dote. Onde non sperate che il falso splendor d’oro o di gioie le appanne gli occhi; né col mostrarvi vinto della sua bellezza, di vincer lei; o col mostrarvi ubidiente, trionfar della sua volontá; o col mostrarvi servo, signoreggiarla: perché il vostro sperar fia vano, e la moverete piú tosto ad odio che ad amarvi.

Don Ignazio. Signora, io n’ho piú timore veder i suoi lumi turbati di sdegno contra di me — da’ quali depende il maggior contento ch’abbi nella vita — che perder l’istessa vita; e vi giuro per quel cielo e per Colui che ci alberga dentro, ch’amo le sue bellezze come modesto sposo e non come lascivo amante; ché chi ama la bellezza e non l’onore, non è amante ma inimicissimo tiranno.

Angiola. Dubito che non mi proponiate un infame amore sotto una onorata richiesta di nozze.

Don Ignazio. O Iddio, non mi conoscete nel fronte e negli occhi pregni di lacrime l’effetto della mia fede, che son ridotto all’ultimo termine della mia vita? ché se non voglio morire, son costretto toglierla per moglie?

Angiola. Ditemi di grazia, che cosa desiate da lei?

Don Ignazio. Se non che pregarla che m’accetti per sposo, pur se non sdegna cosí basso sogetto.

Angiola. Non sapete voi meglio di me che questo ufficio convien farsi col padre e non con lei, perché non lice ad una donzella dispor di se stessa?

Don Ignazio. Io non cerco altro da lei in ricompensa del singular amor che le porto, che sia favorito da lei dirglielo con la bocca e con le mie orecchie sentir le sue parole e pascer per quel breve momento gli occhi miei avidi e affamati, in cosí lungo digiuno, della sua vista; ché da quel giorno della festa non fu mai possibile di rivederla.

Angiola. Se ben quel che mi chiedete non abbi molto dell’onesto, pure traporrò l’autoritá mia, per quanto val appo [p. 222 modifica]lei, d’indurlaci; ché, raggionandosele de voi, ho conosciuto nel suo animo non so che di tacito consentimento. Fratanto che attendete la risposta, potrete trattenervi qui intorno, ché io vo’ entrar in casa.

Don Ignazio. Che dici, Simbolo?

Simbolo. Ad una dura e faticosa impresa vi sète posto.

Don Ignazio. Per lei tutte le fatiche e le durezze mi sono care; né mai le grandi imprese si vinsero senza gran fatiche.

Simbolo. Perdete il tempo.

Don Ignazio. E che tempo piú degnamente potrá perdersi come nell’acquisto de sí degno tesoro?

Simbolo. E che acquistate poi? l’amor d’una donna che si cambia di momento in momento.

Don Ignazio. Sí, delle vili e populari; ma quelle di reale animo come costei, amando, amano insino alla morte.

Simbolo. Tutte le donne sono d’una medesima natura.

Don Ignazio. Tu poco t’intendi di nature di donne. Ma non ingiuriar lei perché ingiurii me: taci.

Simbolo. Taccio.

Don Ignazio. Giá fuggono le tenebre dell’aria, ecco l’aurora che precede la chiarezza del mio bel sole, giá spuntano i raggi intorno: veggio la bella mano che con leggiadra maniera alza la gelosia. O felici occhi miei, che siete degni di tanto bene!

SCENA III.

Carizia, don Ignazio, Simbolo.

Carizia. Signor don Ignazio, poiché Angiola mia zia mi fa fede della vostra onorata richiesta, io non ho voluto mancare dalla mia parte: eccomi, che comandate?

Don Ignazio. Io comandare, che mi terrei il piú avventurato uomo che viva, se fusse un minimo suo schiavo? Voi sète quella che sola avete l’imperio d’ogni mia voluntá, e a voi sola sta impor le leggi e romperle a vostro modo. [p. 223 modifica]

Carizia. Vi priego a spiegarmi il vostro desiderio con le piú brevi parole che potete.

Don Ignazio. Signora della vita mia — e perdonatime si ho detto «mia», ché dal giorno che la viddi la consacrai alla vostra cara bellezza, — io non desio altro in questa vita che essere vostro sposo: e perdonate all’ardire che presume tanto alto.

Carizia. Caro signore, io ben conosco la disaguaglianza de’ nostri stati e la mia umile fortuna, a cui non lice sperar sposo sí grande di valore e di ricchezza come voi; però ricercate altra che sia piú meritevole d’un vostro pari, e lasciate me poverella ch’umilmente nel mio stato mi viva. La mia sorte mi comanda ch’abbia l’occhio alla mia bassa condizione. So che lo dite per prendervi gioco di me: la mia dote e la mia ricchezza s’inchiude nella mia onestá, la quale inviolabilmente nella mia povertá custodisco.

Don Ignazio. Troppo suntuosa è la vostra dote, signora, la quale quanto piú dimostrate sprezzarla piú l’ingrandite; le vostre ricchezze sono inestimabil tesoro di tante peregrine virtú, le quali resiedeno in voi come in suo proprio albergo: meriti ordinari si possono con le parole lodare, ma i gradi infiniti si lodano meravigliando, e con atti di riverenza tacendo si riveriscono. Ma voi lo dite accioché io n’abbia scorno, ché troppo povero mercante a cosí gran fiera compaia per comprarla: e veramente meritarci quel scorno che mi fate, se non venissi ricchissimo d’amore, ché non basta comprarse l’infinito valore de’ vostri meriti se non con l’infinito amore che le porto.

Carizia. So che in una mia pari non cadono tanti meriti; e per non poter trovar parole condegne per risponderli, vi risponde tacendo il core.

Don Ignazio. Signora, ecco un anello nel cui diamante sono scolpite due fedi: tenetelo per amore e segno del sponsalizio. Il dono è picciolo ben sí; ma si considerate l’affetto di chi lo dona, egli è ben degno di lei.

Carizia, Il dono è ben degno di lui; nondimeno... , ma ben sapete che il rigor dell’onestá delle donzelle non permette ricever doni. [p. 224 modifica]

Don Ignazio. Signora, non fate tanto torto alla vostra nobiltá né tanto torto a me: rifiutar il primo dono di un sposo. Accettatelo, e se non merita cosí degno luogo delle vostre mani, poi buttatelo via.

Carizia. Orsú accetto e gradisco il vostro dono e me lo pongo in dito; e non potendo donarvi dono condegno — ché nol consente la mia povertá, — vi dono me stessa, ché chi dona se stessa non ha magior cosa da donare; e questo anello come cosa mia ve lo ridono in caro pegno della mia fede.

Don Ignazio. Accetto l’anello e accetto l’offerta della sua persona; e se ben ne sono indegno, amor mi sforza ad accettarla. In ricompensa non so che darle se non tutto io; e se ben disseguale alla sua grandezza, accettatelo come io ho accettata la sua persona.

Carizia. Comandate altro?

Don Ignazio. Vi priego a trattenervi un altro poco, accioché gli occhi mei abbino il desiato frutto di lor desiderio.

Carizia. I prieghi de’ padroni son comandi a’ servi; e se ben i rispetti delle donzelle non patiscano tanto, pur per un marito si deveno rompere tutti i rispetti. Eccomi apparecchiata a far quanto mi comandate.

Don Ignazio. Cara padrona, mi basta l’animo solo. So ben che la mia richiesta sarebbe a voi di poco onore: mi contento che ve n’entriate, pregandovi che in questo breve spazio, che non siamo nostri, di far buona compagnia al mio core che resta con voi né si partirá da voi mai; e ricordatevi di me.

Carizia. Non ricordandomi di voi, mi smenticarei di me stessa.

Don Ignazio. Amatemi come amo voi.

Carizia. Troppo vile e indegna è quella persona che si lascia vincere in amore; e se piacerá a Dio che siamo nostri, allora faremo contesa chi amerá piú di noi, ed io dalla mia parte non mi lasciarò avanzare da voi. Adio.

Don Ignazio. Ecco tramontata la sfera del mio bel sole, che sola può far sereno il mio giorno. O fenestra, è sparito il tuo pregio. O Dio, che cosa è nel cielo che sia piú bella di lei, [p. 225 modifica]se splendori, sole, luna, stelle e tutte le bellezze del cielo son raccolte nel breve giro del suo bel volto? Ahi, ché se prima ardea, or tutto avampo: ché per non averla tanto tempo vista i carboni erano sopiti sotto la cenere, or per la sua vista han preso vigore, m’hanno acceso nell’alma un tal incendio che son tutto di fuoco.

Simbolo. Poiché sète sazio della sua vista, partiamoci.

Don Ignazio. Che sazio? Gli occhi miei, in cosí lungo digiuno assetati, nel convivio della sua vista se l’han bevuta di sorte che son tutto ebro d’amore. Anzi questo convito mi è paruto la mensa di Tantalo, dove quanto piú bevea men sazio mi rendeva e piú ingordo ne diveniva; anzi nel piú bel godere è sparita via, ed io mi sento piú assetato che mai; anzi mi par ch’ancor mi sieda negli occhi, e ci sento il peso della sua persona. O alta possanza di celesti bellezze!

Simbolo. Se vi dolete per troppa felicitá, che farete nelle disgrazie?

Don Ignazio. Questa felicitá mi dá presagio di mal piú acerbo; ché amandola non riamato, quanto l’amarò riamato? piú m’infiammarò di quel desiderio di cui sempre son stato acceso. Ma dimmi, che ti par di lei?

Simbolo. Ella è non men bella di dentro che di fuori: mirate con che bel modo non ha voluto accettar il vostro dono né rifiutarlo; e se il dono era magnifico e reale, ella è stata piú magnifica e reale a non lasciarsi vincere da tanta ingordiggia.

Don Ignazio. Simbolo, sapresti indovinar in qual parte della casa ella sia?

Simbolo. Che posso saper io?

Don Ignazio. Non vedi? lá dove l’aria è piú tranquilla e tutto gioisce, ivi è la sua persona.

Simbolo. Ah, ah, ah! — Ecco don Flaminio, state in cervello. [p. 226 modifica]

SCENA IV.

Don Flaminio, don Ignazio, Angiola, Simbolo.

Don Flaminio. Oh, signor don Ignazio, voi siate il ben trovato!

Don Ignazio. E voi il benvenuto, carissimo fratello!

Angiola. (Mi manda Carizia, la mia nipote, se posso spiar alcuna cosa del matrimonio suo e che si dice di lei).

Don Flaminio. Poni mano a darmi una buona mancia, ché onoratissimamente me l’ho guadagnata.

Don Ignazio. Non so che offerirvi in particolare, se sète padrone di tutta la mia robba.

Angiola. (Certo ragionano del matrimonio de mia nepote: vo’ star da parte in quel vicolo per ascoltar che dicono).

Don Flaminio. Veramente la merito, perché ci ho faticato; e se ben l’un fratello è tenuto por la vita per l’altro, pur in cosa di gran sodisfazione non si vieta che non si faccino alcuni complimenti fra loro.

Don Ignazio. Mi sottoscrivo a quanto mi tassarete.

Angiola. (Fin qui va bene il principio).

Don Ignazio. Dite di grazia, non mi tenete piú sospeso.

Don Flaminio. Giá è conchiuso il vostro matrimonio.

Angiola. (L’ho indovinata che ragionan del matrimonio di Carizia).

Don Ignazio. Con la figlia del conte de Tricarico?

Don Flaminio. Giá è contento darvi i quarantamilla ducati di dote e ha fermati i capitoli purché l’andiate a sposar per questa sera.

Don Ignazio. O mio caro fratello, o mio carissimo don Flaminio, ché piú desiderata novella non aresti potuto darmi in la mia vita!

Angiola. (Oimè, che cosa intendo! dice che ha conchiuso il matrimonio con la figlia del conte di Tricarico con quarantamilla scudi di dote). [p. 227 modifica]

Don Flaminio. Con patto espresso ch’abbiate a sposarla per questa sera.

Don Ignazio. Or tal patto non potrò osservarlo.

Don Flaminio. Come?

Don Ignazio. Perché non basterei a contenere me stesso in tanto desiderio di non gir a sposarla or ora.

Simbolo. (Finge assai bene; e dubbito che a questa volta l’ingannatore restará ingannato).

Angiola. (Or va’ e fidati d’uomini, va’! o uomini traditori!).

Don Flaminio. Egli ha voluto giungervi quella clausula, perché l’era stato riferito che eravate innamorato e morto per altra.

Don Ignazio. Non mi ricordo aver mai amato cosí ardentemente come Aldonzina sua figlia; ché se ben ho amato molto, l’amor è stato assai piú finto che da vero, e mi son dilettato sempre dar la burla or a questa or a quell’altra.

Angiola. (Oh che vi siano cavati quei cuori pieni d’inganni! Or va’ ti fida, va’! e chi non restarebbe ingannata da loro?).

Don Ignazio. Ma per tôrlo da questo sospetto, andiamo ora a sposarla; andiamo, caro fratello, non mi far cosí strugere a poco a poco, ché dubito non rimarrá nulla d’intiero insin a sera.

Don Flaminio. L’appontamento è stato per la sera che viene: e credo ha chiesto il termine per non trovarsi forsi la casa in ordine; e andando cosí all’improviso, forsi li daremo qualche disgusto e forsi vi perderete di riputazione: però abbiate pacienza per un poco d’intervallo di tempo.

Simbolo. (Non dissi ch’arebbe sfugito d’andarvi? abbiam vinto).

Don Ignazio. Dubbito di non potervi ubidire.

Don Flaminio. Forsi non sará in casa.

Angiola. (Mira che desiderio e che ardore!).

Don Ignazio. Mandiamo a vedere.

Don Flaminio. Panimbolo, va’ a casa del conte.

Don Ignazio. Vien qua, Avanzino, va’ a casa del conte e vedi se il conte de Tricarico è in casa.

Don Flaminio. Essendovi, andrò ad avisarlo io prima, verrò a trovarvi e vi andaremo insieme. [p. 228 modifica]

Don Ignazio. Noi dove ci trovaremo?

Don Flaminio. In casa.

Don Ignazio. Andate, orsú.

Angiola. (O Dio, che ho inteso! o Dio, che ho veduto! Ed è possibile che si trovi cosí poca fede negli uomini? Or chi avesse creduto che don Ignazio, venutomi tanto tempo appresso per parlarmi e con tante affettuose parole, con tante lacrime e promesse, non fusse tutto fuoco e fiamme per Carizia? Or gite, donne, e date credito a quelle simulate parole, a quelle lacrime traditrici, a quei finti sospiri e a quelle fallaci promesse; movetivi a pietá di loro, perché tal volta li veggiate piovere dal volto tempesta di amarissime lacrime; credete a quei giuramenti, a quei spergiuri! Come si salverá onor di donna giamai, se li sono tesi tanti laccioli? Andrò a casa e non li narrerò nulla di ciò; ch’avendola io spinta a raggionar con lui, sarebbe donna, in vedersi cosí spregiata e tòcca su l’onor suo, di morirsi di passione).

SCENA V.

Don Flaminio, Panimbolo.

Don Flaminio. Ecco, o Panimbolo, che, tu non avendo voluto credere a quanto io te diceva, che don Ignazio non s’accorse quel giorno di Carizia e che è molto invaghito della figlia del conte, per far a tuo modo e per iscoprir l’animo suo, l’avemo detto che il matrimonio con la figlia del conte era conchiuso; e vedesti con che pronto animo e con che accesa voglia volea sposarla allora allora e non aspettar insino alla sera.

Panimbolo. Cosí son sicuro io che don Ignazio sta innamorato d’altra come son vivo. Ma come ch’egli è d’ingegno vivace e pronto, imaginatosi la fraude, rispose in cotal modo.

Don Flaminio. Mi doglio del tuo mal preso consiglio. Ecco, andrá o mandará in casa del conte, e come saprá che è piú d’un mese che non vi son ito, scoprirá tutta la bugia, mi terrá sempre per un bugiardo e bisognando non mi crederá la veritá istessa. [p. 229 modifica]

Panimbolo. Bisogna con una nuova bugia salvar la vecchia bugia: andiamo a casa del conte e rimediamo in alcun modo.

Don Flaminio. Andiamo; e se uscirò con onor mio da questa bugia, un’altra volta non sarò cosí prodigo del mio onore.

SCENA VI.

Eufranone, don Ignazio.

Eufranone. (Veramente chi ha una picciola villa non fa patir di fame la sua famigliola. Di qua s’hanno erbicine per l’insalate e per le minestre, legna per lo fuoco e vino, che se non basta per tutto, almeno a soffrir piú leggiermente il peso della misera povertá. O me infelice se, fra l’altre robbe che mi tolse il rigor della rubellione, mi avesse tolta ancor questa! Mi ho còlto una insalatuccia; ché «chi mangia una insalata, non va a letto senza cena»).

Don Ignazio. Eufranone carissimo, Dio vi dia ogni bene!

Eufranone. Questa speranza ho in lui.

Don Ignazio. Come state?

Eufranone. Non posso star bene essendo cosí povero come sono.

Don Ignazio. Servitivi della mia robba, che è il maggior servigio che far mi possiate. Copritevi.

Eufranone. È mio debito star cosí.

Don Ignazio. Usate meco troppe cerimonie.

Eufranone. Perché mi sète signore.

Don Ignazio. Vi priego che trattiamo alla libera.

Eufranone. Orsú, per obedirvi. (Non so che voglia costui da me: mi fa entrar in sospetto).

Don Ignazio. Or veniva a trovarvi.

Eufranone. Potevate mandar a chiamarmi, ché serei venuto volando.

Don Ignazio. Son molti giorni che desio esservi parente; e son venuto a farmevi conoscere per tale, ché veramente sète assai onorato e da bene. [p. 230 modifica]

Eufranone. Tutto ciò per vostra grazia.

Don Ignazio. Anzi per vostro merito.

Eufranone. Non lui conosco di tanto preggio che sia degno di tanta cortesia.

Don Ignazio. Siete degno di maggior cosa: io vi chieggio la vostra figliola con molta affezione.

Eufranone. Stimate forsi, signore, ch’essendo io povero gentiluomo venda l’onore de mia figliuola? Veramente non merito tanta ingiuria da voi.

Don Ignazio. Non ho detto per farvi ingiuria, ché non conviene ad un mio pari né voi la meritate: ve la chiedo per legittima moglie, se conoscete che ne sia degno.

Eufranone. Essendo voi cosí ricco e di gran legnaggio, non convien burlar un povero gentiluomo e vostro servidore.

Don Ignazio. Mi nieghi Dio ogni contento se non ve la chiedo con la bocca del core, ch’io non torrò altra sposa in mia vita che Carizia. E in pegno dell’amore ecco la fede: accoppiamo gli animi come il parentado.

Eufranone. Signor mio caro, io so ben quanto gli animi giovenili sieno volubili e leggieri e piú pieni di furore che di consiglio; e che subbito che gli montino i capricci in testa, si vogliono scapricciare, e passato quell’umore restano come si di ciò mai non ne fusse stata parola; e in un medesimo tempo amano e disamano una cosa medesima. Non vorrei che si spargesse fama per Salerno che m’avete chiesto mia figlia: ché come in Salerno si parla una volta di nozze, dicono: — Son fatte, son fatte! — e poi se per qualche disgrazia non si accapassero, restasse la mia figliola oltraggiata nell’onore — stimando esser rifiutata per alcun suo mancamento — e mi toglieste quello che non potete piú restituirmi. Ed io vorrei morir mille volte prima che ciò m’accadesse. Voi altri signori ricchi stimate poco l’onor de’ poveri; e noi poveri gentiluomini, non avendomo altro che l’onore, lo stimiamo piú che la vita. Però lo priego ad ammogliarsi con le sue pari e lasciar che noi apparentiamo fra’ nostri.

Don Ignazio. Eufranone mio carissimo, Dio sa con quanto dolore or ascolto le vostre parole e se mi pungano sul vivo [p. 231 modifica]del cuore! Io non merito da voi esser tacciato di vizio di leggierezza, nascendo il mio amore da un risoluto e invecchiato affetto dell’anima mia: ch’avendo fatto l’ultimo mio forzo di resistere al suo amore, dopo lunghissimo combattimento le sue bellezze son restate vincitrici d’ogni mia voglia.

Eufranone. Vi priego a pensarvi su sei mesi prima; e se pur dura la voglia, allor me la potrete chiedere: ed io vi do la mia fede serbarla per voi insin a quel tempo.

Don Ignazio. Sei mesi star senza Carizia? piú tosto potrei vivere senza la vita: e ben sapete che l’amante non ha maggior nemico che l’indugio.

Eufranone. A questo conosco l’impeto giovenile, che quanto con maggior violenza assale tanto piú tosto s’intepidisce.

Don Ignazio. Ogni parola che vi esce di bocca mi è un can rabbioso che mi straccia il petto. Il mio amore è immortale, e la mia fé, che or stimate leggiera, la conoscerete fermissima agli effetti.

Eufranone. È contento vostro zio e fratello del matrimonio?

Don Ignazio. Farò che si contentino.

Eufranone. Fate che si contentino prima, e poi affettuaremo il matrimonio.

Don Ignazio. L’amor mio non può patir tanto indugio; anzi mi maraviglio che dal giorno della festa come sia potuto restar vivo senza lei.

Eufranone. Lo dico ad effetto, che forsi, non contentandosi del matrimonio, inventassero qualche modo per disturbarlo, onde venissi a perdere quel poco di onor che mi è rimasto.

Don Ignazio. O Dio, quanta téma e quanto sospetto!

Eufranone. «Chi poco ha, molto stima e molto teme». Ma voi sète informato dell’infortunio che ho patito nella robba, che non solo non ho da poter dar dote ad un par vostro ma né meno ad un povero mio pari?

Don Ignazio. Ho inteso che per aver voluto seguir le parti sanseverinesche siate caduto in tanta disgrazia; ma io ho stimato sempre d’animi bassi e vili coloro che s’han voluto [p. 232 modifica]arricchire con le doti delle mogli. Io prendo la vostra destra e non la lascierò mai se non la mi prometteti.

Eufranone. Temo prometterlavi: non so che nuvolo mi sta dinanzi al core.

Don Ignazio. Eufranone, mio padre, vi prego a darlami con vostro consenso, ché non mi fate far qualche pazzia. Non mi sforzate a far quello per forza che me si deve per debito d’amore. A pena posso contenermi ne’ termini dell’onestá: son risoluto averla per moglie, ancorché fusse sicuro perder la robba, la vita e l’onore, per non dir piú.

Eufranone. Signore, perdonatemi se mi fo vincere dalla vostra ostinata cortesia: ecco la mano in segno d’amicizia e di parentado, avertendovi di nuovo che non ho dote da darvi.

Don Ignazio. E ancorché me la voleste dare, non la vorrei: conosco non meritar tanta dote quanta ne porta seco. Vo’ che si facci festa bandita, si conviti tutta la nobiltá di Salerno, adornisi la sala di razzi, faccisi un solenne banchetto, adornisi la sposa di gioie, perle e di drappi d’oro, e non si lasci adietro cosa per dimostrar l’interno contento dell’animo mio.

Eufranone. V’ho detto quanto sia mal agiato di far questo.

Don Ignazio. A tutto provederò ben io: mandare il mio cameriero che proveda quanto fia di mestiero.

Eufranone. Quando verrete a sposarla?

Don Ignazio. Vorrei venir prima che partirmi da voi. Ma perché l’ora è tarda, verrò domani all’alba: ponete il tutto in ponto per quell’ora.

Eufranone. Si fará quanto comandate.

Don Ignazio. Io non vo’ trattener piú voi né me stesso: andrò a mandarvi quanto ho promesso.

Eufranone. Andate in buon’ora. — O Dio, che ventura è questa! Desidero communicar una mia tanta allegrezza con alcuno. Ma veggio Polisena, la mia moglie, che vien a tempo per ricever da me cosí insperato contento. [p. 233 modifica]

SCENA VII.

Polisena moglie, Eufranone.

Polisena. (Veggio il mio marito su l’uscio, piú del solito allegro). Gentil compagno mio, che ci è di nuovo?

Eufranone. Buone novelle.

Polisena. Ma non per noi.

Eufranone. Perché no?

Polisena. Perché siamo cosí avezzi alle sciagure che, volendoci favorir la fortuna, non trovarebbe la via.

Eufranone. Abbiam maritata Carizia.

Polisena. Eh, e con chi? con quel dottor della necessitá, nostro vicino?

Eufranone, Con un meglior del dottore.

Polisena. Con quel capitan Martebellonio bugiardo vantatore?

Eufranone Con un gentiluomo.

Polisena. Quel gentiluomo poverello che ce la chiese l’altro giorno? E che vai nobiltá senza denari? avete l’esempio in noi.

Eufranone. Non l’indovinaresti mai.

Polisena. Dimmelo, marito mio, di grazia: non mi far cosí struggere di desiderio.

Eufranone. Non vo’ farti piú penare. Con don Ignazio di Mendozza.

Polisena. Quel nipote del viceré della provincia, che combatté quel giorno con i tori?

Eufranone. Con quell’istesso.

Polisena. Egli è possibile, marito mio, che tu vogli cosí beffarmi e rallegrarmi con false allegrezze? Il caldo del piacere, che giá mi scorrea per tutte le vene, mi s’è raffreddato e gelato.

Eufranone. Giuro per la tua vita, cosí a me cara come la mia, che lo dico da senno.

Polisena. E chi ha trattato tal matrimonio? [p. 234 modifica]

Eufranone. Egli istesso; né ha voluto partirsi da me se non gli la prometteva.

Polisena. Quando egli la vidde mai?

Eufranone. Quel giorno che fu la festa in Palazzo.

Polisena. O somma bontá di Dio, quanto sei grande! e quanto sono secreti i termini per i quali camini, quando ti piace favorir i tuoi devoti! Tu sai, marito mio, che Carizia appena va fuor di casa il natale e la pasqua, cosí per l’incommoditá delle vesti come che è di sua natura malinconica; e se quei giorni che si preparava la festa, le venne un disio che mai riposava la notte e il giorno, pregandomi che vi la conducessi; e ributtandola io che non avea vesti e abbegliamenti da comparir tra tante gentildonne sue pari, se disse che le volea tórre in presto dalle sue conoscenti, da chi una cosa e da chi un’altra. Ce lo promisi, tenendo per fermo che a lei fusse impossibile tanta manifattura: s’affaticò tanto con le sue amiche che accommodò sè e Callidora. Or io, non potendo resistere a tanti prieghi, chiesi licenza a voi e ve la condussi. Or chi arebbe potuto pensare che indi avea a nascere la sua ventura?

Eufranone. Chi può penetrar gli occulti segreti di Dio?

Polisena. O Iddio, che mai vien meno a chi pone in te solo le sue speranze? Ella si è sempre raccomandata a te, e tu li hai esaudite le sue preghiere, rimunerata la sua bontá e l’ubidienza estraordinaria che porta al suo padre e sua madre.

Eufranone. Ho tanto giubilo al core che mi trae di me stesso.

Polisena. Se ben i padri s’attristano al nascer delle femine, con dir che seco portano cattivo augurio di certa povertá e di poco onore; pur son state molte che hanno inalzato il suo parentado, come speriamo di costei.

Eufranone. Ella è una gran donna; e non m’accieca la benda del soverchio amore. Mai si vide tanta saviezza e bontá in una fanciulla.

Polisena. Vorrei dir molto delle sue buone qualitá che voi non sapete; ma le lacrime di tenerezza non me lo lasciano esprimere. [p. 235 modifica]

Eufranone. Va’ e poni lei e la casa in ordine.

Polisena. E con che la ponemo in ordine?

Eufranone. Ecco genti cariche di robbe. Ho per fermo che le mandi don Ignazio: conosco il suo cameriero.

SCENA VIII.

Simbolo, Eufranone, Polisena.

Simbolo. Signor Eufranone, il mio signor don Ignazio vi manda questi drappi di seta e d’oro per le vesti di Carizia e della sorella e di vostra moglie: ecco i maestri che faticheranno tutta la notte che sieno finite per domani all’alba; ecco i razzi per la sala e camere; in questa scatola son collane, maniglie d’oro, perle, gioie e altri abbegliamenti necessari. Questo sacchetto di scudi per lo banchetto e altri bisogni: che spendiate largamente in fargli onore, ch’egli supplirá al tutto, che in sí poco tempo non ha potuto far piú e che andrá sopplendo di passo in passo.

Eufranone. Tutto stimo sia piú tosto soverchio che manchevole; e so che ci onora non secondo il nostro picciolo merito ma secondo le sue gran qualitadi.

Simbolo. Dice che, se bene son immeritevoli di tanta sposa, col tempo fará conoscere la sua amorevolezza; e se comandate altro.

Eufranone. Che ci ha onorato piú del dovere; e bisognando, gli lo faremo intendere.

Simbolo. Adio, signori.

Eufranone. Ecco, o moglie, che non ho mentito punto di quanto t’ho detto.

Polisena. A Dio solo si dia la gloria, ché noi non siamo meritevoli di tanti favori per li nostri peccati.

Eufranone. Moglie, va’ e fa’ quanto t’ho detto, ché io andrò a convitar per domani tutti i parenti e la nobiltá di Salerno. [p. 236 modifica]

SCENA IX.

Don Flaminio, Panimbolo, Leccardo.

Don Flaminio. Io vo’ far prima ogni sforzo se posso indurla ad amarmi; e quando non mi riuscirá, non mancará ricercarla per moglie. Lo vo’ lassar per l’ultimo, ché son risoluto non viver senz’ella o sua sorella.

Panimbolo. Voi trattando per via del parasito e con lettere e per modi cosí disconvenevoli, in cambio d’amarvi vibrará contro voi fiamme di sdegno, perché stimará esser oltraggiata da voi ne’ fatti dell’onore.

Don Flaminio. Non vedi Leccardo come sta allegro?

Panimbolo. Averá bevuto soverchio e sta ubbriaco.

Leccardo. O Dio, dove andrò per trovare don Flaminio?

Don Flaminio. (Cerca me).

Leccardo. (Corri, volta, trotta, galoppa e dágli cosí felice novella).

Don Flaminio. (Se ben lo veggio allegro, mi sento un discontento nel core; e se ben ho voglia d’intenderlo, li vo innanzi contro mia voglia).

Leccardo. O signor don Flaminio, buona nuova! la mia lingua non t’apporta piú male novelle.

Don Flaminio. E la mia ti apporterá grande utile.

Leccardo. Non sapete il successo?

Don Flaminio. Non io.

Leccardo. Come nol sai, se il sa tutto Salerno?

Don Flaminio. Nol so, ti dico.

Leccardo. O nieghi o fingi per burlarmi.

Don Flaminio. In cosa ch’importa non si deve burlare.

Leccardo. Io penso che tu vogli burlar me.

Don Flaminio. La burla insino adesso l’ho ricevuta in piacere, ma or mi dá noia.

Leccardo. Lasciare le burle e dirò da dovero. [p. 237 modifica]

Don Flaminio. Or di’, in nome di Dio, e non mi tener piú in bilancia: parla.

Leccardo. Ho tanto corso che non posso parlare: non ho fiato.

Don Flaminio. Prendi fiato; se non, che farai perdere il fiato a me.

Leccardo. Per la soverchia stanchezza mi sento morire.

Don Flaminio. Dammi la nuova prima e mori quando ti piace.

Leccardo. Quanto ho piú voglia di dire, manco posso.

Don Flaminio. Dimmelo in una parola.

Leccardo. Non si può, perché è cosa troppo lunga né si può esprimere in una parola; e la stanchezza m’ha tolto il vigor del parlare.

Don Flaminio. Mentre hai detto questo, aresti detto la metá.

Leccardo. La vostra Ca... Cari... Carizia...

Don Flaminio. La mia Carizia... . O buon principio! spediscela, di grazia.

Leccardo. ... sará vo... vostra: ...

Don Flaminio. Leccardo mio, parla presto, non mi far cosí morire: come sará mia?

Leccardo. Manda a tôr diece caraffe di vino per inumidir il palato e la gola, che stanno cosí secchi che non ne può uscir la parola.

Don Flaminio. Arai quanto vorrai, e venti e trenta; ma parla presto.

Leccardo. ... la vostra Carizia è maritata. ...

Don Flaminio. Maritata? Tu sia il malvenuto con questa nuova! E questa è l’allegrezza che mi portavi?

Leccardo. Io non penso che possa esser migliore.

Don Flaminio. E dove la fondi?

Leccardo. ... Non mi avete voi detto che non la desiate per moglie? Come il marito scassa la porta la prima volta, ella resta aperta per sempre; e ben sapete che le donne la custodiscono insino a quel ponto: poi ci ponno passar quanti vogliono, ché non si conosce né vi si fa danno. Ecco, la goderete e io non sarò il malvenuto. [p. 238 modifica]

Don Flaminio. Veder la mia Carizia in poter d’altri per un sol ponto, ancorché fusse pur certo possederla per sempre, non mi comportarebbe l’animo di soffrirlo. E con chi è maritata?

Leccardo. Bisogna che cominci da capo.

Don Flaminio. O da capo o da piedi, purché la spedischi tosto.

Leccardo. Entrando in casa viddi che si facea un grande apparecchio d’un banchetto, e tutto ciò con real magnificenza. Io adocchiai certe testoline di capretto, le rubai e me le mangiai in un tratto; or mi gridano in corpo: Beee beee! Ascoltate? e le vorrei castigare. ...

Don Flaminio. Tu castighi or me, ché i tuoi trattenimenti mi son lanciate nel cuore.

Leccardo. ... Ivi eran mandre di vitelle, some di capponi impastati, monti di cacio parmigiano, il vino uh! a diluvio. ...

Don Flaminio. Vorrei saper con chi è maritata.

Leccardo. Bisogna vi si dica il tutto per ordine. — ... Lascio i pastoni, i pasticci, i galli d’India. ...

Don Flaminio. Piccioni e simili: basta su.

Leccardo. Non vi erano piccioni altrimenti.

Don Flaminio. O che vi fussero o che non vi fussero, poco importa.

Leccardo. Dico che non vi erano; e dicean che son caldi per natura e che arebbono fatto male al fegato.

Don Flaminio. Vorrei che ragionassi del fatto mio.

Leccardo. E del vostro fatto si ragiona: a voi tocca. Ché si vi fusser stati piccioni, non arei mangiato teste di capretti.

Don Flaminio. O Dio, che sorte di crucifiggere è questo! Lassa le baie: di’ quel ch’importa.

Leccardo. Non è cosa che piú importi ad un banchetto che non vi manchi cosa alcuna, anzi sia abbondantissimo di robbe ben apparecchiate e condite e poste a tempo e con ordine a tavola.

Don Flaminio. Tu ti trattieni in questo ed io sudo sudor di morte.

Leccardo. Eccovi il mantello: fatevi vento, rinfrescatevi. [p. 239 modifica]

Don Flaminio. Sará ancor finito tanto apparecchio?

Leccardo. Non è finito ancora.

Don Flaminio. Almen s’è detto assai: torniamo a noi.

Leccardo. ... Quando io viddi i cuochi occupati in partire e distribuire le robbe, fingendo aiutarli mi trametto e ne trabalzo le teste di capretti. ...

Don Flaminio. Orsú te le mangiasti, l’hai detto prima.

Leccardo. Come dunque volea mangiarmele crude? bisognava che fussero prima cotte. Se volete indovinar, indovinate a voi stesso quanto desiate saper da me.

Don Flaminio. Il malanno che Dio dia a te e alle tue chiacchiare!

Leccardo. Se non lasciate parlar a me prima, come volete che parli io?

Don Flaminio. Parla in tua malora e finiscila presto!

Leccardo. Se non mi lasciate parlare, non finirò mai.

Don Flaminio. Sto per accommodarmi la cappa sotto e sedermi in terra per ascoltare con maggior agio.

Leccardo. Tacete mentre parlo.

Don Flaminio. Comincia presto, che fai? Sto attaccato alla corda, non sentii mai in mia vita la maggior pena.

Leccardo. Voi state malcontento, e se non vi vedo allegro non posso parlare.

Don Flaminio. Che cagion ho io di star allegro?

Leccardo. Dunque taccio poiché non ascoltate con allegrezza.

Don Flaminio. Se non con allegrezza, almeno con pacienza: di’ su.

Leccardo. ... Io mi accorgo che bugliva una gran caldaia d’acqua per ispiumar i pollami e spelar gli animali; fingendo stuzzicar il fuoco, vi butto dentro le testoline. ...

Don Flaminio. Or lasciamo dentro la caldaia il ragionamento di ciò. Cotte che fûro te le mangiasti, buon pro ti faccia: finimola presto.

Leccardo. ... Venne un altro cuoco e s’accorge ch’avea buttato le testoline dentro la caldaia. ... [p. 240 modifica]

Don Flaminio. Oimè, ci è gionta un’altra persona: e se il parlar di uno era cosí lungo, or che vi è gionta un’altra persona, sará altro tanto.

Leccardo. ... Oh oh, che m’era smenticato il meglio! Prima che venisse quel cuoco... .

Don Flaminio. Quando pensava che fusse alla metá dell’istoria, ci avevi lasciato il principio; e or al principio bisogna dar un altro principio.

Leccardo. Se non volete ascoltar, io taccio.

Don Flaminio. Eh, parla col diavolo!

Leccardo. Non parlo col diavolo io.

Don Flaminio. E tu parla con Dio.

Leccardo. Or questo sí, in nomine Domini.

Don Flaminio. Amen.

Leccardo. Voi dite «amen» come fosse al fine e non sete ancora al principio.

Don Flaminio. Spediscimi, per amor di Dio!

Leccardo. Sei bello e spedito. Carizia è maritata con un parente del viceré della provincia.

Don Flaminio. Se tu dici da senno, m’uccidi; se da burla, dove ci va la vita mi ferisci troppo acerbamente. Sai tu il nome del marito?

Leccardo. Sí bene; ma non me ne ricordo, perché era troppo intricato.

Don Flaminio. Ricordati bene.

Leccardo. Spedazio..., Pignatazio... . Il nome s’assomigliava al spede o pignato, e però me ne ricordo.

Don Flaminio. Fosse don Ignazio?

Leccardo. Sí sí, don Ignazio, ... Spedazio.

Don Flaminio. M’hai ucciso, m’hai morto: le tue parole mi sono spiedi e spade che m’hanno mortalmente trafitto il cuore. Or sí che m’hai portato la morte nella lingua.

Leccardo. Dubito averla portata a me stesso, ché per la mala novella non serò piú medicato come oggi.

Don Flaminio, Da questo principio posso indovinar la mia sciagura: piú dolente uomo di me non vive sopra la terra! [p. 241 modifica]

Leccardo. Al fin, il mal bisogna sapersi che si possa rimediar a tempo. E dicevano che le nozze si facevano domani all’alba.

Don Flaminio. Tanto men spazio di tempo è dato alla mia vita. Una tempesta di pungenti pensieri m’ha ferito il core, una nuvola di malinconia m’ha circondato l’anima, giá la gelosia ha preso possesso del mio core: non posso fingermi piú ragioni contro me stesso per trasviarla. Ahi! che da quel giorno maledetto che la viddi, ho portato sempre questo sospetto attraversato nell’alma: e come il condennato a morte ogni romor che sente, ogni uscio che s’apre, gli par il boia che venghi e gli adatti il capestro al collo; cosí ogni parola, ogni motivo di mio fratello mi parea che mi la togliesse! Ahi, che mai l’ho desiata come adesso! ché «mai si conosce il bene se non quando si perde». Io non basto né posso vivere: se non m’ucciderá il dolore, m’ucciderò con le mie mani.

Panimbolo. Padrone, voi sète bene avezzo a’ casi dell’una e l’altra fortuna. Reggetevi con maturo consiglio: bisogna dar fine all’ostinazione; e nelle cose impossibili far buon cuore e abbandonar l’impresa, e prender una risoluzione tanto onorata quanto necessaria.

Don Flaminio. Panimbolo, se sei cosí di vile animo, non avilir e spaventar l’animo mio: se pensi rimovermi da sí bella impresa, ammazzami prima. Io non vo’ andar incontro alla fortuna, né restar cosí vinto alla prima battaglia né lasciar cosa intentata fin alla morte.

Panimbolo. Orsú, facciasi tutto il possibile, ch’avendo a morire, quando s’è fatto quanto umanamente può farsi, si muor piú contento. Andiamo in Palazzo, informiamoci del fatto. Leccardo, trattienti da qua intorno, ch’avendo bisogno di te non abbiamo a cercarti. Va’ e vieni.

Leccardo. Andrò e verrò.