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230 gli duoi fratelli rivali


Eufranone. Tutto ciò per vostra grazia.

Don Ignazio. Anzi per vostro merito.

Eufranone. Non lui conosco di tanto preggio che sia degno di tanta cortesia.

Don Ignazio. Siete degno di maggior cosa: io vi chieggio la vostra figliola con molta affezione.

Eufranone. Stimate forsi, signore, ch’essendo io povero gentiluomo venda l’onore de mia figliuola? Veramente non merito tanta ingiuria da voi.

Don Ignazio. Non ho detto per farvi ingiuria, ché non conviene ad un mio pari né voi la meritate: ve la chiedo per legittima moglie, se conoscete che ne sia degno.

Eufranone. Essendo voi cosí ricco e di gran legnaggio, non convien burlar un povero gentiluomo e vostro servidore.

Don Ignazio. Mi nieghi Dio ogni contento se non ve la chiedo con la bocca del core, ch’io non torrò altra sposa in mia vita che Carizia. E in pegno dell’amore ecco la fede: accoppiamo gli animi come il parentado.

Eufranone. Signor mio caro, io so ben quanto gli animi giovenili sieno volubili e leggieri e piú pieni di furore che di consiglio; e che subbito che gli montino i capricci in testa, si vogliono scapricciare, e passato quell’umore restano come si di ciò mai non ne fusse stata parola; e in un medesimo tempo amano e disamano una cosa medesima. Non vorrei che si spargesse fama per Salerno che m’avete chiesto mia figlia: ché come in Salerno si parla una volta di nozze, dicono: — Son fatte, son fatte! — e poi se per qualche disgrazia non si accapassero, restasse la mia figliola oltraggiata nell’onore — stimando esser rifiutata per alcun suo mancamento — e mi toglieste quello che non potete piú restituirmi. Ed io vorrei morir mille volte prima che ciò m’accadesse. Voi altri signori ricchi stimate poco l’onor de’ poveri; e noi poveri gentiluomini, non avendomo altro che l’onore, lo stimiamo piú che la vita. Però lo priego ad ammogliarsi con le sue pari e lasciar che noi apparentiamo fra’ nostri.

Don Ignazio. Eufranone mio carissimo, Dio sa con quanto dolore or ascolto le vostre parole e se mi pungano sul vivo