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220 gli duoi fratelli rivali

SCENA II.

Angiola, Simbolo, don Ignazio.

Angiola. (Conosco a prova che il peso degli anni è il maggior peso che possa portar l’uomo su la sua persona, poiché in sí breve viaggio che ho fatto, son cosí stanca come si avesse portato qualche gran soma).

Don Ignazio. (Vo innanzi a toglierle la via).

Angiola. (Son inciampata con don Ignazio c’ho cercato fuggir con ogni industria, ché so che cerca parlarmi di Carizia mia nipote; né vorrei che prorumpesse in qualche cosa men ch’onesta).

Don Ignazio. Signora Angiola, ho desiato gran tempo ragionar con voi d’un negozio importantissimo.

Angiola. Eccomi al vostro commodo: ben la priego a non trattarmi di cosa che men che onesta non sia.

Don Ignazio. Certo non farei tanto torto alla sua bontá, alla mia qualitá; né l’importanza del negozio né il tempo richiede questo.

Angiola. Poiché le vostre costumate parole, degne veramente di quel cavaliere che voi sète, m’hanno sgombro dal cuor ogni sospetto, eccomi pronta ad ogni vostro comando.

Don Ignazio. Sappiate, madre mia, che da quel giorno — che non so si debba chiamarlo felice o infelice per me — che vidi la bellezza e l’oneste maniere di Carizia vostra nipote, m’hanno impiagata l’anima di sorte che, se voglio guarire, è bisogno ricorrere a quel fonte donde sol può derivar la mia salute.

Angiola. Signor don Ignazio, so dove va a ferir lo strale del vostro raggionamento.

Don Ignazio. Non ad altro che ad onesto e onorato fine.

Angiola. Perdonatemi se cosí immodestamente vi rompo le parole in bocca. Sappiate che se ben Carizia mia nipote è giovane, nasconde sotto quella sua etá acerba virtú matura, sotto