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atto secondo | 237 |
Don Flaminio. Or di’, in nome di Dio, e non mi tener piú in bilancia: parla.
Leccardo. Ho tanto corso che non posso parlare: non ho fiato.
Don Flaminio. Prendi fiato; se non, che farai perdere il fiato a me.
Leccardo. Per la soverchia stanchezza mi sento morire.
Don Flaminio. Dammi la nuova prima e mori quando ti piace.
Leccardo. Quanto ho piú voglia di dire, manco posso.
Don Flaminio. Dimmelo in una parola.
Leccardo. Non si può, perché è cosa troppo lunga né si può esprimere in una parola; e la stanchezza m’ha tolto il vigor del parlare.
Don Flaminio. Mentre hai detto questo, aresti detto la metá.
Leccardo. La vostra Ca... Cari... Carizia...
Don Flaminio. La mia Carizia... . O buon principio! spediscela, di grazia.
Leccardo. ... sará vo... vostra: ...
Don Flaminio. Leccardo mio, parla presto, non mi far cosí morire: come sará mia?
Leccardo. Manda a tôr diece caraffe di vino per inumidir il palato e la gola, che stanno cosí secchi che non ne può uscir la parola.
Don Flaminio. Arai quanto vorrai, e venti e trenta; ma parla presto.
Leccardo. ... la vostra Carizia è maritata. ...
Don Flaminio. Maritata? Tu sia il malvenuto con questa nuova! E questa è l’allegrezza che mi portavi?
Leccardo. Io non penso che possa esser migliore.
Don Flaminio. E dove la fondi?
Leccardo. ... Non mi avete voi detto che non la desiate per moglie? Come il marito scassa la porta la prima volta, ella resta aperta per sempre; e ben sapete che le donne la custodiscono insino a quel ponto: poi ci ponno passar quanti vogliono, ché non si conosce né vi si fa danno. Ecco, la goderete e io non sarò il malvenuto.