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238 | gli duoi fratelli rivali |
Don Flaminio. Veder la mia Carizia in poter d’altri per un sol ponto, ancorché fusse pur certo possederla per sempre, non mi comportarebbe l’animo di soffrirlo. E con chi è maritata?
Leccardo. Bisogna che cominci da capo.
Don Flaminio. O da capo o da piedi, purché la spedischi tosto.
Leccardo. Entrando in casa viddi che si facea un grande apparecchio d’un banchetto, e tutto ciò con real magnificenza. Io adocchiai certe testoline di capretto, le rubai e me le mangiai in un tratto; or mi gridano in corpo: Beee beee! Ascoltate? e le vorrei castigare. ...
Don Flaminio. Tu castighi or me, ché i tuoi trattenimenti mi son lanciate nel cuore.
Leccardo. ... Ivi eran mandre di vitelle, some di capponi impastati, monti di cacio parmigiano, il vino uh! a diluvio. ...
Don Flaminio. Vorrei saper con chi è maritata.
Leccardo. Bisogna vi si dica il tutto per ordine. — ... Lascio i pastoni, i pasticci, i galli d’India. ...
Don Flaminio. Piccioni e simili: basta su.
Leccardo. Non vi erano piccioni altrimenti.
Don Flaminio. O che vi fussero o che non vi fussero, poco importa.
Leccardo. Dico che non vi erano; e dicean che son caldi per natura e che arebbono fatto male al fegato.
Don Flaminio. Vorrei che ragionassi del fatto mio.
Leccardo. E del vostro fatto si ragiona: a voi tocca. Ché si vi fusser stati piccioni, non arei mangiato teste di capretti.
Don Flaminio. O Dio, che sorte di crucifiggere è questo! Lassa le baie: di’ quel ch’importa.
Leccardo. Non è cosa che piú importi ad un banchetto che non vi manchi cosa alcuna, anzi sia abbondantissimo di robbe ben apparecchiate e condite e poste a tempo e con ordine a tavola.
Don Flaminio. Tu ti trattieni in questo ed io sudo sudor di morte.
Leccardo. Eccovi il mantello: fatevi vento, rinfrescatevi.